Sul merito e le sue declinazioni

 

   Qualcuno pensa che la scuola sia sempre stata così, come molti studenti oggi la percepiscono: stressante, ansiogena e frustrante. Anzi, alcuni ritengono che la scuola lo fosse di più in passato e che prima del 1968 ci fossero ancora maggiori difficoltà e motivi di stress, difficoltà che oggi gli studenti non sono più pronti ad affrontare perché sono un po’ viziati, poco abituati a studiare e darsi da fare. In ogni caso, vera o falsa che sia questa tesi, che ci siano delle notevoli differenze è abbastanza chiaro a tutti.

   Luca Ricolfi, per esempio, in articolo che si può leggere per intero sul sito della Fondazione Hume, di differenze ne individua una importante: “negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.”

   Ricolfi ha in buona parte ragione. Ma da cosa proviene questa incompetenza linguistica? E più in generale, questa differenza tra gli anni 60 e oggi dipende davvero da qualche rinuncia della scuola media o è dovuta piuttosto a una tipologia di studenti e docenti molto diversi? L’habitat culturale in cui viveva uno studente liceale di un liceo classico negli anni 60 è lo stesso di oggi? Il tipo di nutrimenti letterari e cinematografici, musicali, sociali e politici sono gli stessi? Oppure il tempo che in quegli anni si passava a leggere classici, a discutere di politica, o a frequentare un affumicato cineforum dove magari proiettavano Pabst o Dreyer, oggi è stato trascorso dagli studenti attuali a vedere discutibili film commerciali, pieni spesso di una violenza gratuita e di effetti speciali fine a se stessi, a giocare alla play station e a chattare sui social? E non occorre scomodare Pabst o Dreyer: se fino a una ventina di anni fa capitava ancora che una buona percentuale di studenti in ogni classe delle superiori avesse visto un film di Charlie Chaplin o Vittorio De Sica, oggi questa evenienza è un’assoluta rarità, così come lo è incontrare studenti liceali che abbiano ascoltato per intero e dal vivo un brano di Mozart o Beethoven, o che abbiano letto un classico che non studiano a scuola, per libera scelta e curiosità, e non perché parte di un programma e indotti a farlo dal proprio insegnante.

 

   Ricolfi ricorda anche che “una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda”.

   Certo, si tratta di una generazione non resiliente. Ma la scuola che invece ne aveva formata una più resiliente, la scuola degli anni 60 e 70, poteva usufruire della collaborazione della società, di circoli culturali e cinematografici, di famiglie che avevano ben altri tipi di formazione e persino dei media. La televisione trasmetteva spesso i film di Federico De Sica, Luchino Visconti o di Federico Fellini, ma anche sceneggiati di ottima qualità che facevano venir voglia di leggere alcuni capolavori della storia della letteratura, e al liceo si ascoltava Fabrizio De André, Lucio Battisti, Francesco Guccini, Lucio Dalla, Giorgio Gaber e altri grandi cantautori che bisognerebbe far ascoltare ancora in ogni scuola dopo circa mezzo secolo. A volte, per non smettere di leggere un romanzo in cui si era immersi la sera, senza che nessuno ce lo avesse ordinato, si era costretti ad alzarsi alle cinque di mattina per finire di fare i compiti.  

   La società che abitano i giovani di oggi è invece popolata da TikTok, da chat e social network che li abituano ad avere tempi di attenzione sempre più veloci e automatici e che sono quasi incompatibili con quelli necessari per leggere un libro. L’ascolto della musica classica o di quella jazz è un evento sempre più raro, così come le occasioni per scambiarsi esperienze culturalmente significative. Per tutte queste ragioni, valutare i “meriti” degli studenti di oggi con criteri e metodi che erano propri della scuola di mezzo secolo fa rischia di essere fuorviante.

