Attraverso la durata di tutte le cose

 

Si suppone che questa lettera sia stata scritta in un’izba a Mytišci, mentre Mosca bruciava, al conte Pierre Bezuchov dal principe Andrej Bolkonskij dopo l’infausto ferimento di quest’ultimo; poco dopo il suo incontro con Anatole Kuràghin, anche lui gravemente ferito, nell’ospedale di campo a Borodinò e poco prima dell’ultimo incontro dello stesso principe con Nataša Rostov.

 

 

Carissimo amico mio,

   penso che la guerra abbia la capacità d’illudere i suoi attori, di convincerli di essere loro i protagonisti assoluti del loro destino e di quello dei popoli e delle nazioni. Ma certe sconfitte, come per esempio quella di Borodinò, possono essere tali solo in apparenza, e poi rivelarsi altrettanti inizi di clamorose vittorie. Come il successo può sollevare in aria gli eserciti e farli sentire assoluti padroni delle circostanze, con altrettanta facilità e molto più rapidamente il vento della storia può ricacciarli in basso fino a farli volare nel fango. Si può forse immaginare che un simile vento sia effetto di una giustizia divina? Questo può indurci a pensare che dietro alle immani tragedie della guerra ci sia la mano di Dio?

   Vi prego di scusarmi per la mia grafia: vi sto scrivendo con le poche forze residue e la poca lucidità che mi sono rimaste, appoggiando il foglio su una copia del Vangelo che Timochin è riuscito a procurarmi. Scrivo in pratica da sdraiato, per cui vi prego di scusarmi anche le numerose sbavature. È notte fonda, tutti stanno dormendo e soltanto un grillo e una mosca mi fanno compagnia nell’izba dove mi hanno portato.

 

   Quel giorno, vi ricordate, quando andammo insieme a Lysyia Gory, non vi risposi. Mi avevate detto che là dove io avevo visto il nulla, voi pensavate che proprio là ci fosse Dio. Non commentai questa vostra convinzione. Io avevo visto la possibilità di colmare questo nulla addentrandomi in esso mentre tenevo ben stretta la mano di Nataša, ma poi tutto quello che avevo sognato e progettato non si era rivelato possibile. Ci sono cose che sembrano impossibili, e poi invece si rivelano di colpo reali, senza passare dalla condizione di possibilità. Ma anche quando si sono verificate, pur nella loro perfetta evidenza, continuano a sembrarti irreali, quasi la prova definitiva dell’irrealtà del tutto, del nulla trionfante che ammanta ogni cosa.

   Voi forse non potete capire questo perché siete sempre stato più vicino alla vita di me, perché avete sempre avuto con lei una confidenza maggiore. In questi giorni ho pensato che persino con Nataša voi avreste potuto avere una confidenza maggiore. Vi ho sempre percepito come più capace di me di essere spontaneamente felice, anche quando non lo eravate. In tutta la vostra vita voi avete dimostrato una capacità che in fondo, anche senza avvedermene, vi ho sempre invidiato. Anche lei se ne era accorta. Un giorno mi disse che voi appartenevate a quella specie di uomini che possono essere felici solo quando si sentono del tutto puri, e credo che in fondo lo siate stato per larghi tratti della vostra esistenza. Siete sempre stato attento agli altri senza aver bisogno di trovare dei buoni motivi per esserlo. Forse è proprio questo che vi ho sempre invidiato e che vi ho sempre considerato l’amico più caro, anzi, forse, credo di poter dire, l’unico amico che ho davvero avuto. Voi sapevate scorgere negli altri ciò che possono essere al meglio delle loro possibilità, il loro versante migliore, mentre a me capitava sovente il contrario.

