Lord Byron, un antiromantico travolto dal romanticismo (parte I)

 (“Swept into the camp of the Romantics”)

  
 di Claudia Cardella

 

“L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrare nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili; il retore cerca di dar loro stato, grado e inamovibilità, ed ecco, alla fine di travagliose costruzioni, s’accorge d’aver trattato ombre come cose salde”.[1] Così Mario Praz introdusse un discorso a proposito della funzione e della quasi necessità di due “etichette”, cioè romantico e quella che qui, per comodità, ribattezziamo opposto a romantico. Si tratta di due etichette l’utilità delle quali è innegabile, soprattutto se, come in questo caso, si devono segnalare delle caratteristiche atipiche. Tuttavia, esse tendono a dare l’impressione che si stia parlando di quadri omogenei, nei quali tutto è in armonia con i connotati di una o dell’altra categoria. E invece bisogna tenere presente che queste etichette, solitamente, indicano piuttosto delle caratteristiche comuni, la presenza delle quali mette in relazione un autore, le sue opere, il suo pensiero, con una categoria o con un’altra.

 Ricordare ciò è particolarmente importante quando si parla di una figura complessa e contraddittoria come quella di Lord Byron. La sua figura e le sue opere sono indubbiamente fra le più note della letteratura romantica inglese; e infatti, esse vi rientrano a pieno titolo. Tuttavia, la sua notorietà di autore e di personaggio romantico impedisce di coglierne le sfumature. Notorietà dovuta non solo al fatto che, Byron ancora vivente, la fama di lui stesso e delle sue opere raggiunse dimensioni eccezionali, o perché l’immediata ricezione delle opere, in particolare Childe Harold’s Pilgrimage, fece sì che il giovane lord continuasse ad essere pensato come un autore e un personaggio romantico. Infatti, vi fu tutto il contributo di un immaginario collettivo, il quale accolse e nutrì la nota leggenda byroniana. Sin da subito, Byron venne confuso con il suo eroe, il cupo e malinconico Harold: da lì, l’immagine leggendaria e idealizzata si amplificò, cioè divenne man mano sempre più complessa, fino a creare un personaggio che ha affascinato un’intera generazione, alimentandone le fantasie e fornendogli dei modelli. Si pensi al Vampiro di John William Polidori, il quale, sin dal primo momento, venne recepito sia come un ritratto di Byron sia, al tempo stesso, come qualcosa che era uscito dalla sua penna: il racconto, infatti, venne pubblicato anonimo. Ma anche ai dipinti di Delacroix, ad un classico della narrativa come Il Conte di Montecristo di Dumas padre, oppure all’Evgenij Onegin di Puškin. Tutte queste opere, che erano allora e ancor oggi restano famose, testimoniano ognuna a modo suo la ricezione di Byron e della sua opera come qualcosa di seducentemente romantico. Nonché il suo ruolo di modello, sia come poeta sia come personaggio.

 Eppure, ad un’analisi più attenta della figura e dell’opera, emerge un quadro alquanto complesso, che, a seconda di come lo si guarda, fa sorgere dei dubbi riguardo alla sua indubitabile “romanticità”. Esso rende difficile definire sia la posizione dell’autore all’interno del panorama letterario inglese a lui contemporaneo sia il profilo delle sue opere. Un testo come Childe Harold, ad esempio,indubbiamente rientra all’interno del macrogenere letteratura romantica; e altrettanto si può dire di un’opera come Manfred. Il discorso, tuttavia, si fa più complesso difronte ad un’opera come Beppo, nonché dinanzi al notissimo Don Juan. Già ad una prima lettura si ha l’impressione che, se qualcosa di romantico c’è in queste due opere, è perché esse sono frutto della mente e della penna di Byron, il cui immaginario e il cui stile sono talmente peculiari da fungere da comune denominatore.

 Infatti, al di là di un certo romanticismo “intrinseco”, il quale si può rintracciare, giusto per fornire un esempio, nell’abitudine e nella volontà di scrivere assecondando i pensieri e le emozioni del momento, non si può definire Byron romantico in modo univoco. [2]Ad impedirlo, vengono le opinioni da lui espresse in più occasioni riguardo alla poesia a lui contemporanea, i suoi giudizi sulle opere altrui e in particolar modo su opere che risentono della corrente romantica, nonché, sebbene più tacitamente, alcuni aspetti delle sue stesse opere.

