Tre racconti da Tutaméia di João Guimarães Rosa

Traduzione italiana di Marco Cristellotti

 

Antiperiplea

 

E Vossia mi vuol portare, distante, alle città?

Dilungo. Tutto, per me, è viaggio di ritorno. In mansione qualunque, no; quello che ho fino ad oggi avuto, ciò di cui un poco m’ intendo e piace, è d’esser guida di cieco: sforzo destino che mi aggrada.

E mi lascerete andare ? Da quando il mio cieco Signor Tomè se n’è andato, mi vessano, mi strattonano, sospettano discorrendo. Terra d’ingiustizie.

Qui rimanemmo, i mesi, a causa della donna, alle dipendenze del deceduto. Allora, che arrestino la donna, le diano una torchiata, il marito ruffiano, così che questi spieghino per filo e per segno anche ciò che non è mai successo. La donna, terribile. Ispettore trattenga l’anima del mio Signor Tomè cieco, se ne è capace! Lui amoreggiava occulto con la donna, Sa Giusta, di questo qualcuno ebbe sentore ? Io provvedevo e governavo.

Non mi picco di come fu che si precipitò nel burrone, che rese l’anima. Decido? Riconosco: che le cose cominciano per davvero là dietro, di quel che c’è, ricorso; quando rifinite succedono, già sono scomparse. Sospiri. Dichiaro, ora, definisco. Vossia non m’ha chiesto nulla. Do risposta solo a ciò che nessuno m’ha chiesto.

Le donne, pazze di lui, come un Gesù, per averci la barba. Ma lui mi chiedeva, prima ─ “È bella?”. Io informavo che sempre. Per me ogni donna vive bella: le rosse, le more, le bianche, nelle strade. Lui gli piaceva ─ un cieco completo ─ per non poter  neanche tradire le loro forme né i loro tratti ? Signor Tomè s’insuperbiva, lavava con sapone il corpo, chiedeva vestiti in carità. Io bevevo.

Deambulavamo, da luogo a luogo, senza precauzione che già si stava nel venire quì. Ho colpe ricoperte. Noi per strada, tirando un cieco, c’entriamo che manco avanzassimo navigando ─ al contrario di tutti.

Mio padrone, no. Io reggevo ─ lui accompagnava: pigliando tutti in punta di bordone, cavo, con l’imbottitura in piombo. Bevo, per imporre in me amori degli altri? Ragliavano, che, già passato dall’età di guidare ciechi, di buona lena, lo stesso io così, imbotulito, ingobbito, testone. Il popolo le sa le scortesie. Allora, anch’io, per non vedere, ho da ricordare l’altrui? Bevo. Trinco fino a dormire, vedo altre cose. Lui c’aveva da aspettare, mentre finivo di ubriacarmi, sdraiato. Mi dava consigli. Cieco supplica di vedere più di chi vede.

C’aveva invidia di me: non vedeva che ero difettoso brutto. Pieno d’odio, perché solo io potevo vedere quelle intere donne, cui lui piaceva! Condurre un cieco è come trascinare un condannato, di nessun potere, ma che indovina più di noi? Amici. Il rovinato davvero può ridere solo del cencioso. Mi veniva voglia di leggero salirgli in groppa, senza freno, senza sperone...

E qui noi s’è giunti, per l’appunto. La donna vide il cieco, a mo’ di non mi dire, con tutta la forza in serbo. Questa era la diversa, molto ordinaria: brutta, brutta nonostante i poteri di Dio. Ma bramava, fatale. S’inginocchiò per chiedermelo, perché al mio Signor Cieco mentissi. Procedetti. ─ “Questa è bella, la migliore!”─ gli affermai, parola mia. Il cieco lisciò la barba. Lui passeggiò la mano sulle sue braccia, ardimento di costumi. Soffiò caldo come l’occhio d’un tizzone. Non ebbi alcun rimorso. Ma i due respiravano, piansero, mielosi, dignitosi.