   Quando mi veniste a trovare alla vigilia della battaglia di Borodinò, dopo quella nostra conversazione, non riuscii a lungo a prendere sonno, contrariamente a quanto lo stesso Kutuzov era solito raccomandare ai suoi ufficiali e soldati. La mattina dopo le betulle oscillavano al sole e il ricordo del volto di Nataša risplendeva con loro. Mi era fin dall’inizio apparsa piena di una forza misteriosa e l’avevo amata fin da subito, riponendo in lei una fede assoluta, facendo progetti d’amore e di una comune felicità. Lei è stata forse l’unica donna ad essermi sembrata completamente sincera. Amavo la sua schiettezza spirituale, quella sua anima che pareva immedesimata col corpo, e l’amavo con tutta la felicità di cui ero capace. Quando quell’immagine si ruppe e quei progetti crollarono fui invaso da una rabbia sorda e muta ma quella mattina, dopo che ci salutammo, in me non c’era traccia di nessun sentimento del genere, perché mi trovavo lì, davanti a quelle betulle, con la sensazione che le avrei viste per l’ultima volta. L’indomani il loro fogliame e la loro scorza bianca per me forse non sarebbero più esistiti, il mondo sarebbe potuto sparire con me, insieme al viso di lei, che in quel momento mi parve di nuovo pura e limpida come la prima volta che la incontrai. Un brivido mi corse per la schiena, un brivido freddo e senz’anima e per la prima volta ebbi l’impressione di vedere in faccia la morte, quasi di poterla conoscere. La morte era semplicemente questo: il non poterla più vedere, la definitiva scomparsa di Nataša dal mondo.

   Per questo non ci può essere una bella morte. Vi ho mai detto che sull’altura di Pratsen, dopo il mio primo ferimento, incontrai Napoleone? <<Voilà une belle mort!>> - disse guardandomi mentre mi lamentavo per terra. Sentii quelle parole in modo confuso, quasi come il ronzio di una mosca o dentro un dormiveglia, e non vi badai molto. Mi bruciava la testa mentre perdevo sangue e vedevo sopra di me un cielo lontano, di un blu estraneo e assoluto. Sapevo che chi aveva usato quell’espressione era Napoleone, ma semplicemente non m’importava niente di chi fosse perché ero di fronte a quel cielo che non riconoscevo e dove tuttavia si ostinavano a correre delle nuvole altrettanto irreali. Ogni cosa diventa irreale in presenza della morte, quando appena se ne riesce a cogliere la possibilità reale. Tutto diventa nuovo, misteriosamente estraneo. Persino il rumore si fa silenzioso. Ogni volta che ci si trova di fronte a un dolore che non può essere contenuto, che potrebbe rivelarsi solo smisurato, la realtà perde i suoi contorni e nulla è più come prima.

   L’unica impressione che mi risvegliò da questa sensazione d’irrealtà fu un desiderio improvviso, una volontà ferma e irriducibile, una speranza: che quella gente mi aiutasse e mi riportasse alla vita. E poi, un attimo dopo, sentii la mano di lei stretta nella mia e vidi il suo volto che mi sorrideva. E quel sorriso mi sembrò eterno. E con esso mi parve eterno il cielo azzurro sopra di me, l’odore dell’erba e della polvere da sparo, il dolore che sentivo, il volo di un uccello che mi passò in lontananza sopra la testa, il ricordo della nostra recente conversazione e tutto, qualsiasi cosa o ricordo, tutto divenne allora di nuovo, e direi, anzi, finalmente, reale, per sempre sottratto alla morte. Solo quando il tempo scompare nell’istante che stiamo vivendo l’irrealtà del tempo e della morte divengono evidenti, e solo allora si diviene persuasi che ogni vita è eterna come è eterno quell’istante. Capire questo, ma che dico capire, sentire questo, è incontrare Dio, farsi testimoni della sua presenza.