 Ad esempio, alcunché di anomalo si può già scorgere anche solamente gettando uno sguardo al rapporto con il contesto letterario contemporaneo, o in ogni caso di poco anteriore. Nelle opere byroniane, ma non solo lì, sono chiare, ad esempio, le influenze delle letture gotiche, come The Italian di Ann Radcliffe, Zeluco di John Moore, oppure il Faust di Goethe.[3] E fin qui nulla di strano quando si parla di un romantico. Si presenta però ambiguo, e non solo sul piano letterario, il dialogo con i maestri del romanticismo inglese, Wordsworth e Coleridge: i quali, checché ne pensassero i giovani romantici, fornivano dottrine e modelli che di fatto sono un po’ la matrice originaria delle dottrine delle generazioni successive. Un po’ meno controverso, infine, ma pur sempre ambiguo, è poi quello con la poesia dell’amico Thomas Moore. Si deve tenere presente che Moore fu uno dei primi modelli di Byron, e che ciononostante, la sua produzione, come vedremo tra poco, rientrava in quello che per Byron era un modo “sbagliato” di fare poesia.

 Ciò cui mi sto riferendo non è un mero dialogo tra l’autore e le sue letture: si tratta piuttosto di un complesso di relazioni, innanzitutto quelle tra l’autore, i suoi gusti e le sue opinioni letterarie e, in secondo luogo, tra l’autore e il suo “bagaglio” letterario. Byron si espresse spesso riguardo ai suoi gusti, e, sebbene a differenza di altri romantici non abbia mai scritto testi di natura teorica, abbiamo ampia testimonianza delle sue opinioni in materia di poesia e di dottrine poetiche. Riguardo al suo “bagaglio letterario”, infine: i romanzi gotici, come abbiamo detto, rientravano certamente tra le sue letture, e certamente hanno lasciato un profondo segno nella sua opera; la stessa cosa si può dire della poesia di Moore, e, seppur con la dovuta cautela, anche di quella di Wordsworth e di Coleridge. Ma una cosa era ciò che Byron leggeva e assimilava e un’altra ciò che Byron diceva e pensava, sia che si parli di stili e di autori che ebbero su di lui una certa influenza sia di opere e di figure che, al contrario, egli attaccò talora anche in modo spietato.

        Per avere un’idea più chiara di quanto ho appena detto, è sufficiente andare a vedere quali erano le cose che Byron diceva e pensava. Byron ci fornisce in svariati modi e in innumerevoli occasioni le sue opinioni sulla poesia a lui contemporanea; giusto per citarne una, una delle prime dichiarazioni più note è la satira English Bards & Scotch Reviewers. Si tratta di un testo che va letto con una certa cautela, perché Byron trovò in esso sì un modo per dire quello che pensava ma, proprio per questo, si tratta di pensieri non filtrati. Tuttavia, al di là del suo essere il frutto di un furore decisamente più byroniano che romantico, essa ci fornisce una panoramica sufficientemente completa e affidabile delle sue opinioni. Anzi, proprio il suo essere una satira ci dice molto, in particolar modo del Byron degli anni universitari.

 A partire dagli anni di Cambridge, superata una fase mimetica, la quale caratterizza gli anni del college ad Harrow e vede Thomas Moore come modello prediletto, Byron si mosse in modo deciso verso un genere che già apprezzava, e che tuttavia sembra incominciare ad apprezzare sinceramente solo a partire da questo periodo. English Bards & Scotch Reviewers rivelò non solo al pubblico ma a Byron stesso la sua capacità nel genere satirico. Tra l’altro, spesso si dimentica che fu questa, e non Childe Harold, l’opera che per prima lo condusse alla notorietà. Si tratta di un esordio e di un genere che stride fortemente con il suo modo di fare poesia più noto, cioè lo stile che trova il suo prototipo in Childe Harold per l’appunto. Byron stesso ne era cosciente, tantoché, in un primo momento, giudicò più meritevole di una pubblicazione Hints from Horace, il proseguimento di English Bards & Scotch Reviewers modellato sull’Ars Poetica di Orazio,anziché il sentimentale poema, questo sì profondamente e inevitabilmente romantico, modellato sulla propria esperienza autobiografica.[4]

 All’altezza degli anni universitari, dunque, come ci dicono alcune testimonianze e come ci conferma English Bards & Scotch Reviewers (non tanto perché si tratta di una composizione di genere satirico, ma per quello che contiene), Byron parteggiava decisamente per gli autori satirici. Considerando la sua educazione fondamentalmente classica, non è insolito che avesse familiarità con i satiristi latini, come Giovenale, Orazio, e il fatto che li apprezzasse non significa alcunché. Significativo è invece che apprezzasse i satiristi moderni. Tra questi un posto d’onore lo ha indubbiamente Alexander Pope. Tutti gli altri, tra i quali rientrano anche alcuni contemporanei, come Gifford[5], Crabbe[6], sono tutti poeti che utilizzano il distico eroico, o che in ogni caso sono più vicini alla poesia del XVIII secolo che non a quella del XIX. Il che non è troppo diverso da dire che trovavano in Pope il loro modello di riferimento.

