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Cari maestri, cari professori
Ricordi di scuola di un insegnante
Arriva l'1 lungo e secco, poi il 2 con le ciabatte, sembra il 3 un bel gobbetto, e il 4 una seggiolina, pare il 5 un'orecchietta, e il 6 ha un gran pancione… così recitava il sussidiario, e cosi appresi a scuola i primi numeri. Probabilmente tutti abbiamo dei ricordi della scuola: ricordi radi e irregolari, nitidi o vaghi, gioiosi e dolorosi. E tra questi ricordi ci sono quelli degli insegnanti, dato che certe impressioni legate ai più significativi ci accompagnano poi per tutta la vita.
Quel tipo di scuola che io ricordo non esiste più. In quella scuola erano davvero importanti poche cose, che solo in piccola parte si potevano insegnare: l'avere a cuore i propri studenti e amare le proprie discipline, non stancarsi di voler conoscere sempre meglio entrambi e il desiderio di riuscire a trasmettere ai primi il proprio amore per le seconde. Ma ancora oggi, nonostante i molti cambiamenti, tra le persone decisive che si possono incontrare nella vita ci sono i propri insegnanti. A volte maestri di vita, altre volte figure che turbano ancora i nostri sogni, educatori illuminanti o sadici diseducatori, talora ombre fluttuanti e sbiadite, non esiste probabilmente vita che non risenta più o meno marcatamente della loro influenza. Parlare di quelli che hanno inciso sulla nostra esistenza in maniera positiva è un modo di ricordarli, un modo per manifestare loro, anche a distanza di molti anni, una sincera gratitudine, e non parlare di altri una forma di pietà.
Alle scuole elementari
I miei ricordi iniziano in una prima elementare di Viareggio, dove c'era il maestro Tommasi. La sua figura era massiccia e tarchiata, la sua voce energica e a tratti tonante. Un giorno d'autunno chiese a uno studente assai pallido e dall'aria stralunata di andare alla lavagna e scrivere la parola "mamma". Mentre il maestro continuava a spiegarci qualcosa, quel ragazzo andò effettivamente alla lavagna, che si trovava alle spalle del maestro, e dopo qualche attimo di perplessa esitazione iniziò a disegnare col gesso una lunga linea torta, tutta ripiegata su se stessa, che arrivò in pratica ben presto a imbiancare quasi tutto il nero della superficie. Quando il maestro si voltò, probabilmente sollecitato anche dai nostri sguardi attoniti, domandò che cosa fosse ciò che aveva disegnato e candidamente il ragazzo spiegò così la sua opera: "non sapevo scrivere mamma, e allora ho fatto questo".
Il maestro Tommasi rimase per qualche istante ammutolito; poi iniziò a emettere una serie di brontolii tra il costernato e l'indignato che si trasformarono dopo pochi istanti in altisonanti imprecazioni. Ma il ragazzo non si scompose più di tanto e disse che se non gli piaceva tanto valeva che tornasse al suo posto, cosa che fece prontamente, con uno sguardo basso, ma fiero. Il maestro non lo perse di vista in quel suo ritornare quasi offeso al banco, e sul suo viso potei intravedere qualche traccia di un'oscura e prima insospettabile ammirazione.
L'anno dopo cambiai scuola e venni a Lucca, all'Istituto Pillori, diretto dalla signorina Pia Pillori (una volta si chiamavano "signorine" le signore nubili). Era una donnina minuta, con i capelli argentati, un po' di cipria sulle guance e il rossetto sulle labbra sottili. Il portamento era scattante e piuttosto nervoso. All'istituto privato Pillori, gestito da lei insieme alla sorella, insegnava solo alla classe quinta, ma vigilava su tutte le altre, dove in genere c'erano delle maestre piuttosto giovani. Era una maestra molto severa, ma voleva sinceramente bene ai suoi studenti. Quando in seconda morì di leucemia un mio compagno di classe ricordo che pianse ininterrottamente per tutto il tempo del funerale. Avrei avuto voglia di piangere anch'io, ma a un certo punto il Ghilardi, un mio compagno che faceva sempre battute, disse che se il carro funebre avesse accelerato tutti si sarebbero messi a corrergli dietro, e allora capii che potevo ridere, quindi sorrisi e non piansi.
Ma la signorina Pia era davvero severa. Se a qualcuno capitava di sbagliare l'analisi logica le s'infiammava lo sguardo, diventava una furia e gli lanciava il quaderno dalla cattedra. In genere riusciva a centrarlo in mezzo alla fronte anche da diversi metri di distanza. Per controllare come si svolgevano le lezioni nelle altre classi, si appostava dietro le porte a origliare. Appena sentiva il rumore superare i decibel consentiti dal suo tacito regolamento interno faceva irruzione nell'aula e redarguiva aspramente i malcapitati che si trovavano fuori posto a fare confusione.