S’incontravano, ogni notte, io preparando in anticipo per loro il campo, il modo e il comodo, e me ne stavo da lontano, occupandomene. Il marito la schifava, uomo sdrucciolo, di stramberie, manco veniva a casa. Qualcuno malignò? Cieco nasconde più di chiunque altro, qualunque bazza. E chi sta di guardia, come me? Lei mi dava cachaça, cibarie. Lui mi anticipava il giorno di festa. Mi viziavano. E che, poteva durare, così, a buona pesa?

La vita non se ne sta quieta. Finché lui non se ne cade nel buio, nella scarpata, mortale. Veniva da in-le-delizie. La donna qui persiste ─ per miagolare ai cani ed abbaiare ai gatti. Che c’entro io con il caso... Tutti si piccano di chiamarmi ladrone. Cieco non è chi muore?

Tutti avendo bisogno di me, negli intervalli. La donna, matta, insistendo che a lui riproducessi le sue bellezze a venire. Il Signor Tomè, da questi nostri solitari non avversi discorsi traendo gelosia, con polemiche, malumori. Ma io riportavo falseggiato leale: che gli occhi di lei lasciavam brillori, un carato dei denti, quelle faville, il sommo colore delle guance. Signor Tomè, in barba al botto, sorbiva il diletto di descrivermi che l’è l’amore, lui non disamorava. Ch’è cieco solo chi non deve vedere? Ma il marito, immorale, questo con me beveva, voleva con la mia complicità prendere i soldi nella saccoccia... Io ubriaco e mingherlino, nano, c’ho da emendare la pazzia, la cecità di tutti?

Lasciassero pure ─ ed io deducevo e combinavo. Ma nessuno aspetta la speranza. Vanno fino in fondo, al lumicino, a più non posso, all’impazzata. Al più, urgo; m’intenda. Qui, che lui si disastrò, gli altri carcano di speculare ed affrontarmi, che mi ci imbatto, da chiusa a principio, senza fiume né ponte.

Giorno che diede mala notte. Lui s’errò, sul bordo del precipizio, cadendo e nero pesto morendosene. Non può esser stata solo malasorte, iella? Di solitario andar braveggiando, ingelosito, bue buffando, se ne scivolò... e, così, rotto insanguinato, terribile, della terra.

 

O il marito, in fregola per uccidere e rubare ─ ha spinto quell’altro giù nel burrone ─ di suo proposito? Cieco corre maggior pericolo in notti di luna piena...

E Signor Tomè, verso il finale, variava: dicendo che cominciava di nuovo a vedere! Deliri, di passione, brama, per volere, troppo, avvistare la donna ─ i tratti ─ quella bellezza che noi tre, nel disabbrutto, noi s’era tanto inventato. Intravvedendo che lei era reale di figura cattiva, non può lui, dolente deluso, essersi davvero suicidato, nel precipizio? Il peggior cieco è quello che vuol vedere... Morto stecchito.

O lei, visto che lui stava per vedere, c’aveva da quanto prima voler distruggere quello spavento, spingere il tale, precipiziosa ─ il visionabile! Carattere di donna è semi e bucce. Lei, nell’ultimamente, già se ne tremava, di pavori d’amore, le volte che lui, palpatore, con forti ansie, maneggiava la sua faccia, auditivo, tutto dita. Aria che accade...

Se in quell’ora me ne stavo ubriaco, bevuto, quando precipitò, cos’è che ne so? Non mi intendano! Dio vede. Dio intontisce e uccide. Quello che noi si spera è ciò che resta della vita.

La donna dice che m’accusa del crimine, senza arrossamenti, se con lei non sono audace... Il marito, terribile, piagnone, dice che l’amante ero io... Terribili, gli altri, mi minacciano, fino alle ingiurie... Vossia non dice nulla. Ce l’ho e non ce l’ho il diavolo, sa ? Mi arrestino ! Mi rilascino ! La donna sia quasi gravida. Mi chiamo Prudenzignano. Ora il cieco non vede più... La colpa ricade sempre sul guidatore ?

