Santità del vero genio

  Qualche osservazione in margine a Simone Weil sull’arte, la bellezza e la genialità.

 

   Alcune parole che una volta erano usate con disinvoltura e una certa frequenza sono divenute ormai desuete. Parole come “bene”, bontà” o “virtù”, sembrano addirittura divenute oggetto di una censura di massa. Specularmente, anche termini che erano da sempre considerati il loro opposto, come “cattivo” o “cattiveria”, sembrano andati incontro ad un analogo destino. Al loro posto, si preferisce in genere usare parole che non hanno un vero e proprio opposto morale, come ad esempio l’inflazionato “stronzo”, un termine dotato di un certo potenziale offensivo che abbraccia una gamma di significati diversi: non significa infatti soltanto o necessariamente “cattivo”, ma può alludere decisamente anche ad una certa stupidità, scemenza, superficialità o falsità. In ogni caso, con il suo uso si evita d’imbarcarsi in una valutazione propriamente morale, che in un’epoca di avanzato nihilismo suona quanto mai inopportuna.

 

   Simone Weil fornisce una spiegazione di questo fenomeno: secondo la filosofa francese “il bene è disprezzato non solo nella storia ma in tutti gli studi proposti ai giovani; e costoro, una volta adulti, trovano nel nutrimento che viene offerto alla loro mente solo dei motivi per rafforzarsi in quel disprezzo. È evidente, è una verità divenuta luogo comune fra i giovani e gli adulti, che il genio non ha nulla a che fare con la moralità. E così noi proponiamo all’ammirazione dei giovani e degli adulti, in ogni campo, solo il genio. In ogni e qualsiasi manifestazione del genio, essi vedono esibirsi impudentemente l’assenza di quelle virtù la cui pratica viene loro, d’altra parte, raccomandata. Che cosa se ne può concludere, se non che la virtù è l’appannaggio della mediocrità? Questa convinzione è penetrata così a fondo che la parola <<virtù>> è ormai ridicola; essa che un tempo era carica di significato come le parole <<onestà>> e <<bontà>>”.[1]

   Già, il genio, l’originalità, il successo anche quando autoproclamati o indotti dai media sembrano costituire gli unici punti di riferimento che godono di qualche autorevolezza.  Ora, pur essendo vero che il genio non ha rapporti con la moralità, ciò avviene secondo Simone Weil proprio “perché nel genio non v’è grandezza”,[2] così come “è falso che non vi sia rapporto fra la perfetta bellezza, la perfetta verità, la perfetta giustizia; più che un rapporto, v’è un’unità misteriosa, perché il bene è uno”.[3]

   La Weil eredita questa convinzione da Platone e da altri suoi più o meno diretti discepoli e si tratta senz’altro di una delle posizioni oggi più improbabili ed eretiche tra quelle che circolano in ambito artistico ed estetico. La Weil arriva a sostenere che “c’è un livello di grandezza dove l’eroismo, la santità, il genio creatore di bellezza, e quello che rivela la verità non si distinguono più tra di loro. Avvicinandoci a questo punto, già vediamo che le grandezze tendono a confondersi. Non possiamo in un Giotto separare il genio del pittore dallo spirito francescano; né il genio del pittore o del poeta dallo stato d’illuminazione mistica, nei quadri della setta Zen in Cina; né il genio del pittore e l’amore ardente ed imparziale che trafigge il fondo della anime, quando Velásquez mette sulla tela re e mendicanti. L’Iliade, le tragedie di Eschilo e quelle di Sofocle recano in modo evidente il segno che i poeti, loro autori, erano in uno stato di santità”.[4]

   Potrebbero essere in effetti molti i poeti, gli artisti o gli scrittori che, anche per diverse ragioni, sembrano dotati di un certo alone di santità: tra questi, oltre a quelli già suggeriti dalla Weil, probabilmente Borges, per la sobrietà paziente  che contraddistingue la sua prosa; alcuni grandi scrittori russi, come Tolstoj, Turghenev o Dostoevskij, per l’afflato etico che attraversa le loro storie e la vita dei loro personaggi; poeti come Machado, Jimenez, Sbarbaro, Caproni, Penna, Pessoa e molti altri ancora per l’innocenza nello sguardo che hanno saputo conservare nell’era della modernità, in cui invece dominava il culto postromantico della genialità. Ma si potrebbero aggiungere a questo breve incipit di una lista troppo lunga per essere qui trascritta una gran quantità di molti altri grandissimi creatori di bellezza, di capolavori non contaminati dalle mode o da un certo eccessivo intellettualistico autocompiacimento, come in molti altri autori appena meno <<grandi>> è in effetti avvenuto. Nei primi, a differenza di quanto è accaduto con questi ultimi, lo spessore artistico tende a confondersi con quella specie di santità di cui parla la Weil, o almeno con l’illusione ottica di una santità che si rivela però così, anche in questo modo, non meno reale, e di certo non meno significativa sotto il profilo estetico.

   Resta dunque da chiedersi, di nuovo con la Weil, come sarà possibile insegnare a dei giovani a leggere e ad apprezzare dei <<classici>>, a riconoscere i capolavori tanto del presente che del passato quando tutto intorno a loro li spinge a coltivare l’idolatria della genialità e del successo piuttosto che educarli a discernere quell’alone di santità che emana dalle grandi opere, ponendoli, per esempio, in condizione di comprendere e distintamente avvertire che “Re Lear è frutto diretto d’un puro spirito di amore” e che “la santità splende nelle chiese romaniche e nel canto gregoriano. Monteverdi, Bach, Mozart furono esseri puri nella loro esistenza come nella loro opera”:[5] la felicità che si può provare ascoltando la loro musica è solo un ultimo e decisivo effetto di questa corrispondenza.



[1] S. Weil, La prima radice, trad. it. Milano, 1990, p. 210.

[2] Ivi, p. 211.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.