   Non è facile stabilire se davvero oggi ai ragazzi si chieda “molto di meno” rispetto ad allora – come sostiene Ricolfi. Probabilmente in termini assoluti è vero, ma in termini relativi, ovvero partendo dalla loro formazione di base, di quanto famiglie e società gli hanno messo a disposizione, è vero piuttosto il contrario. Secondo Ricolfi proprio questo chiedere loro di meno li ha resi fragili, “perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non”, ma questo loro sentirsi disarmati dipende forse di più dall’enorme distanza tra il mondo in cui sono cresciuti, le loro attività digitali e gli interessi che hanno avuto modo di formarsi e da cui sono stati formati e ciò di cui a scuola si parla, una distanza che oggi si fa molta più fatica a colmare rispetto ad allora, quando pure, in diversa misura, già esisteva. Oggi non sarebbe possibile colmarla nemmeno con quello studio “matto e disperatissimo” di cui scriveva Leopardi al Giordani, perché si ha a che fare con qualcosa che non ha nulla a che fare, al contrario di ciò di cui poteva provare Leopardi o ancora la generazione degli anni 60, con ciò che viene percepito come reale, con i sentimenti che si provano, con le qualità delle proprie emozioni, con le proprie aspettative e i propri desideri.

   Il problema di fondo è che siamo di fronte, probabilmente per la prima volta nella storia dell’umanità, a una generazione che ha reciso i rapporti col passato culturale, che vive in un presente assoluto, in una vera e propria “dittatura del presente”, caratterizzata da tonalità emotive e tempi di reazione completamente diversi rispetto a quelli del passato. In questa dittatura è sempre più difficile e improbabile immergersi nel tipo di tempo che potrebbe consentire di apprezzare i capolavori della storia della musica, del cinema e della letteratura. Si tende sempre più a pensare, sulla scia di uno storicismo frainteso, che così come un telefonino dell’ultima generazione deve essere indubbiamente migliore di uno di pochi anni fa, debbano esserlo anche un libro, un film, un brano musicale.

   Alla luce di questa necessaria premessa di carattere storico e sociologico, bisognerebbe dunque incominciare col chiedersi quale idea di “merito” sia possibile adottare come criterio per costruire dei percorsi didattici che siano in grado d’integrare con qualche nutrimento culturale non posticcio e forzoso la vita reale dei nostri studenti, e non una astratta e immaginaria. Soprattutto, bisognerebbe interrogarci sul tipo di preparazione che auspichiamo per loro: se una ricca d’informazioni e di nozioni che rimangono in mente per pochi giorni, o una basata sull’acquisizione di un metodo di ricerca efficace, su interessi reali e duraturi, sul quel desiderio di conoscenza, spesso latente ma vivo in ognuno, che già Aristotele considerava connaturato all’essere umano. E bisognerebbe anche interrogarsi su come si dovrebbero ridisegnare i programmi e riconcepire criteri didattici per rendere l’azione educativa e formativa della scuola meno ansiogena e meno frustrante di quanto attualmente non risulti, per renderla più efficace e stimolante, e a questo scopo bisognerebbe soprattutto chiedersi di che tipo d’insegnanti ci sia più bisogno e di come dovrebbero essere formati.

   Ogni insegnante ha inevitabilmente il suo carattere, le sue competenze, le sue convinzioni e i suoi criteri didattici. Tutti questi fattori non sono indipendenti gli uni dagli altri, ma sono anzi interdipendenti. Non sono necessariamente gli uni migliori degli altri, ma possono tutti essere gestiti e applicati in maniera efficace quando ognuno sa ciò che fa e perché lo fa, e soprattutto quando il metodo d’insegnamento prescelto è coerente con le proprie competenze, il proprio carattere e le proprie attitudini. Ogni volta che si cerca invece d’indurre un insegnante ad adottare un metodo standardizzato lo si invita anche a non tener conto di aspetti della sua personalità e delle sue convinzioni che invece dovrebbero e potrebbero costituire un valore aggiunto per la qualità del suo insegnamento.

    Nella scuola ci sono insegnanti più o meno severi, più o meno esigenti e comprensivi. Si tratta di differenze che possono rivelarsi importanti sotto il profilo dell’efficacia della didattica, ma non sono in sé decisive. Si può infatti essere degli ottimi o dei pessimi insegnanti in modi anche molto diversi.  Non sono queste le differenze cruciali e dirimenti, in primo luogo perché non sono eliminabili, e poi perché sono solo un anticipo delle molte altre esperienze, di studio e di lavoro, in cui ciascuno dovrà imbattersi durante la sua vita e che possono rilevarsi formative anche perché tra loro diverse. In ogni caso, queste differenze sono connesse con la natura umana e non sono scorporabili da una professione che non può non coinvolgere tutta la personalità di ogni docente, con i suoi difetti, i suoi pregi, le sue vocazioni e contraddizioni.

