Ricordo di Pietro Ceretti: un artista di strada, un poeta e un filosofo erroneamente poco celebre
Nel discorso commemorativo del primo centenario della nascita di Pietro Ceretti (Intra, 1823-1884) un altro piemontese, Piero Martinetti (Pont Canavese, 1872, Cuorgnè 1943) ricorda che un elemento importante della sua formazione umana e culturale furono i viaggi, “che egli intraprese dall’età di ventun anni per tutta l’Europa, errando, come i saggi antichi, senza meta, col solo fine di vedere la varietà degli uomini e dei loro costumi. Egli viaggiava a piedi, con la massima semplicità”. Viaggiava fingendosi operaio o bracciante e accompagnandosi talvolta a zingari o vagabondi. A Parigi una volta entrò in un’aula della Sorbona per ascoltare una lezione e dalla reazione basita dei presenti si capisce che il suo aspetto non doveva essere dei più rassicuranti.
Riferendosi a questo periodo giovanile della sua vita lo stesso Ceretti lo descrive così in una delle sue opere (Viaggi utopistici, 1878): “in questa somma libertà della mia vita errabonda ho praticato molte cose, che nel mio paese nativo sarebbero titolate inqualificabili stramberie: per esempio, ho potuto vagolare con un organetto per divertire i popolani, i ragazzi, e le ragazze che mi ballavano intorno, mentre un mio intrinseco vagolava per la debita questua. Ho potuto associarmi con un gessino e un girovago portatore di organetto, i quali erano vagabondi mio pari. Mi ricordo che in simili circostanze si cenava con una zuppa nel medesimo tegame, che serviva per i tre, e ci coricavamo qualche volta in una sola camera”.
Ma chi era questo curioso personaggio, artista di strada e intellettuale, poeta e scrittore, suonatore di organetto nonché autore di ponderosi trattati filosofici di matrice hegeliana? Sicuramente, a distanza di circa un secolo e mezzo dall’epoca in cui ebbe a vivere, la sua celebrità non si è mai discostata molto da quella, piuttosto inconsistente, su cui aveva esercitato la sua autoironia. Il gusto della solitudine e un sereno misantropismo gli consentirono infatti di tenersi alla larga dalla tentazione di voler conquistare successo e fama, e ciò anche grazie a una notevole dose di rigore intellettuale e all’esercizio dell’astinenza pubblicistica.
In un’altra sua opera autobiografica, La mia celebrità – evidentemente un titolo autoironico – Ceretti racconta come, per sottrarsi alla vita vegetativa che gli era stata assegnata dalla società iniziò “a vagare sulla montagna, contraendo l’amore della solitudine e della meditazione, e subendo avventure di vario genere”. Poté così acquisire una notevole robustezza spirituale oltre che fisica, imparando nel contempo a considerare la seconda assai più precaria e contingente della prima. A poco a poco, apprese la difficile arte di vivere tra gli uomini come uno straniero tra gli stranieri, “ascoltando e recitando il loro gergo convenzionale”.
In questa condizione, nacque prima la sua vocazione poetica e letteraria, e poi quella speculativa, e con essa la scoperta di Hegel, con il quale condivide l’idea che le cose, gli astri, gli animali siano “come i geroglifici in cui è scritta la storia di quel dio vivente che è il pensiero”. Tutto l’universo gli appare quindi come un processo non meccanico, e dotato invece di un’organica unità spirituale.
Hegel non fu però il suo unico o principale nutrimento: anche Leopardi e Schopenhauer, che chiama suo “intrinseco amico”, costituirono per lui interlocutori pressoché costanti. La sua convinzione profonda, quale la si può evincere da molte sue opere di notevole spessore, in ogni senso, è che ogni coscienza esiste non come un Io relativo all’Altro, come un soggetto giustapposto ad un’oggetto, ma “come unità della coscienza che contempla l’Io e l’Altro reciprocamente esteriori”. Sia il mondo cosiddetto oggettivo sia quello soggettivo sono nella mia coscienza, che è dunque l’unica vera realtà, “dato che nulla è nella coscienza tranne che la coscienza stessa”. Per questo solo chi è consapevole di vivere dentro un sogno, dentro una rappresentazione della realtà, ha accesso all’unica realtà che ci è dato sperimentare.
Sarebbe assai complesso cercare di spiegare qui come, nel pensiero filosofico di Pietro Ceretti, si articolino questi riflessi del pensiero di Schopenhauer con altri prevalentemente hegeliani, ma nella fase finale della sua vita i tratti più originali della sua riflessione trovarono un’espressione adeguata nella narrazione della sua malattia e dei suoi effetti sul suo spirito, che arrivò proprio in questa fase dolorosa, avendo compiuto la sua orbita, al suo centro. Si tratta di un centro privo di soverchianti slanci di piacere o di dolore, in cui c’è consapevolezza piena che, se l’Io è mortale, “non è mortale la coscienza generale di cui il mio Io è storico momento”. Questa coscienza non è né soggettiva, né oggettiva, ma un principio generale in cui si svolgono tanto la soggettivazione che l’oggettivazione. In questa “Coscienza assoluta”, o “Io assoluto” – che si trova in forma simile nell’idealismo mono-coscienziale di Macedonio Fernández (Buenos Aires, 1874-1952) un amico e maestro di Jorge Luis Borges - crescono e muoiono “gli io momentanei figlioli del tempo”.