Un giorno capitò anche a me. Nella classe quarta insieme ai miei compagni più cari da qualche tempo avevamo l'abitudine di prendere in giro un ragazzo spilungone, con il viso lentigginoso e slavato, che ogni tanto si dava un po' d'arie e faceva il secchione. Ma un giorno ci rimase male e allora dissi ai miei amici che bisognava smettere. Non lo fecero, anzi insistettero in modo ancor più pesante, e così finimmo col litigare e prenderci a botte. La giovane maestra non sapeva che pesci prendere, ma dietro la porta, silenziosa e implacabile, stava nascosta la signorina Pia. Proprio mentre eravamo nel bel mezzo della litigata irruppe nella stanza e con la faccia tutta rossa sotto la corona di quei capelli d'argento ci intimò di tornare subito ai nostri posti e domandò alla maestra cosa stesse succedendo.
La maestra, quasi più spaventata di noi, le spiegò che stavamo litigando, principalmente per colpa mia. Allora la signorina Pia, dopo averci passato tutti in rassegna come un generale i suoi soldati prima di prendere una decisione severa, fissò il suo sguardò su di me e m'ingiunse di seguirla in quinta, ovvero nel luogo in cui venivano solitamente confinati i trasghessori impenitenti e rissosi, quelli che potevano essere meritevoli di una punizione esemplare.
A testa bassa, con gli occhi già un po' pieni di lacrime, la seguii. La quinta era una stanza grande, i suoi studenti, quando mi videro entrare, mi accolsero con una qualche espressione di timorosa commiserazione. La signorina Pia, imperturbabile, mi disse di rimanere lì in piedi accanto alla cattedra, ordine che eseguii senza esitare, e continuò poi a fare tranquillamente la sua lezione. Dopo qualche minuto, mentre aspettava che gli studenti finissero un esercizio che aveva loro assegnato, mi chiese a bassa voce cosa fosse successo. Confusamente, balbettando, un po' piangendo, glielo raccontai. Le dissi del Perticaroli, che lo stavamo prendendo in giro, e poi che ci eravamo messi a fare a pugni fra di noi. Dopo il mio racconto ci fu qualche lungo istante di silenzio: poi la signorina Pia pose la sua mano sulla mia, ripiegata sulla cattedra, accartocciata in un pugno malcerto, e la strinse forte, tenendola stretta nella sua e sussurrando semplicemente due parole: "ho capito".
Tutto mi parve ritrovare subito un senso e la mia pena si trasformò in una gioiosa gratitudine. Mi tenne ancora un po' lì con lei e poi, dopo due pacche sulla mia mano sempre accartocciata e un po' bagnata per aver asciugato le lacrime mi rimandò in classe, dove venni accolto dal silenzio dei miei amici, che di certo non erano felici che si fosse arrivati a un esito così tremendo come il confino sugli attenti nell'austera classe della signorina Pia.
L'istituto Pillori era una scuola parificata e si trovava nella piazza antistante alla casa natale di Puccini. Alla fine della quinta, l'anno dopo, dovemmo fare l'esame finale. Ci dettero le pagelle con i bei voti, e in quel momento, leggendola, mi resi conto che non avrei più visto la signorina Pia. Allora mi misi a piangere (in effetti ero un po' piagnone), e lei subito venne a chiedermi cosa fosse successo, e a rassicurarmi, che l'esame era andato bene. Dissi che non era per quello che piangevo. - E allora perché? – mi chiese stupita. Glielo spiegai, con la voce un po' rotta e singhiozzante. Allora lei mi prese la testa tra le sue braccia e iniziò a piangere anche lei, mentre mi rassicurava che tanto ci saremmo rivisti e che sarei andato a trovarla, e così a poco a poco mi rasserenai e la salutai quasi contento, senza sapere che a rivederla non avrei fatto in tempo.
Alle scuole medie
I ricordi delle scuole medie sono costellati da tante figure significative e a loro modo esemplari. Il professor Maurizi era un giovane supplente che avemmo in prima media. Entrò il primo giorno in classe e si sedette alla cattedra, guardandoci senza dire una parola. Poi, quasi distrattamente, tirò fuori i gessi dalla scatola che era davanti a lui e iniziò, nel nostro silenzio interrogativo, a costruire una specie di piramide, o di cattedrale. Quando l'opera fu terminata, senza aver ancora proferito una parola, osservò: "vedete, ora, se sposto un gesso che sta qui in basso (e indicò quale) casca tutto". Detto fatto, spostò quel gesso e cadde in effetti tutto, e nell'aula si udì per qualche istante solo l'eco del lieve rumore dei gessi sulla cattedra.
Il professor Maurizi aveva qualcosa di doloroso e amaro nello sguardo. Me ne accorsi un giorno che mi dette un passaggio in macchina per tornare a casa, perché fece un curioso accenno, senza gravità alcuna nella voce, ai dolori e alle disillusioni che ci aspettano nella vita, mentre guardava la strada davanti a sé come se fosse infinita.
