Piero Martinetti, Simone Weil e l'attualità del marcionismo
Piero Martinetti e Simone Weil sono morti entrambi nel 1943 e si può presumere che ignorassero reciprocamente le loro opere. Ebbero entrambi atteggiamenti pubblici intransigenti verso il fascismo e il nazismo: la Weil tornò appositamente in Europa dagli Stati Uniti per combattere Hitler e Martinetti fu l’unico filosofo tra la dozzina di professori che su 1200 accademici italiani si rifiutò di prestare giuramento al regime. Inoltre, entrambi mostrarono qualche simpatia per il marcionismo.
Marcione di Sinope fu un eretico della metà del secondo secolo che considerava il Vecchio Testamento come il prodotto di un Dio che aveva tutti i pregi e i difetti dell’umanità e la cui legge risultava da una miscellanea di giustizia e di arbitrio, di amore e odio. Il Messia che aveva promesso non era mai giunto sulla terra, mentre un altro Dio, quello che aveva ispirato i primi tre vangeli, aveva mandato suo Figlio, Gesù Cristo, nel mondo per liberare gli uomini dagli effetti della materia e della legge di quel primo Dio.
Secondo la lettura che viene fornita da Ernst Bloch, Marcione fu colui che “cercò di strappare radicalmente Gesù dal quadro biblico-giudaico durato fino ad allora. E ciò avvenne, notiamolo bene, senza una qualsiasi tensione o inimicizia verso i Giudei (Marcione venerava il giudeo Paolo come il suo maestro); ma nulla Gesù aveva in comune con la Bibbia di Jahvé fintanto che essa rimane tale. Marcione non solo poneva il messaggio di Cristo in contrapposizione con l’Antico Testamento, ma ne faceva qualcosa di assolutamente diverso; la rottura con l’Antico segue dunque al salto dell’Evangelo nel nuovo che appare senza confronti. In tal modo è in primo luogo a partire da Marcione che si è sviluppato ed è stato posto in risalto in genere il concetto di un Nuovo Testamento” (E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, trad. it. Milano, 1971; ed. cit. 1983, p. 227).
Simone Weil, pur non rinunciando all’idea di un Dio unico, avverte la differenza e la contraddizione tra i due Testamenti: secondo la sua concezione Cristo avrebbe integrato il primo lato di Dio, quello compatibile con il Vecchio testamento, con quello contenuto nel nuovo, dove Dio è agape; ma la differenza tra il primo e il secondo rimane: il giudice e creatore dell’antico testamento è cosa ben diversa dall’amore di cui il figlio porta la croce nel Vangelo.
Martinetti invece considera Marcione un profondo rinnovatore del Cristianesimo specialmente in virtù della sua distinzione tra un Dio creatore e un Dio redentore: “il dio creatore non è un principio cattivo, ma un principio inferiore. È potente ma non infinitamente saggio, giusto ma senza bontà, limitato, dispotico. Questo mondo limitato, pieno di miserie e di controsensi, haec cellula creatoris, è la vera immagine del dio che lo ha creato. Spogliato del simbolismo mitico, questo dio è l’anima del mondo, il principio della vita empirica” (P. Martinetti, Gesù Cristo e il cristianesimo, Roma, 2013, pp. 331-332). Si tratta del dio del vecchio testamento, di cui l’uomo è una creatura e un’immagine. E perciò di qualcosa che è debole e mortale. Viceversa il dio redentore, “il padre celeste di Gesù, è pura bontà. <<sola et pura benignitas>>; la sua rivelazione è la rivelazione d’un liberatore: questa sola è un’attività degna di Dio. Egli è un Dio infinitamente più alto che il Dio creatore, <<Deus superior et sublimior>>, e appunto per questo ignoto al mondo; il dio di Marcione è il dio straniero, <<naturaliter ignotus, nec usquam nisi in evangelio revelatus>> (ivi, p. 332; la citazione di Martinetti è da Tertulliano, Adversus Marcionem, V, 16).
La tesi che Martinetti riconduce a Marcione circa la necessità per Dio di rinunciare alla sua perfezione morale per conservare la sua onnipotenza verrà sostanzialmente rovesciata da Hans Jonas, il quale giunge a mettere in dubbio l’onnipotenza di Dio dopo aver a sua volta rilevato una contraddizione tra questa e la sua bontà. Dopo la Shoah e Auschwitz, secondo Jonas bisogna rinunciare all’idea che Dio possa essere ad un tempo onnipotente e infinitamente buono: in tal caso, infatti, l’olocausto non sarebbe stato possibile; e poiché non avrebbe molto senso credere in un Dio onnipotente ma moralmente non perfetto è più sensato rinunciare al primo requisito piuttosto che al secondo. In quest’ipotesi, con la creazione Dio si sarebbe spogliato di uno dei due tratti essenziali che gli sono tradizionalmente attribuiti: “affinché il mondo fosse e fosse per se stesso, Dio deve aver rinunciato al proprio essere; deve essersi spogliato della propria divinità per riaverla di nuovo nella odissea del tempo”. In questo senso può diventare comprensibile il motivo per cui Dio potrebbe aver creato un mondo tanto imperfetto, o comunque che abbia accettato che diventasse tale in seguito alla libertà concessa all’uomo, consentendo Aushwitz e l’olocausto. Il fatto che il mondo non sia perfetto può significare infatti “o che non vi è un unico Dio oppure che quell’unico Dio ha concesso qualcosa all’Altro da sé, da lui stesso creato: uno spazio per agire e per determinare insieme ciò che è oggetto della sua preoccupazione”. Il che significa, in altre parole, che Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza, e che vi ha rinunciato proprio per preservare, insieme al libero arbitrio umano, il proprio amore infinito e la sua stessa perfezione morale. Rovesciando la tesi che Martinetti attribuisce correttamente a Marcione, il quale non riconosceva la perfezione morale del Dio creatore, per legittimare la nostra immagine di Dio bisogna dunque, secondo Jonas, “rinunciare alla dottrina tradizionale della assoluta, illimitata onnipotenza divina” (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, trad. it. Genova, 2004, pp. 21 e 24).