   Ci sono insegnanti che sanno sollecitare la classe con dibattiti, lavori di gruppo, attività teatrali o cinematografiche, sviluppando la componente ludica e creativa che è ben viva in ogni studente, e ve ne sono altri che fanno lezione in modo più tradizionale, utilizzando la lezione frontale come strumento didattico primario e che fanno delle bellissime lezioni frontali, appassionanti e coinvolgenti. Possono rivelarsi entrambi ottimi metodi, e non sono affatto tra loro incompatibili. Ciò che è davvero importante è che ciascun docente sappia sostenere e praticare quello da lui prescelto, che se lo senta calzare addosso in modo naturale e non artificioso, e soprattutto che non si dimentichi mai che lo scopo fondamentale del suo lavoro è quello di trasmettere ai suoi alunni l’amore per la propria disciplina e un metodo di studio efficace, in grado di produrre una serie di competenze e conoscenze non effimere. Soprattutto, dovrebbe in ogni caso accertarsi, durante e dopo ogni lezione, che tutti abbiano capito ciò che è stato spiegato e cercare di non lasciare nessuno indietro.

   Quando queste finalità non si realizzano, in genere si assiste al triste fenomeno per cui alcuni docenti cercano di supplire ad un’azione didattica poco efficace in classe assegnando quantità di compiti ed esercizi a casa in maniera spesso sproporzionata al tempo e alle energie che i suoi alunni possono dedicare a ciascuna materia, e ciò con un triplice effetto negativo: privare gli stessi studenti di un tempo che potrebbero dedicare anche ad altre discipline; far nascere in loro spesso un vero e proprio disgusto verso quelle che gli vengono proposte in modo inefficace e creare una ingiusta sperequazione di tipo classista tra le famiglie che sono in grado di fornire un’adeguata assistenza ai loro figli e quelle che purtroppo non sono in grado di farlo. Ma soprattutto, con la conseguenza che i contenuti delle discipline insegnate in questo modo vengono appresi in modo mnemonico e poco motivato, ovvero in modo tale da essere ricordati solo per pochi giorni, fino ad essere espulsi dalla memoria per diventare inutilizzabili.

   La memoria infatti è intelligente, e l’intelligenza non è stupida: non sopporta gli inutili ingombri, e dopo un po’ getta via quello che non le serve e che non utilizza. Viceversa colloca in ripiani e scaffali cui è facile accedere tutto ciò di cui ha colto il senso, o una qualche forma di potenziale utilità, o una sorta di fecondità intellettuale. Purtroppo, però, simili requisiti non sempre sono soddisfatti, perché possono essere conseguiti solo riuscendo a far capire agli studenti che quanto vengono sollecitati a comprendere e studiare potrebbe rivelarsi cruciale per rendere più interessante, piacevole e gratificante la loro vita.

   La presenza di tali requisiti non è a sua volta possibile senza esercitarsi a comunicare in modo chiaro e argomentato, ovvero senza praticare quelle virtù dialogiche che già per Socrate e Platone - ma anche per un grande filosofo italiano oggi poco conosciuto o ricordato che si è occupato molto di scuola come Guido Calogero - costituivano l’esercizio maieutico fondamentale su cui si basava ogni possibile insegnamento. Proprio di quest’esercizio, infatti, oggi si sente sempre più la mancanza, e di esso ci sarà sempre bisogno in futuro, in ogni ambito della vita sociale e politica.