 Non bisogna dimenticare che proprio Pope era il rappresentante di una poesia che veniva considerata ormai superata all’epoca, e rispetto alla quale la poesia romantica, più in particolare di Wordsworth, veniva posta in antitesi. Tale ammirazione e predilezione per questo poeta, Byron la ribadirà esplicitamente negli ultimi anni di vita, in una lettera a John Murray, scritta in occasione della conclusione della stesura del VI canto di Childe Harold:

 “With regard to poetry in general, I am convinced, the more I think of it, that… all of us – Scott, Southey, Wordsworth, Moore, Campbell, I, - are all in the wrong, one as much as another; that we are upon a wrong revolutionary poetical system, or systems, not worth a damn in itself, and from which none but Rogers[7] and Crabbe are free; and that the present and next generations will finally be of this opinion. I am the more confirmed in this by having lately gone over some of our classics, particularly Pope, whom I tried in this way, - I took Moore’s poems and my own and some others, and went over them side by side with Pope’s, and I was really astonished (I ought not to have been so) and mortified at the ineffable distance in point of sense, harmony, effect, and even Imagination, passion, and Invention, between the little Queen Anne’s man, and us of the Lower Empire. Depend upon it, it is all Horace then, and Claudian now, among us; and if I had to begin again, I would model myself accordingly”.[8]

  Viene da dire dunque, usando le parole di Leslie Alexis Marchand, che Childe Harold “swept” Byron “into the camp of the Romantics”.[9]Bisogna aggiungere anche, sempre seguendo il professore, che Byron tentò, e ciò a più riprese, di opporsi all’onda del Romanticismo che lo aveva travolto: “He tried, and he scarcely gave up even after the wave had swept over him. But he knew he would never reach the haven of Popean assurance”.[10]

 Anche dal punto di vista poetico, come si può vedere, così come sotto molti altri aspetti, Byron presenta delle contraddizioni, le quali, generalmente, appaiono difficili da chiarire e da giustificare. La distanza di Byron dai poeti romantici, tuttavia, non si limita all’avversione per sperimentalismi ed innovazioni rispetto ad una poesia oggettiva e formalmente impeccabile. Allo stesso modo, l’ammirazione per poeti che hanno un sapore vetusto e decisamente moralista non si ferma al genere satirico e allo stile.

 Giusto per fornire un esempio, il quale tra l’altro ci porta ad osservare un’ulteriore contraddizione - che tuttavia, a mio avviso, è solo apparente - la poesia, per poeti come Pope, Dryden, Swift, doveva avere innanzitutto uno scopo morale. Ora, Byron aveva un’idea di poesia alquanto complessa: di fatto, abbiamo da una parte una produzione che sembrerebbe dettata dal mero bisogno di tradurre in letteratura le proprie esperienze autobiografiche e dall’altra una satirica, che addita tutto quel che può dissacrandolo a suon di versi sardonici. Quel che è certo, è che la satira era per lui un genere nobile, il cui scopo, al di là della capacità di suscitare il riso, era serio e innanzitutto morale. Dopotutto, era così che lui concepiva la poesia di Pope: di conseguenza, considerando la quasi venerazione che egli nutriva per il rappresentante della poesia satirica del Settecento, non c’è da meravigliarsi che non fosse diversamente.[11]

 Ma il moralismo degli autori satirici del XVIII secolo, sia che si parli di poeti, sia che si rivolga lo sguardo ai romanzieri, come Fielding, di nuovo Swift, o Sterne, trova le sue radici in un forte senso morale di origine religiosa. Bisogna riconoscere che, anche sforzandosi, sarebbe difficile trovare in Byron qualcosa di simile al profilo di un puritano; inoltre, se si esclude l’implacabile “honesty”byroniana[12], non v’è traccia nelle satire, così come nelle altre opere dopotutto, di un palese scopo morale. Viene da chiedersi pertanto a cosa si deve questa ammirazione per una poesia castigatrice e spesso mossa da una sensibilità puritana. Una risposta, se non dalle opere e dal piano biografico immediatamente accessibile, può venirci da alcune cose apparentemente trascurabili, le quali, in verità, se accostate ad altre, sembrano offrire una qualche chiave di lettura.