   Ma non voglio annoiarvi troppo con queste mie considerazioni; tra i due, il filosofo siete certamente voi e non vorrei darvi l’impressione di volervi sottrarre il ruolo che avete sempre avuto all’interno della nostra amicizia. Voi mi diceste un giorno che la guerra può essere sopportata solo attraverso una completa sottomissione della libertà alle leggi di Dio, e che a sua volta questa sottomissione richiede un’assoluta semplicità. Senza questa semplicità che consente una piena obbedienza a Dio l’uomo non può possedere nulla e avrà sempre paura della morte, mentre a colui che non teme la morte appartiene tutto. E poi mi parlaste di un’altra capacità, che però almeno in un primo momento contrastava per me con questa semplicità: e cioè del saper congiungere nella propria anima il significato di ogni cosa, dell’arrivare ad avere una visione d’insieme della vita e del mondo come di qualcosa di unitario e di unico in cui ogni cosa è collegata con tutte le altre e tutte sono aggregate insieme nel tutto. Solo qualche tempo dopo compresi che quella semplicità era l’unico modo per arrivare ad avere una visione unitaria della vita, per aggregare tutte le cose, come vi esprimeste voi.

   Si tratta di quella semplicità che può sopraggiungere e attraversarci come una luce nuova quando ci si sente vicini alla morte. Allora si comprende come l’unico modo in cui può verificarsi questa aggregazione di ogni cosa in un tutto, che può produrre questo sentimento d’armonia e opporsi alla morte è l’amore. Solo l’amore ci consente di comprendere che la vita non può finire nel nulla, e che anzi è destinata a sottrarsi al nulla. La realtà esiste e la vita è reale perché qualcuno è capace di amare. Solo se è capace di generare amore un essere umano diventa reale, cessa cioè di essere l’alone vago di un sogno isolato o di un incubo. L’amore lega e unisce tutto, è la vita stessa che scaturisce da Dio e morire non significa nient’altro che io, una particella d’amore, ritorno alla sorgente comune ed eterna. Per questo, credo che l’amore sia l’unica realtà che è capace di renderci semplici e di farci vivere secondo la verità del tutto.

   Dopo la fine del rapporto con lei, dopo il suo, diciamo così, perché bisogna pur dirlo, <<tradimento>>, più nulla mi sembrava possibile. Ma non perché mi sentissi ferito nel mio orgoglio. Non perché serbassi verso di lei qualche forma di rancore. Ma semplicemente perché più nulla mi pareva possibile. Perché la vita stessa, l’unica forma o tipo di vita in cui ha senso credere, non era più reale, e non avrebbe mai più potuto esserlo.

   In una vostra lettera voi mi avevate spiegato le ragioni per cui, se io avessi potuto perdonare, tutto sarebbe stato ancora possibile. Ma purtroppo per me non era questo il punto: nulla era ancora possibile perché non poteva essere più reale, perché non era più possibile credere pienamente alla sua realtà. Non a quella del suo amore, ma a quella anche del mio, della vita stessa, del sogno e della semplicità che potevano rendere reale la vita. Solo ora capisco che avevate ragione voi: non solo ora non trovo alcuna difficoltà a perdonare, ma mi sembra di non avere niente da perdonare, che poi, credo, è l’unico modo per perdonare davvero.

   Ma con tutto questo mio parlarvi del passato, oltre ad avervi probabilmente annoiato (in fondo vi ho detto solo cose che voi già sapete e che in buona parte avete già detto a me), non vi ho ancora raccontato del presente. Ebbene, qualche giorno fa ho incontrato Anatole Kuràghin.  È stato subito dopo il mio ferimento: lo tenevano per un braccio e gli offrivano dell’acqua, ma lui singhiozzava e non riusciva a tenere il bicchiere perché gli tremava la mano. Allora mi chiesi quale fosse il legame della vita di quell’uomo con la mia. Certamente aveva causato un dolore che non era nemmeno possibile quantificare, qualcosa di sproporzionato, derubandomi di qualcosa che non aveva per lui la minima importanza… ma qual era adesso il legame misterioso che univa la mia vita alla sua?