   Certo, oggi non è facile. Sebbene la maggior parte dei docenti cerchi, in modi diversi, di conseguire simili obiettivi in tempi particolarmente ardui e difficili per la scuola, bisogna prendere atto che purtroppo è sempre più difficile. Forse mai come oggi i giovani sono stati tanto distanti da ciò che s’insegna, dalle discipline scolastiche e dalla storia culturale di cui fanno distrattamente parte. Impegnati come sono a usare i social media e i cellulari, o a svolgere attività sportive spesso agonistiche e impegnative, oltre che a fare compiti che sono sempre più spesso assegnati con una funzione supplente rispetto a un’efficace attività di studio in classe, hanno poco tempo per leggere, per ascoltare buona musica, per vedere film diversi da quelli che gli sottopone il circuito commerciale, per incontrarsi e passeggiare insieme, per parlare tra loro e riflettere, ovvero, come suggeriva di fare Jean-Jacques Rousseau, per acquistare tempo perdendo, ma solo apparentemente, del tempo.

   Qualche anno fa, un italianista e un critico letterario di chiaro spessore come Alfonso Berardinelli sosteneva che i suoi migliori studenti, e cioè i più motivati e appassionati, quelli più capaci di approfondire e di fornire contributi originali erano quelli “fuori corso”, a conferma che Rousseau probabilmente aveva ragione e che quando si parla di formazione culturale non si tratta di fornire elevate prestazioni in tempi rapidi e circoscritti, ma di preparare un terreno idoneo a sviluppare le attitudini e le capacità di ciascuno, quelle più specifiche e più fini, che difficilmente possono essere misurate da prove invalsi o da test d’ingresso in qualche facoltà universitaria. Purtroppo, però, tutte le recenti riforme della scuola sono andate in direzioni contrarie a quelle indicate da Socrate e Platone, da Rousseau, da Calogero e da molti altri filosofi e pedagogisti che si sono occupati di educazione con cognizione di causa.  

   Lo stesso Berardinelli confessa - in un’altra intervista del 2015, curata da Giacomo Pontremoli e Luigi Monti, alla rivista “Gli asini” - che di riforme scolastiche non ha mai capito niente e che il solo sentirne parlare lo annoia profondamente. A un certo punto della sua vita, non ha avuto “più dei complessi nei confronti degli esperti di riforme”, che non sono riuscite a portare niente di buono nel sistema scolastico, rivelandosi per lo più delle operazioni burocratiche, che non prendono mai in considerazione quanto è stato maturato dagli insegnanti migliori, ovvero quelli che avrebbero davvero qualcosa da dire sulla scuola, ma che sono una minoranza, perché “la maggior parte degli insegnanti non è abbastanza culturalmente solida per disubbidire alla routine scolastica”.

   In linea generale, è da tempo in vigore l’idea “che il mondo progredisce e che la scuola deve progredire con esso. In che modo? Adeguandosi ai progressi del mondo. Così – scrive Berardinelli - la scuola è fregata. Deve obbedire in sostanza alla società così com’è e all’economia. Quando la scuola rappresenta un’altra dimensione rispetto alla società, quando è sfasata, al limite un po’ arretrata, allora può anche creare degli individui autonomi, più liberi, con il rischio naturalmente che siano degli “inadatti” destinati a nuotare controcorrente”.

   Ma per creare questi individui più autonomi l’insegnante dovrebbe combattere anzitutto in se stesso la noia: “se lui non si annoia, il contagio avviene. Poi certo, i refrattari ci sono sempre. C’è una teoria, che ho in testa da così tanto tempo – continua Berardinelli - che mi immagino di averla inventata io, la teoria del contagio positivo o negativo. Chi si annoia trasmette noia e riesce a rendere noiosi perfino i più grandi capolavori della cultura umana. Questo è criminale. Il migliore insegnante è quello che impara mentre insegna”. Il principio ispiratore di questa teoria potrebbe essere formulato come segue: “un buon corso di insegnamento non è quello in cui lo studente si infatua o si ricorda dell’insegnante, ma quello in cui si ricorda di ciò che l’insegnante gli ha insegnato. L’importante non è fare fuochi d’artificio, ma far leggere libri memorabili”.

   Per questo Berardinelli dice di considerarsi un “mediatore”, e che se insegnasse ancora cercherebbe “di far capire agli studenti che i libri esistono davvero. Che non sono un’invenzione didattica, di cui, finiti gli anni dell’apprendimento obbligatorio, liberarsi definitivamente”. Bisognerebbe dunque diminuire “la quantità di libri scolastici, cioè prodotti per la scuola, che si autodenigrano da sé, anche se sono bellissimi. L’insegnante dovrebbe usarli, ma farli vedere agli studenti il meno possibile. Far vedere loro, invece, i libri che si trovano in libreria o in biblioteca. Lì trovi che Catullo, Seneca, Petronio si possono comprare e sono stati perfino tradotti”.