 Se andiamo a vedere, ad esempio, l’aggiunta alla prefazione dei primi due canti di Childe Harold, ci imbattiamo in un curioso tentativo di difesa da parte di Byron, il quale, inizialmente, colpisce soprattutto per il tono seccato:

 

“Amongst the many objections justly urged to the very indifferent character of the “vagrant Childe” […] it has been stated, that, beside the anachronism, he is very unkhnightly, as the times of the Knights were times of Love, Honour, and so forth. Now it so happens that the good old times, when “l’amour de bon vieux temps, l’amour antique” flourished, were the most profligate of all possible centuries. […] The vows of chivalry were no better kept than any other vows whatsoever; and the songs of the Troubadours were not more decent, and certainly were much less refined, than those of Ovid.”

 Già in questa prima parte è percepibile non tanto una giustificazione della negatività del personaggio di Harold quanto un moralismo di fondo, il quale si palesa qui innanzitutto sotto forma di un attacco all’ipocrisia dei critici, ma anche, ed è questo che è difficile giustificare, di una condanna della lascivia che egli attribuisce ai secoli dell’amor cortese. Verso la fine dell’aggiunta, poi, troviamo un’altra espressione di questo moralismo sotterraneo, anche questa del tutto inattesa:

 “I now leave the “Childe Harold” to live his day such as he is; it had been more agreeable, and certainly more easy, to have drawn an amiable character. It had been easy to varnish over his faults, to make do more and express less, but he never was intended to be an example, further than to show, that early perversion of mind and morals leads to satiety of past pleasures and disappointment in new ones, and that even the beauties of natures and stimulus to travel (except ambition, the most powerful of all excitements) are lost on a soul so constituted, or rather misdirected.” [13]

 

Parlando di Harold Byron parla di se stesso. Ma, al di là di questo, un tale suggerimento di quale messaggio morale possa celarsi all’interno del testo si presta a molteplici interpretazioni. Non bisogna dimenticare infatti che i lettori sapevano bene chi era l’autore di Childe Harold: se tentassimo di leggere la risposta di Byron immaginandoci di leggere con i loro occhi, potremmo pensare, com’è possibile che qualcuno abbia fatto, che buona parte dell’aggiunta sia frutto di una buona dose di ipocrisia. Se scegliamo questa chiave di lettura, allora, tutta l’aggiunta suona decisamente confusa e goffa. Ma, chi ha familiarità con la mirabile “honesty” di Byron, la quale non è altro che la medesima che ritroviamo in Don Juan, intenta a graffiare a forza di versi satirici l’ipocrita società inglese, non può non rintracciare nel sottosuolo di questa aggiunta un forte senso morale, cioè un implicito e rigido moralismo che guida i pensieri e le parole dell’autore.

 Questa aggiunta con questa particolare sensibilità morale potrebbe apparire un caso isolato, ma tale non è, perché richiama le risposte che Byron diede alcuni anni più tardi alle ben più pesanti accuse di oscenità e di immoralità che seguirono alla pubblicazione di Don Juan.[14] Certamente, come ho già detto, non si può parlare di un Byron moralista, o almeno, non in modo sbrigativo. Tuttavia, è stato fatto notare che, sebbene fosse un incorreggibile libertino, era capace di diventarlo, in particolar modo quando qualcosa lo urtava o lo infastidiva, come dimostra anche il satirico e puritano The Waltz [15], oppure lo stesso Don Juan, il qualesi può genericamente definire il frutto di un risentimento covato a lungo.[16]

 Per quel che riguarda l’aggiunta, essa rientra di fatto tra le risposte ad una critica ai suoi occhi ipocrita e seccante. Eppure, il moralismo non è semplicemente un volto che emerge solo in determinati contesti. Vi sono infatti diversi aspetti più psicologici che biografici, i quali lasciano intravedere come un certo puritanesimo che è assente sul piano biografico immediatamente accessibile, nonché nelle opere, sia presente altrove.[17]

 Di fronte a questa ambiguità, la quale appare come irrisolvibile, e che si estende fino a comprendere, oltre al piano biografico, anche quello psicologico, come si è detto, si ha l’impressione che si tratti di una delle conseguenze dell’educazione calvinista ricevuta nell’infanzia. Se questo puritanesimo per così dire “latente” si rivelasse un’ipotesi accettabile, vale a dire se la sua entità fosse più significativa di quel che appare, esso potrebbe costituire una spiegazione di molti aspetti apparentemente ingiustificabili, tra i quali uno un po’ spiacevole e controverso di Don Juan[18]. Inoltre, si consoliderebbe la giustificazione, la quale pare ormai formulata in modo definitivo, di quella sorta di principio di delirio che è evidente nell’arco di tempo che va dagli anni giovanili al periodo immediatamente precedente al divorzio dalla moglie Annabella, durante il quale Byron manifesta una forma di ossessione per il pensiero di essere un angelo caduto o un individuo condannato a compiere il male.