Come in Spinoza, il mondo della manifestazione dello Spirito è per Ceretti “soltanto una delle infinite forme possibili della realtà ed ha il suo fondamento in un principio superiore, che Ceretti chiama la Coscienza”. Secondo Martinetti - che ebbe occasione di conoscere la sua opera grazie a Pasquale D’Ercole, che di Ceretti fu il massimo studioso e biografo – si tratta di “un principio assolutamente indeterminato, che potrebbe con egual diritto dirsi l’assoluta Incoscienza o l’assoluto Nulla”. Lo si può paragonare “a una specie di Io assoluto, la cui vita si svolge in una infinita molteplicità di mondi e di esseri e che tuttavia non si esaurisce in alcuno di essi: un’unità, la cui natura non può da noi venir definita in nessun modo e tuttavia si esprime nelle leggi generalissime a cui tutti gli esseri obbediscono. Ceretti stesso riconosce l’affinità della sua dottrina con quella dei mistici di tutti i tempi: solo mette in rilievo che questo impenetrabile Assoluto è per lui una Coscienza, che, come l’Io di Fichte, svolge da sé il mondo, anzi un’infinità di mondi. Non ci dobbiamo perciò meravigliare – continua Martinetti - se qualche volta, come i mistici, chiama questa Coscienza l’infinito nulla e prende per simbolo della sua filosofia lo zero, che è l’indeterminazione assoluta e significa tutto perché non significa niente”.
Ogni singola esistenza non è in fondo che un episodio nel dramma che si svolge entro questa Coscienza assoluta, un suo effimero e più o meno luminoso riflesso. Si spiega così anche l’origine del male, che “sta in noi, nella limitazione soggettiva della nostra coscienza, per cui non vediamo noi stessi come ciò che veramente siamo, cioè come semplici momenti d’un’unica vita infinita che è superiore alle determinazioni ed alla morte: sta nel crederci legati irremissibilmente ad una forma particolare ed alle sue vicissitudini”
Ogni spirito finito, “anche lo spirito dell’umanità, è perituro: soltanto la Coscienza assoluta non muore. Ma questo non vuol dire che l’individuo debba perire interamente: vi è una parte della nostra coscienza che non perisce, quella per cui ci identifichiamo con la Coscienza assoluta.” Ma allora – si chiede Martinetti - come si spiega “che una dottrina così originale, che mette a buon diritto il suo autore al fianco dei più grandi nostri filosofi del secolo XIX, passò quasi totalmente inosservata?”
Le cause di questa scarsa celebrità secondo Martinetti sono riconducibili “in parte all’autore stesso: al fatto che la sua prima grande opera edita, la Panlogica, è scritta in uno stile oscurissimo ed in un latino poco accessibile: al difetto, anche negli altri scritti, di concisione e di chiarezza sistematica: al suo distacco dal pubblico e dal mondo della filosofia ufficiale ed erudita, che lo distolse, dopo il disgraziato successo del Sistema di panlogica, dalla pubblicazione dei suoi scritti”.
Ma se vi sono nell’opera del Ceretti “innegabili deficienze di forma, che gli tolsero, vivente, di godere di quella fama, a cui aveva diritto, e che anche oggi possono essere d’ostacolo alla diffusione del suo pensiero”, nella sua personalità vi è però anche, sempre secondo Martinetti, un aspetto degno di assoluto rilievo “che pone il Ceretti al livello dei veri, dei più grandi filosofi: e questo è la nobiltà e la purezza della sua vita, per cui ci ricorda un altro grande e glorioso solitario della filosofia, Benedetto Spinoza. La vita di Ceretti non è soltanto la vita d’un erudito o d’uno studioso: ma d’un animo alto, che accordò perfettamente la sua personalità con la sua dottrina. I suoi biografi ci hanno tramandato con accento commosso la bellezza e la purezza della sua vita famigliare: il nobilissimo amore che nutrì per la moglie, presto perduta, la cui morte sparse su tutta la sua vita un’ombra di tristezza” e il tenero amore per l’unica figlia, “a cui dedicò – come ricorda ancora Martinetti - tutta la vita e che cantò con versi di soavissimo affetto”. D’allora, si dedicò completamente alla meditazione filosofica, vivendo in modo assolutamente coerente con le sue convinzioni. In questo senso, rivela un tratto discriminante e decisivo individuato da Pierre Hadot, perché la coerenza tra la sua vita e le sue idee filosofiche lo rende un pensatore molto più simile ai grandi filosofi antichi che ai moderni e ai nostri contemporanei.
Dopo la morte della moglie Ceretti improntò infatti la sua esistenza alla massima semplicità: smise di viaggiare e considerò la ricerca della verità come la sua principale missione: “io non posso anche oggi rileggere senza una commozione profonda – scrive Martinetti - il racconto degli ultimi anni della sua vita, sacri alla meditazione e al dolore; quando in mezzo alle gravi e continue sofferenze della malattia, che lo trasse alla tomba, continuò con stoica serenità a meditare ed a scrivere”. Anche la morte, degna d’un saggio, lo colse nella muta preghiera del filosofare: non è un caso che proprio Piero Martinetti, un altro grande filosofo italiano (l’unico che si rifiutò nel 1931 di giurare fedeltà al fascismo) oggi poco studiato e a molti purtroppo ignoto, gli abbia dedicato un così intenso ricordo e un simile attestato di stima e d’ammirazione.