   Se si vuole avviare i giovani alla letteratura, a quell’esperienza unica e insostituibile per qualsiasi formazione umana e culturale che è la lettura, bisogna riuscire a far tornare gli studenti nelle librerie e nelle biblioteche, a guardare e toccare i libri, a sentire il loro odore, “a leggere i titoli, l’autore, la quarta di copertina, sfogliarli, maneggiarli”, perché solo chi ha instaurato un rapporto autentico e diretto con i libri può non trovare asfittiche e noiose le ore trascorse a studiarli. Chi trae qualche vantaggio formativo dalla preparazione a un esame o a una verifica non è infatti colui che cerca di cancellare spontaneamente quanto ha forzosamente appreso in pochi giorni: “il vero studente è quello che continua a parlare di quello che ha studiato” per la verifica dopo averla affrontata, o per l’esame dopo che ha fatto l’esame.

   Invece la scuola italiana assomiglia sempre di più a una auto-rappresentazione in cui si cerca di testare gli studenti su argomenti che conoscono spesso di rimando, o che hanno studiato in modo frettoloso tra mille altri compiti da fare. Spesso sono interrogati sulle trame di romanzi che non hanno mai avuto né il tempo né la voglia di leggere e su argomenti di cui non rimarrà traccia un mese dopo averli memorizzati a dovere. Si tratta di un approccio didattico e culturale che non è destinato a lasciare tracce rilevanti, né a porre chicchessia in condizione di trarre fuori da sé il meglio dalle sue disposizioni e capacità. Non lo aiuta, in altre parole, a sviluppare nessuna reale capacità e competenza, e quindi ad acquisire alcun vero “merito” in ambito scolastico.

   Questa categoria, che è di recente entrata a far parte anche della denominazione ministeriale, può ovviamente essere intesa in vari modi. Si può concepire il “merito” come l’essere più bravi rispetto ad altri in questa o quella disciplina, come la capacità di primeggiare o di appartenere alla ristretta elite dei “migliori”, cioè di quelli destinati ad essere poi premiati dalla società e dalla vita con professioni gratificanti e remunerative. Oppure lo si può concepire come la capacità di sviluppare le proprie attitudini e vocazioni, d’individuare cosa c’interessa fare per farlo poi in modo gratificante e responsabile, di riuscire a sviluppare le nostre passioni in un saper conoscere e in saper fare tali da trasformarle in attività utili e interessanti anche per gli altri. In questa seconda accezione, le valutazioni non dovrebbero servire a stabilire una classifica nell’acquisizione di conoscenze e competenze, ma in primo luogo quanto si è stati capaci di ampliare e approfondire autonomamente entrambe in modo non episodico, ovvero in modo tale da poterne trarre anche valide indicazioni per le proprie scelte future, sia universitarie che professionali.

    Negli ultimi anni, tuttavia, l’idea di “merito” più diffusa non è stata questa, ma una competitiva e spesso sterilmente elitaria, che ha trasformato progressivamente la scuola in un luogo dove si producono dosi sempre più massicce di ansia e frustrazione, stati d’animo che sono ben lungi dal poter fornire qualche contributo costruttivo alla formazione e alla preparazione degli studenti. Non a caso, proprio questi ultimi stanno cominciando a manifestare il loro disagio in varie scuole superiori, un disagio che risulta in crescita anche secondo diverse indagini statistiche, indipendentemente dal fatto che siano state realizzate dall’Unicef o dall’Oms, dall’Istat o dall’Istituto Iard di Franco Brambilla.

   Ma le statistiche non dimostrano solo questo: esse rilevano che una buona dose di burnout affligge un’ampia maggioranza di docenti e che livelli crescenti di stress sono sempre più diffusi nelle stesse famiglie che hanno figli in età scolare. Da uno studio condotto da GoStudent e Younite è emerso che il 50% dei genitori italiani è in serie difficoltà nella gestione dello stress scolastico dei figli, che in parte contribuiscono involontariamente ad alimentare in virtù dello spontaneo desiderio di assecondare ciò che Herbert Marcuse, negli anni sessanta del secolo da poco trascorso, definiva “principio di prestazione”.