Solo se c’ho ancora altre cose, da venire, continuate da ricominciare; allora Dio non è mondiale ? Temo che sono io quello terribile.

E Vossia mi vuole ancora portare, nelle sue città, amichevole?

Decido. Chiedo per dove vado. Accetto, già a buon punto, nell’andar piano di andare lontano. Tornare, al fine di andata. Ripenso, non penso. Mi metto a insultare il mio morto, quando le nostalgie mi prendono. Grande città, la gente lì è infinita.

Vado, a guida di ciechi, servo di padrone cieco, vagandàce, aduso nel differente, con Vossia, Signor Sconosciuto.

 

 

 

E vedevo il bestiame tutto bianco

L’anima mia era di fanciulle

Porandiba

 

 

Roggia dei tapiri

 

Ma dove ─ lo spopolato, il paesello palustre, in brutto o cattivo sertão ─ dove potevano esserci adombramenti? Là si portò Drizilda, di manco quindic’anni, che più non piangeva: soda squagliandosi, terminabilmente, vedova sola. Scontando che la dimenticassero. Lei era quasi bella; le si allungavano i capelli. Il fiore è solo fiore. L’allegria di Dio se ne va vestita di amarezze.

Dai e dai dolendo, a disvalenza, per nel ritiramento stare sempre a vivere, dal giorno del disinganno. Il fratello le aveva ucciso il marito, sregolato, ribelle, che la disdegnava. Di non far figli? Estranei incolpandola, sonante il costume, e la folla dei parenti: fatata al male, nefastata. Tanto va a nulla il fiore, che un giorno si dispètala.

La mandarono e volle, furtivamente, per non affrontare nessuno, foderarsi di ripulse, dimmi-dimmi, pietà. Ogni grande distanza può essere celeste. Dietro la ripiegata cordigliera, all’ultimo loco del mondo, fin di suono, dall’andato altro lato. Roggia dei Tapiri ─ dove solo restavano vecchi, oltre alle sovrappiù secche vecchine, tristilente. Perché era così che era, essendoci molta realtà. Che facevano queste anime?

La rondarono ─ solerti, dubitando, diverse ─ fino al gracidare della prima rana. Né trovavano il coacervo di domande, dentro altre ore. I loro occhi ponevano parole e frasi.

 

Venne a loro la ragazza, primóre, più vaga e chiara di un pensiero: dovevano, a fredda percezione, tenersela nel male o nel bene.

Di là ─ posticino attraccato ed arduo, senza accadéri ─ uomini e donne presto partivano, per guadagno lontano; e quella, arrivava? Sittanto non saputa né possibile, l’ordinario non la facendo scarsa: come ogni essere, coagìto a tacere, commuove.

Sole, poi, ancora disputavano, a bisbigliare, in ruota, le candele accese. Nessuna di loro aveva avuto in dono giammai dalla vita il molto ─ che non sapevano quel che volevano ─ come un amore-romanzo, un altra guisa dell’anima. Quel che la gente sperava era la notte. Ma la vecchiaia era loro portentosa lanterna, tubavano allo Spirito Santo.

Senonché una, nonna Edmunda, con flebile voce, la benedisse: ─ Mio bianco chiodino di garofano... Un altra per lei punì, affettata inasprendosi : ─ Gente bugiarda! Sospirarono maggiori, in giro dolce, infine, tra loro intese, umidi gli occhi, con una tenerezza che era quasi nostalgia di domani.

Drizilda si depose, scossi i capelli, volesse un riparo ─ pian pianino quietante ─ nel limbo, nell’oblio, nel non abolito. Fece tensione: di travaglio, solo in superficie, inertemente attiva, curata la pena del ricordo, affondandosi i giorni, fuori già di soprassalti.