 Se il medesimo puritanesimo latente sia anche una possibile giustificazione dell’ammirazione per Pope, nonché per altri autori satirici del secolo precedente, come Dryden e Swift (nei quali, dopotutto, si può ritrovare una “honesty” simile a quella byroniana) è difficile dirlo. Tuttavia, resta quella tendenza di Byron al moralismo, evidente non tanto nelle opere quanto sul piano psicologico, la quale non lo pone certamente fuori dai canoni romantici: si pensi a Coleridge, a Shelley. Ma, in ogni caso, rappresenta un aspetto che non si può trascurare quando si parla della produzione satirica.

 



[1] Mario Praz, Introduzione a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, ed. BUR Saggi, 2018. L’antitesi, com’è noto, è stata introdotta da Goethe e da Schiller.

[2] A questa abitudine appena citata si lega la leggenda di un’altra abitudine, quella secondo la quale Byron scriveva di getto. In verità, sembra che Byron fosse solito comporre mentalmente i versi, e che li riportasse sulla carta solo quando ormai aveva abbastanza chiaro cosa intendeva scrivere. Per quanto riguarda l’assecondare un flusso di pensieri e di passioni, è solo una mia supposizione, ma ritengo che non vada trascurato il ruolo che la poesia aveva per Byron nella sua vita quotidiana, vale a dire come mezzo per liberarsi di pensieri ed emozioni ossessionanti. Anche la tendenza a scrivere senza alcun desiderio di apportare correzioni o di meditare e ritornare sul testo ha un che di “intrinsecamente” romantico: nel senso che, considerando la psicologia di Byron nel suo complesso, viene da pensare che si tratti piuttosto di una questione di carattere, anziché dall’adesione alla dottrina dell’ispirazione immediata e infallibile che si risolve in spontanei flussi di emozioni e di versi. Per riferimenti, le due biografie di L. A. Marchand, Byron: A biography e Byron: A portrait, e lo studio più recente e aggiornato di Fiona MacCarthy: Byron: Life and Legend. Tutti i riferimenti per la biografia di Fiona MacCarthy si riferiscono all’edizione 2014.

[3] Si veda in particolar modo il modello dell’Urfaust in un’opera come Manfred. Per altre letture gotiche, come Zeluco o The German’s Tale di Harriet Lee, le quali, più che ripercuotersi sulle opere, contribuirono ad alimentare la convinzione di Byron di avere una natura demoniaca e di essere predestinato a compiere il male, su si veda Fiona MacCarthy, Byron: Life and Legend. In particolare, p. 251 per The German’s Tale e l’ossessione di Byron per i personaggi in cui rintracciava le conferme della sua natura demoniaca.

[4] Riguardo ai dubbi di Byron circa Childe Harold’s Pilgrimage e l’iniziale preferenza per Hints from Horace, Fiona MacCarthy, Byron: Life and Legend, p. 139, e Leslie Alexis Marchand, Byron: A Portrait, p. 98 e p. 101

[5] William Gifford (1756 - 1826). Poeta satirico, le sue satire sono caratterizzate dall'uso del distico eroico alla maniera di Pope.

[6] George Crabbe (1754 - 1832). Anche Crabbe si può considerare più vicino a Pope e a Samuel Johnson che non alla poesia a lui contemporanea. Anche lui nella sua produzione utilizza il distico eroico.

[7] Samuel Rogers (1763 – 1855). Sebbene oggi si riconosca che la poesia di Rogers pecca di un’ispirazione un po’ fiacca, all'altezza della tarda età vittoriana veniva ancora considerato uno dei più grandi poeti inglesi a fianco all'amico e poeta laureato Wordsworth. La sua opera di maggior successo fu The Pleasures of Memory (1792), in distici di abile fattura. Rogers di fatto era noto soprattutto per le sue numerose amicizie letterarie, tra le quali figuravano lo stesso Byron e Thomas Moore. La sua poesia, in verità, è notevole solamente dal punto di vista formale, per la disinvoltura nell'applicazione della lezione dei poeti augustei. Byron lo apprezzava anche le per la lingua affilata e per la sua arguzia.