   L’impressione complessiva che se ne può ricavare è che studenti, docenti e famiglie siano vanamente impegnati a stressarsi a vicenda senza trarne alcun vantaggio sotto il profilo culturale. Alcuni ritengono che questo crescente livello di tensione sia necessario per conseguire risultati sempre migliori, e che quindi sia una conseguenza inevitabile di qualsiasi impegno assiduo e serio, ma a quanto pare non è così. I test invalsi, ma anche quelli d’ingresso all’università, confermano infatti ogni anno che il nostro sistema educativo produce, almeno rispetto agli standard europei, ampie sacche d’ignoranza in eccesso, sacche che non solo non accennano a diminuire, ma che anzi con col tempo tendono ad aumentare.  

   Si può quindi ragionevolmente ipotizzare che il “merito” conseguito seguendo queste procedure didattico-educative non solo non venga incoraggiato e incrementato, ma che sia condannato a scemare. Del resto, e vuol essere solo un esempio, perché mai studenti che imparano trame e nozioni narratologiche di romanzi che non hanno mai letto - e quindi senza aver mai appreso a fare ciò per cui quei romanzi sono stati scritti, ovvero provare il piacere di leggere - dovrebbero riuscire a instaurare una relazione autentica con questi stessi romanzi?  Che tipo di conoscenze o competenze potrebbero in effetti mai sviluppare imparando a parlare di ciò che in effetti non conoscono? Questo è piuttosto un sintomo del tipo d’ignoranza, anoia, che Platone considerava più esecrabile. In effetti, è solo una conoscenza presunta, un’illusione di sapere che deriva dal saper parlare di ciò che non si conosce, e non può portare ad acquisire alcun “merito” reale.

   L’altra idea del “merito” cui si è fatto riferimento, e che costituisce una sua interpretazione sempre più emarginata e desueta, è quella che lo concepisce come l’acquisizione della capacità di sviluppare in modo armonico le proprie attitudini e i propri interessi fino a trasformarli in attività di studio adeguatamente motivate, e dunque in grado anche di preparare al meglio a professioni che si potranno svolgere in modo competente e gratificante per tutta la vita.

      Il risultato dell’abbandono di una simile chiave di lettura del “merito” è una scuola sempre più affaticata e faticosa per tutti, e cioè non solo per gli studenti, ma anche per le famiglie e docenti; una scuola pervasa da uno studio meccanico e ripetitivo che è volto più al conseguimento di una valutazione prestigiosa che non a una vera e propria formazione culturale. In questo modo, non solo è sempre più difficile coinvolgere in profondità la personalità dei ragazzi, ma si tende a trasformali in esecutori passivi e disinteressati di un percorso formativo di cui comprendono sempre meno il senso. Soprattutto, in questo modo s’insegna ad apprendere ciò che si studia indipendentemente da alcun reale coinvolgimento della propria curiosità e della propria sensibilità, lasciando i destinatari dell’azione educativa e didattica per lo più ignari dell’incidenza virtuale che il loro modo di studiare potrebbe avere sulla qualità futura della loro vita.

   Invece di sottoporre gli studenti a tipologie di verifiche che poi, oltre a rivelarsi sempre meno soddisfacenti di quanto si auspicava, non fanno che aumentare la distanza tra ciò che cercano di apprendere e i loro interessi, erigendo così delle cattedrali di più o meno brillanti prestazioni senza essersi curati di costruire delle fondamenta solide, bisognerebbe forse, se la scuola vuole davvero valorizzare il “merito”, se vuole davvero formare dei cittadini sempre più provvisti di “meriti” culturali e civili, cercare di ripartire proprio dalle fondamenta: ovvero dal desiderio di conoscere e di capire, dal piacere di leggere, di dialogare e di confrontarsi per poter comprendere e saper sviluppare sempre meglio le proprie attitudini e vocazioni, che è poi quanto può rendere la vita di ciascuno, a un tempo, più felice e più utile a quella degli altri.