Quel che esiste è l'uomo umano: traversia
Rispetto ad altri scrittori dell’America latina decisamente più letti e più famosi, come il brasiliano Jorge Amado o il columbiano Gabriel Garcia Marquez, a Joao Guimaraes Rosa mancano forse i requisiti favorevoli a un successo ampio e rapido. Rispetto al primo non ha per esempio lo stile da sceneggiatore ed il gusto per il giuoco folclorico, rispetto al secondo manca dell’accattivante combinazione di personaggi surreali con le evoluzioni fantastiche della storia. Tuttavia, nonostante l’assenza di tali requisiti, il suo maggiore romanzo, Grande Sertao, ha avuto la prerogativa di dare vita a due schiere di lettori: coloro che lo considerano uno dei più grandi romanzi del nostro secolo e quelli che non hanno superato, nella più ottimistica delle ipotesi, le prime settanta pagine.
Pur evocando i modelli narrativi tipici dell’epica classica, Grande Sertao rimane infatti – come ebbe a definirlo lo stesso Guimaraes Rosa - un libro “diverso e terribile, consolatore e strano. […] Gli uomini non muoiono, restano incantati”, disse lo stesso Guimaraes Rosa al termine del discorso che lo insediava all’accademia brasiliana delle lettere, poche ore prima della sua morte; e non si trattava di un pensiero solo occasionale: il restare incantati è infatti uno dei temi dominanti di tutta la sua opera, e in particolare di questo romanzo, dove si può rimanere incantati ad ogni riga. Grande Sertao è una storia di briganti, di uomini in guerra, di donne appena intraviste; è la storia di un ex bandito, Riobaldo, raccontata da lui stesso ad un dottore silenzioso in viaggio nel Sertao, che non chiede mai nulla e che nella traduzione italiana è chiamato Vossignoria.
Questo personaggio si trova in una posizione analoga a quella del lettore, dato che ascolta come lui la storia, come lui è supposto più colto del narratore Riobaldo e come lui non interviene mai nel suo monologo-confessione, così che il lettore, identificandosi con Vossignoria, può sentirsi parte in causa del racconto, interlocutore diretto del narratore.
L’intreccio del romanzo è complesso, inutile proporne qui uno schema che risulterebbe, per forza di cose, semplificatorio. Più facile è invece accennare ai personaggi (almeno a quelli principali, perché gli altri sono moltissimi) e alla vicenda, che sotto certi aspetti ricorda quella degli eroi Omerici che si davano battaglia nella campagna intorno a Troia. Come nell’Iliade si tratta infatti di una guerra che continua, che pare non dover finire mai, tra uomini più o meno valorosi, tra capi dai caratteri diversi od opposti.
Joca Ramiro è il capo supremo, la figura solare del romanzo; quando compare per la prima volta ne abbiamo già sentito parlare, lo si è già atteso a lungo. Appare su un cavallo bianco, su una sella bordata. “Lui era uomo di spalle larghe - racconta Ribaldo - la faccia grande, molto colorito... di un bello senza asprezza. La gente lo guardava senza posare gli occhi. La gente aveva perfino paura, con tutta quella ruvidezza di vita, di poter fare male a quell’uomo superiore, di ferirlo, di offenderlo. E, quando lui andava via, quel che restava di più nella gente, come gradevole ricordo, era la voce. Una voce senza stilla di dubbio, né di tristezza. Una voce che continuava.
Joca Ramiro ha il suo contraltare psicologico in un altro grande capo, ingegnosissimo e altrettanto coraggioso, un po’ donchisciottesco, astuto e ironico, versatile e scimmiesco, colui che iniziò Riobaldo alla vita del Sertao: “Ze Bebelo capiva le persone a volo. - racconta il suo segretario e luogotenente Riobaldo - In condizioni normali pescava, cacciava, ballava qualsiasi ballo, esortava la gente, indagava a proposito di qualsiasi cosa, prendeva a laccio i buoi o li affrontava col pungolo, s’intendeva di cavalli, suonava la chitarra, fischiettava musiche (...). Senza meno, si entusiasmava per qualsiasi cosa stesse accadendo: pioveva, lodava la pioggia; qualche minuto dopo apprezzava il sole. Per Ze Bebelo il mio migliore ricordo è sempre pronto caldo” - dice ancora Riobaldo, che appare sempre attento alla personalità dei suoi capi prima di divenire capo a sua volta.