Soffriva, soffriva, mentre la notte. Colpa capitale ─ in scrupolo e raccolta, la delicata sofferenza, breve come una pena di morte, peso da nessuno sollevare. Il marito nella fossa; il fratello in prigione condannato; rivali, i due, per un’ altra donna, incerta venturosa, formosa... Dio è che sa il non venturo.

Noi ci scordiamo ─ e le cose si ricordano di noi.

A grandi linee, il luogo ─ ermo, l’aria, lunghi uccelli in corto cielo ─ nel quale, mórmore, in cupi scialli, sagge vecchine si consultavano. Qui, non avevano da stendere notizie, il molto divulgato. Si chetava la dolcezza ─ infinito monosillabo. Quel che non s’era potuto, non s’era saputo; non avendosi un ricominciare. Pagava lo sgobbo, fato, svanita in sé, occhi bassi, mentendo all’anima. Senza signore, senz’ombra, sittanto lesa; come gli altri del campo, gialli o viola, fiorellino sventurato? Un cane passava di lì, di ritorno verso qualche infanzia. Da questo tempo in avanti. La vigilavano le vegliarde, senza parole.

Tramavano già con Dio, in becco di silenzio, tutte ‘ste creature compite. Di vederla cenerentolare, si duolevano, passerotto in muta, fiore che infine sfiorisce; nemmeno potendola distrarre, dentro di sé, da questo desistere. Ma, pretendevano di più. Pigliavano, tutte insieme, la fede di mortificate preghiere, novene, scongiuri, settuppliche, ─ Dio è gloria ─ indovinavano, serie d’amore, si entusiasmavano. Loro, per il bruciare e fervore di Dio, di certo servissero, fascio di legnettina asciutta. Per il forzoso miracolo!

Si parlava di una tenerezza perfetta, ancora non esistente; il ben volere senza discredere. Mentre che, il tempo, come sempre, fingeva di passare. Le vecchine patteggiavano l’allegria di penare e seppur abbreviate andarsene ─ contando a che almeno una volta in questo sertão la spuntassero la grazia e l’incanto.

Drizilda si destava sùbita, nella disquietazione, ancora con timorose palpebre primitive. Che qui nessuno venisse ─ il mondo intero invisibile ─ solo la tardiva virtù fuori stagione, segni di Maria e di Cristo, i cani con tenerezza in le narici, farfalle terra-terra. Lei voleva la saudade. Ora pioveva ora sole, gnoso piacere, seccatura, lutte lune in chiaro di luna, nulle nubi. La sua saudade ─ tendenza segreta ─ senza memoria. Lei, maternale colle sue vecchine, custodie, bambina amante: la nonnina... La muovevano in avanti, sotto irresistibili effluvi, l’aspergevano, le segnavano con la croce il cuscino ed i capelli. Si commutava. Occhi a ricevere, la testa china di lato ad accettare carezze ─ sorrideva, in dote.

 

La sua malinconia cantava nella gabbietta; non sperare include misteriose certezze. Venivano le vecchie, la circolavano. Taluna profferiva: Ogni giorno è vigilia... ─ e molto quando. La vedevano in risboccio ─ l’ardente della vita ─ che, dai e dai, un giorno, infine, dall’asta si spezza. Pregavano, digiunavano, esigevano, tremule, poderose, cospiravano.

La nonna Edmunda, repentina, allora. ─ È morta, morta di penitenze! ─ a trionfare, in ordine, così vecchie, le altre giubilavano.

Partiva il funerale ─ Drizilda in testa, con l’invelata croce ─ passite, finali, le vecchine, al mattino, altre anime.

E veniva di là un cavallo grande, sulla punta di una freccia ─ entrante ‘a strada. In corto galoppo, il Giovane, che raccolse le redini, ciondolando, se ne scese, si scoprì. S’assignorò; occhi di dare, di lato la mano come che a carezza ─ sorrideva, padrone. Nulla; se non che la chiedeva e amava, si traspariva dal suo sguardo e presenza.