    Me lo chiesi, senza sapere perché, e non trovai risposta alla mia domanda. Ma subito dopo mi ricordai di Nataša come l’avevo conosciuta a quel ballo del 1810, col suo collo e le sue braccia sottili, il timido viso felice, pronto a un entusiasmo che lasciava trasparire tutta la sua capacità di amare. E subito, non appena rividi per qualche istante, come in sogno, l’immagine del suo viso quegli attimi mi sembrarono millenni, quasi fossero capaci di attraversare intatti l’enormità del tempo e la durata di tutte le cose. La sua semplicità e la sua sincerità avevano il potere di rivelarmi quanto tutto fosse davvero semplice, erano il coltello che dolcemente penetrava nel cuore per ripulirlo da ogni durezza, da ogni risentimento verso la vita.

   Allora provai, credo per la prima volta, quella che di solito si chiama compassione. Una compassione vera e piena, per me e per ogni essere umano, per gli errori di tutti, indistintamente. Compassione e amore per chi ci ama e per chi ci odia, amore per i nostri nemici, e cioè quell’amore che Cristo ha predicato sulla terra e che mia sorella, la principessa Marja, aveva sempre cercato d’insegnarmi. Il non averlo compreso mi aveva indotto a respingere la vita. Mi tornò in mente l’immagine di quella specie di trottola fumante un attimo prima della sua deflagrazione, quando il suo scoppio mi fece ricadere a diversi metri di distanza. Ci fu in me, per qualche istante, una sorta d’incredulità: che quel curioso ordigno potesse essere l’annuncio della morte, la sua incarnazione vivente? E subito dopo aver rivisto nella mia mente quell’immagine me ne resi conto distintamente: l’avere di fronte la morte, la mia e insieme quella del mio <<nemico>> Kuràghin, mi permetteva di comprendere come sarebbe potuta essere la mia vita da quel momento in poi se fossi sopravvissuto. Compresi allora - e sento ancor più distintamente ora, mentre avverto imminente il dissolversi di quel che resta della mia coscienza - che man mano che mi staccavo dalla vita l’amore riusciva ad abbattere l’invisibile barriera che separa la vita e la morte, che quanto più l’amore penetra in un essere umano tanto più questa barriera tende in lui ad assottigliarsi fino a divenire a poco a poco impercettibile. Ma ciò che rimane, in questo caso, non è quel nulla che riconoscevo come l’unico orizzonte reale al tempo del nostro viaggio a Lysyia Gory, ma proprio l’amore che rende la vita reale ed eterna, l’amore che può rendere eterno ogni istante e ogni singola esistenza.

   Ma ormai è troppo tardi per cogliere fino in fondo questa possibilità senza tempo, per scorgerne tutti i riflessi. Forse questo è stato l’unico modo, estremo e fugace, che poteva essermi concesso. Ma non è poco, anzi è tantissimo, oltre quanto avrei potuto un giorno sperare. Purtroppo però il trarre ora tutte le conseguenze da questo discorso lungo e confuso mi è impossibile, perché non riesco a vederle con la lucidità con cui meriterebbero di essere viste. Le forze mi stanno abbandonando e sento di non riuscire più a scrivere niente di chiaro e distinto. Probabilmente tra poco non riuscirò nemmeno a pensare. Affiderò dunque questa lettera a Timochin perché ve la consegni alla prima occasione. Mi dispiace congedarmi da voi così in fretta, ma non posso fare altrimenti.

Spero che voi stiate bene e vi auguro la bella felicità che meritate.

Che Dio vi benedica!

Andrej Bolkovskij.

 

Il principe Andrej chiamò con un filo di voce Timochin e gli affidò la lettera con la preghiera di consegnarla al conte Bezuchov. Quindi distese le braccia e le dita sottili sulle lenzuola abbandonandosi a quella strana mescolanza di pensieri lieti e tormentosi che da qualche giorno preannunciava il delirio che lo conduceva ogni volta a uno stato d’incoscienza. In quella circostanza, quando si riebbe, qualche ora dopo, trovò accanto a sé Nataša Rostov, che lo assistette poi per tutti i giorni successivi, fino all’ultimo istante.