E ve ne sono molti altri di jaguncos, cioè di briganti, e il narratore li descrive volta a volta, con schizzi brevi, con analisi introspettive che partono da ciò che ha sentito dire sul loro conto, abbandonandosi, con una lingua colloquiale e tuttavia semi inventata, a mimare i caratteri, le asperità e gli slanci dei suoi. compagni jaguncos, e mostrandosi tanto ricettivo da essere quasi oppresso dalla loro vicinanza, dall’intensità della sua stessa attenzione.
Tra i luogotenenti di Joca Ramiro vi sono grandi personaggi: per esempio Medeiro Vaz, uomo ossuto “con la nuca enorme, la testona mezza bassa;” o il Sor Candelaio, “uomo forzuto, uomo di furia”, che nel momento del fuoco balzava davanti a tutti gridando come un ossesso; fino ai due giuda, i traditori: Riccardone e l’Ermogene. Quest’ultimo è una sorta di controfigura del diavolo, “un uomo che ricavava piacere dalla paura degli altri, dalla sofferenza degli altri; un uomo – dirà di lui Ribaldo - che non era stato finito”.
Il Diavolo è uno dei personaggi, o dei temi, del romanzo. Parlando con Vossignoria, amico ma estraneo, Riobaldo pare ricavare più volte, ma sempre provvisoriamente, la convinzione che il “Tale”, il “Rinnegato”, il “Cane”, il “Cramuglione”, il “Piè d’anatra”, il “Sozzo”, lo “Sciancato” (troppi i suoi nomi per elencarli tutti), non esista.
Varie cose però, e varie volte, lo riconducono in dubbio, e una di queste certamente è l’esistenza dell’Ermogene, un uomo che può essere giusto odiare, “perché è perfino con l’aiuto dell’odio che si ha per una persona che l’amore per un’altra si fa più forte”. L’altra persona cui si riferisce qui il narratore è, anche lui, un jagunco, il solo con cui Riobaldo stia in un’intimità certa; è Reinaldo, Diadorim, il bambino dagli occhi verdi, “la bocca più che bella, il naso lievemente affilato”. Era stato lui ad insegnarg1i, un giorno in cui “il sole batteva sul fiume e le isole erano chiare”, ad osservare il Manuelzinho del greto, “sopra la rena liscia, le lunghe zampette rosse, tra tutti l’uccellino più bello gentile che esiste”.
Accanto al suo amico Diadorim, Riobaldo è come stordito o incantato, amicizia ambigua, con gelosia, come un amore. “Di solito, quando si comincia a provare amore per qualcuno, nel tran tran dell’essere, l’amore attecchisce e cresce perché, in certo modo, uno vuole che sia così, e va, nella mente volendo e aiutando; ma quando è destino dato, uno ama tutt’intero fatale, per bisogno d’amore, ed è un costante trovarsi davanti a sorprese”. E Riobaldo sarà effettivamente sorpreso, con Vossignoria, col lettore, un’ultima volta e drasticamente, nell’agnizione finale, quando molte cose diverranno chiare e la storia diventerà un’altra storia. Il narratore porterà a termine il suo racconto come sempre: confusamente, lucidamente; usando aggettivi con funzione avverbiale, sostantivi come aggettivi, scivolando di metafora in metafora con un’agilità e un’intensità letteraria paragonabili a quelle di Dante, con uno sguardo creaturale e tuttavia analitico, melodioso, obiettivo.
Con un respiro epico che fa pensare a Omero, digressivo come in una chiacchierata piena di scorciatoie, con una lingua musicale, evocativa e avvolgente, questo libro si chiude com’era iniziato, con un nonnulla di sapienza. “So qualcosa di me?” - si chiede alla fine il narratore: “l’amabile Vossignoria ha ascoltato”. Ha confermato, col suo silenzio, l’idea di Riobaldo: “il Diavolo non c’è. È quel che dico, se fosse..., quel che esiste è l’uomo umano. Traversia”.
Joao Guimaraes Rosa: Grande Sertao, Feltrinelli editore.