Lei lo percepì puramente; sollevò la bellezza del volto, rifiore. Andava. E disse fortino un segreto: ─ . Solo l’almeggio debole, trapalpitato, che intorno le vecchine ringraziavano.

Così sono ricordati i due in coppia ─ entreamore ─ Drizilda e il Giovane, passione di tutta una vita. Qui, nella forte Fazenda, felice che si erse e ancora oggi si ha, dove la Roggia.

 

 

 

E se le unghie rosicchiassero i bambini?

Storia immemore

 

La candela al diavolo

 

Quel problema era possibile. Teresino s’inquietò saltandogli nell’orecchio pulce irritante.Vedeva rarefarsi, e meno tenere, le lettere della fidanzata, Zidìca, fanciulla amenamente annidata a São Luis. Le donne, soli d’abbagli...Teresino invocò, si lamentò ─ già le cose s’ingarbugliavano. Lui voleva la profusione. Disamore, fastidio, incostanza, di tutto incolpava lei, che più non se ne stava nel suo conoscere. Si fece tremulo di perderla.

Sebbene, a logico rigore, ragione per tanto non s’avesse o avesse, lui se ne andava dall’incertezza all’ansia, in un dolersi, volontario dell’insonnia. Giunse a bere; solo non era la situazioncina solubile in alcool. L’amava, con tutta la debilità del suo cuore. Se ne uscì, alla provvidenza.

Al che gli sovvenne: novena, eroica. Doveva, ogni mattina, in chiesa, accendere una candela ed in ginocchio arderla, ad un qualche, stesso, santo ─ che non poteva sapere né vedere, in pro di buon effetto. Il metodo avrebbe mosso Dio, al suono della sua passione, per mirefficacia ─ il dito sul bottone, mano alla manovella ─ assicurandogli con Zidìca il futuro.  

 

Senza timore o vacillo, attaccò, recitando errato il padrenostro, fermamente però, pio, battendo i denti. Entrava in questa fede, come il gran arcangelo Michele volteggia tre volte nella Bibbia. Era d’uopo.

Ce la stava facendo, e si rianimava; nulla spicca salti come la speranza. Difficile ─ puerili umani sumus ─ era non guardare né sapere il Santo. Lì per lì, sì, pensava a Zidìca; a volte, però, pensasse un tantino a Dlena.

Al terzo giorno, ricadde, tuttavia, il cuore in punta di freccia, odiando finestre e pareti, São Luis non gli aveva mandato lettere. Chissà, s’incaponì, candela e inginocchiarsi, da soli, non bastassero ─ ragionevole non fosse dare anche una mano, aiutare con l’azione, raccoglier mezzi? Dio è ricurvo e lento. E gli sovvenne Dlena.

Tanto recente e intelligente, dagli occhi di gatta, amica, tutta attrattività, la ragazza sfarfalla. Lei stessa, bello modo, dapprincipio gli punse sulla Z il dubbio, ma ponendosi a consigliera ─ di ciò Teresino quasi si ricordava. Si rallegrò, nell’imo, cuore di fibra lunga. Venne a vederla.

Dlena l’accolse, con fine tatto di ragna a digiuno. Il suo sorriso era un prologo. E la storia prese psicologia.

Teresino ─ a tutti piacerebbe raccontar la propria vita a un angelo ─ i suoi imbarazzi mentali. Dlena l’ascoltò. Lo istruì. ─ “Donne? Disprezzo...” ─ Tch ,Tch; lei lo diceva così asciutto. Lei e il suo incanto.

Lui, docile alla sua grazia, in plastico stato di sospeso, come un animale tende l’orecchio. Lo rappacificavano i suoi occhi-paesaggio. Sì, quel che doveva, ed ora: non censure e musi turbati, nessun affliggersi, del gatto sotto la zampa, ma agguantar tempo, ripagare con la stessa moneta! Scaricato dai mali sospetti, già fatto sciente: dai pori della pelle alle cavità del cuore. Se ne usciva dal dolendo.