[8] Tramite L. A. Marchand, Byron’s Poetry, il quale rimanda a Letters and Journals, IV, 169. Si tratta della lettera del 15 settembre 1817.

[9] Byron’s Poetry, p. 28

[10] Ibidem.

[11] Byron’s Poetry, p. 9

[12] Per una definizione di “honesty” byroniana, espressione che la sottoscritta ha ripreso dal professor L. A. Marchand, si veda sempre nel di lui Byron’s Poetry, p. 5, da cui cito l’estratto seguente: “He liked to think of himself as a Regency Dandy and yet he was sincere in admiration of Shelley’s simplicity and unaffected manners. Occasionally with strangers, but seldom with his friends, he struck an attitude, though at the bottom he had a “desperate integrity” and a disarming self-honesty. He was a leader of the Romantic revolution in poetry who clung to the literary ideas of Alexander Pope”.

[13] Entrambe le citazioni provengono da Addition to the Preface, pp. 3-4, Childe Harold’s Pilgrimage. Ed. Cambridge Scholars Publishing, 2009.

[14] Per un breve ritratto dello scandalo che seguì alla pubblicazione del Don Juan, nonché per alcune delle risposte di Byron, pp. 366-367, Byron: Life and Legend, Fiona MacCarthy.

[15] Byron’s Poetry, p. 33

[16] Su Don Juan esiste una bibliografia varia e copiosa. Charles Du Bos, ad esempio, in Lord Byron e la fatalità (trad. it. di Luisa Moscardini, Castelvecchi, 2015), avanza l’ipotesi che l’opera trovi i suoi germi nel matrimonio con Annabella Milbanke: lo scandalo del divorzio, al quale seguì l’esilio volontario, avrebbero provocato in Byron un risentimento che crebbe e si ingigantì con il tempo, fino a che non esplose, trovando voce in una satira implacabile e misogina quale è Don Juan. Sono poi molte altre le interpretazioni che vedono Don Juan come il frutto di un risentimento profondo. Per quel che riguarda la mia opinione, Don Juan trova sì materiale innanzitutto nel matrimonio, come suggerisce Du Bos, e quindi in altre esperienze biografiche, ma a mio avviso contiene anche un aspetto – quello dello “smascheramento” della falsa castità e angelicità della donna, la quale idealmente doveva avere tali attributi, e non solo secondo la società inglese – che non si può ricondurre alle sole esperienze biografiche, o al solo risentimento per le varie figure femminili che rappresentarono per lui un tormento.

[17] Sin dagli anni giovanili si scorge in Byron un atteggiamento ambiguo e contraddittorio nei confronti del codice morale del suo tempo. Si registra una forte inclinazione all'erotismo e al proibito, ma anche una notevole coscienza morale. Anzi, si può supporre che fosse proprio questa a rendere esaltante e affascinante l’immorale, il quale per Byron è stato spesso causa di tormento e di esaltazione al tempo stesso. Ciò che lascia sospettare che ci fosse un profondo puritano dietro al “wandering outlaw of his own dark mind” è innanzitutto quella convinzione di essere predestinato. Vi è poi la controversa relazione con la moglie, Annabella Milbanke. Annabella era un esempio di virtù morale: di vera virtù morale, non di falsa pudicizia e di pretesa castità, le quali costituiscono a più riprese il bersaglio principale di tutto il Don Juan. Infine, vi è l'opinione di Shelley, che sperava che Byron riuscisse a liberarsi dalle sue superstizioni. Il Byron che egli dipinge in Julian and Maddalo è un Byron notevolmente realistico, sebbene poco noto: si tratta dell'altro volto di Childe Harold, quello di Sardanapalo che, sebbene scettico e disincantato, crede in Dio, che, nonostante non apprezzi nessuna delle "sette" religiose note, non è estraneo a riflessioni su Dio e sulla vita dopo la morte. Verosimilmente, è questo stesso Byron che condannava Claire Clairmont per la sua condotta sessuale, nonché gli Shelley, per il loro ateismo ma anche per la loro indulgenza rispetto alla dottrina godwiniana dell'amore libero e quindi alla promiscuità. Per riferimenti, L. A. Marchand, Byron: A Biography.

[18] Si tratta dell’attacco misogino su cui il poema si fonda. Si veda la nota 16