Ribelli e mancati

  
                        Il tempo degli assassini. Un saggio su Rimbaud di Henry Miller.


   “Rimbaud rappresenta tutti i crimini e i moti della pubertà” - scriveva Paul Valéry nei suoi Cahiers:  “atti solitari, notti impossibili, cattiva coscienza anche in un angelo sapientissimo, intensa commedia intellettuale, tensione degli estremi nutriti da lunga inazione”. Ma proprio il coltivare questa cattiva coscienza e l’esasperare tale “commedia” comportò, secondo alcuni insigni critici, il principale limite della sua opera poetica: una certa involuta ricercatezza letteraria saldata a un forzoso vitalismo. Basti citare a proposito il giudizio di Croce, secondo il quale Rimbaud  tentò, “mercé la vita lazzaronesca o bohemienne”, di accumulare materiali atti ad “eccitare artificiosamente una impossibile poesia”.
   Pur divergendo nelle valutazioni, Valéry e Croce concordano sul nesso provocatorio che sussiste  tra la vita di Rimbaud e la sua poesia. Entrambi  non soffermano però abbastanza la loro attenzione sul fatto che il poeta francese dette inizio alle proprie scorribande nell’esistenza al termine della sua stagione poetica, quando la sua ispirazione lirica si era consumata e nel tentativo di prolungarne la lucidità estenuante egli cercò di commisurarvi la propria vita a venire.

   La particolare relazione che intercorre tra la vicenda umana di Rimbaud e la sua produzione letteraria è stata invece colta in modo chiaro e convincente da Henry Miller. Dopo Max e i fagociti bianchi – dove, nel saggio su Proust e su Joyce, Miller aveva dato prova di una penetrazione psicologica inusitata per la critica ufficiale – ne Il tempo degli assassini lo scrittore americano professa la sua affinità col poeta francese, evidenziando i tratti comuni della loro esperienza. Le vite dei due scrittori furono, come nota lo stesso Miller,  simili e speculari: “Rimbaud visse la sua grande crisi quando aveva diciotto anni, allorché la sua vita aveva raggiunto il culmine della fama. Da quel momento essa è uno sconfinato deserto. Io giunsi alla mia quando avevo trantasei o trentasette anni, che per Rimbaud fu l’età della morte. Da quel momento, la mia vita comincia a fiorire. Rimbaud dalla letteratura passò alla vita: io ho fatto il contrario”.
   Nel suo saggio Miller scandisce gli episodi salienti che avvicinarono entrambi alla letteratura: una madre implacabile e infelice, una ragazza dagli occhi violetti, una noia inguaribile che, a volte, si trasformava in un’acuta sensazione di vuoto allo stomaco. Questi episodi non sono però sufficienti a spiegare la sua adorazione per lo scrittore che, fatta forse eccezione per Dostoevskij, è quello da lui in assoluto più amato.  - “Sarà forse perché il suo fallimento è così istruttivo” ? – si chiede Miller – “o forse perché ha saputo resistere fino all’estremo? Lo ammetto - conclude -: io amo tutti gli uomini che vengono detti ribelli e mancati”, e sebbene “non voglia darmi ad intendere che egli sia grande come altri scrittori che potrei nominare, c’è in lui qualcosa che mi tocca come nessun’altra opera d’uomo. Nulla di quanto egli dice ci è alieno, per ostico, assurdo, difficile che sia da capire”.

Henry Miller:
Il tempo degli assassini. Saggio su Rimbaud.
Sugarco editore