Proseguiva in la novena ─ all’infallir di Dio, per Santo incognito; seguìto però, quello di Dlena, a memoria ─ che se lo ricordava, fonografico. A Zidìca inviò breve lettera, scevra d’emozione, tradita la brace d’amore, insaccata in molta stoppa. Se ne tornava a Dlena, tanto quanto e tanto, camminando sottilmente. Si riappienava la luna in quei giorni.

Le mostrò quelle di Zidìca, dopo poi. Ingenuotte semplici letterine, dolci ordinarie. Dlena, tra l’altro, in esse lieve notava i gentili falli di grammatica. Aveva lei occhi che manco verdi sarebbero, se mai esistesse nome per altro e più bel colore. Il suo parere si rivelava tattica sagace, nulla può farci Iddio, d’ora in ora. Il suo discorrere triturato, ragioni per dopodomani.

Seduti i due, ombra ad ombra, tondi sospiri o voglia di sospirare. Tenerezza senza tentazione ─ fratenerezza. Teresino ubriacandosi per benino, felice come un granchio in ammollo, negli effluvi di quell’emozione. Il suo cuore e la sua testa pensavano cose diverse.

Valeva divertirsi, furtare il tempo al tormento ─ apud Dlena. Furono, a blandire il caso, la festa e cinema. ‘N un molto più; si propagavano. Teresino, esitante, fino modo, più si pareva uno scorpione in picca di sua coscienza. Zidìca ricamando il corredo... Zidìca, la dolcezza insipida dell’acqua buona, produttrice di speranze...Tanto quieto, São Luis, tanto ammodo... Il suo cuore pulsava come una malattia, lui aveva paura.

Non si sarebbero disamorati! La vita, viene s’incamminava. La novena s’era compiuta, l’ultima candela, lui genuflesso. Fece quel che poté con quel pensiero.

O cominciava a interrogarsi, destrutturandosi la sua difesa. Frescura, quasi felicità; e spine perseveranti. Idea tonta in lui si posò. Tornò in chiesa, spiò infine il santo, chiesta gran venia. Mal nulla vide nell’oscurità, santo muta alquanto di figura.

Venne la Dlena ─ al suo blandire ─ col cuore nella mano, ammanettata; gli cadde l’anima ai di lei piedi. Palpò le tasche, contraddisfatto. Di Zidìca, l’ultima lettera, s’era scordato di portarla. Gli venne da starnutire. Dal nulla, nulla ottenne.

 

Tutto quel che c’è è saudade, alternandosi con novità: diagramma matematico, in calore di laboratorio. Il diavolo non è intero né invento. Teresino si malediceva, s’immaginava piangendo tiepido, per serrata disperazione. Zidìca ─ d’altre cose aveva scritto, volubile, vaga?

Corse lui a Dlena, al sùbito ultimo atto, cùpido, ali nelle scarpe. Difatti. Il Santo non gli era servito.

Dlena, hei là! ─ modino, sorrisetto, dolo ─ stampata nel vestito, giallo con maglie rosso-castane. Fu lei che aprì l’involto; l’ah, ah, ah, dal ridere ─ rise in modo disusato. Ma si corrugò, nel mentre.

Era lei: suoi occhi senza cenere, rancordiale. La lettera strappò, sfacciata si faceva. ─ “Viva, questa!” ─ voce di festa; lo che maledicesse. Sonò, e si fece sillepsi.

Teresino indietreggiò, per la sorpresa, spavento, bruciate le dita. Il suo cuore s’impaccò. Si decise, una volta per tutte, spallucce, non più prigione. Lì qualcosa si spegneva. Dlena, ente. Nulla disse, e disse male. Solo quel che dolse: sorriso del giallo più bello. Teresino trasse indietro gli occhi.

Se ne uscì ─ tardato aveva ─ di là, da lei, dal vederla. Volò verso Zidìca, a São Luis, in un mese si sposarono.

Furono infelici e felici, misturatamente.