In seconda media avemmo invece la professoressa De Luca: brava donna, intelligente, entusiasta del suo lavoro, sempre pronta a trasmettere fiducia ed entusiasmo a tutti noi. Era amica di un altro professore molto bravo, il professor Stefanelli, che aveva un sorriso sempre incoraggiante: con lui, al doposcuola, facevamo un giornale che s'intitolava Idee aperte. Una sera di primavera, insieme alla sua fidanzata e alla professoressa De Luca, mi portarono a visitare il castello di Nozzano illuminato, che visto dall'interno di notte sembrava più grande e misterioso, e mi sentii molto felice e fiero, perché mi parve molto bello avere dei professori che mi portavano a vedere dei castelli di notte.
Il professor Sartini era invece l'insegnante di scienze: entrava in classe e si metteva a disegnare alla lavagna, un po' come faceva il maestro Manzi alla televisione. Incominciava da un disegno, molto ben fatto, e da lì poi partiva per spiegare qualsiasi cosa. Un giorno disegno un'aquila, un altro una grande rana. Non ricordo cosa ne venne fuori, quale argomento quelle figure servirono a introdurre, ma ricordo di essere rimasto a lungo a bocca aperta per la loro genesi misteriosa da poche tracce decise e bianche sullo sfondo nero della lavagna.
Poi in terza a italiano avemmo la professoressa Pellegrini, che era una signora molto buona e sembrava una nonna. Un giorno scrisse un commento a un mio tema più lungo del tema. Me lo scrisse in fondo all'ultima pagina, in una sottile e minuta grafia calcata con una penna rossa. Replicando a un certo pessimismo che traspariva dal mio svolgimento in quel commento concludeva che se lei poteva portare la sua piccola goccia d'amore nel mare della vita era felice. Poi ne parlammo anche a voce, e a ripensarci rivedo nei suoi occhi un po' arrossati e languidi tante piccole scintille di quella sua luce buona. La tornai a trovare qualche volta dopo la fine delle medie, e conobbi anche suo marito, che era scrittore e poeta.
Con Don Brunicardi invece organizzammo un cineforum, e facemmo anche un documentario. Era un bravo prete molto attivo, con due guance rosse e una faccia da bambino. Ci fece vedere il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e alcuni di noi ne rimasero molto colpiti. Nella sala scura le ragazze stavano davanti alla fila dei maschi. Io mi ero messo dietro a Gabriella, una ragazza molto carina, con gli occhi e i riccioli neri, che mi piaceva molto e di cui ero innamorato. Durante il film un mio compagno più esperto mi consigliò di provarci, di toccarle le tette, che ci sarebbe subito stata. Allora, nel buio, l'abbracciai piano piano alla vita, e poi più su, e lei non si oppose. Rimasi proteso in quel mezzo abbraccio pieno di carezze per un buon quarto d'ora, sospeso tra quella prima effusione erotica e le voci che giungevano da uno schermo d'ombre e di luci in cui ormai non distinguevo più nulla, respirando piano per non rovinare tutto e avvicinando con cautela le mie labbra al suo collo fino a sentirla per un attimo lievemente trasalire.
Al liceo
A liceo-ginnasio Niccolò Machiavelli di Lucca il primo ricordo va alla professoressa Ragone, che era simpatica, tutta ingioiellata e con bel sorriso sfolgorante di rossetto. Con il mio compagno di banco, proprio davanti a lei, in prima fila, parlavamo spesso di politica e d'imminenti rivoluzioni. Lei era abbastanza comprensiva e ogni tanto pareva ci ascoltasse anche mentre spiegava. Poi all'improvviso ci diceva un po' spazientita di smettere, ma non sembrava troppo convinta, e infatti dopo un po' si continuava.
Sempre al ginnasio un incontro importante fu quello con Don Mattioli, un vero teologo, profondo e dialogico, una persona di grande temperamento e con uno sguardo giovane e vivace, nonostante avesse già una certa età. Aveva fama d'essere stato molto bello e d'aver fatto innamorare in gioventù diverse ragazze. Un giorno ci spiegò che l'essere prete non era in contrasto con l'essere uomo e che anzi aveva un senso proprio in quanto uno non smetteva di essere uomo. Un'altra volta ci confessò che si commuoveva ascoltando le arie di Puccini. Aveva una voce calda e gesticolava bene, lanciando occhiate acute e remote verso la luce che entrava dalle finestre, e ogni tanto si rimaneva a parlare di Dio e del male fuori della scuola. Sapeva ascoltare. Un giorno, nell'atrio, durante la ricreazione, mi chiese all'improvviso perché sembrassi un ragazzo più grande della mia età, e non seppi rispondere, ma mi sentii più vecchio del solito.
In prima liceo avemmo come supplente un professore di filosofia molto simpatico di cui non ricordo il nome, perché venne soprannominato subito Babeuf da una mia compagna, e tale poi rimase. Portava degli occhiali con lenti spesse, quasi due fondi di bottiglia, e sputacchiava un po' mentre parlava. Diceva cose molto interessanti, che quasi nessuno in classe riusciva a sentire bene e che in pochi ascoltavano. Un giorno, era da poco uscito Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e la sera prima avevano dato in televisione la Contessa di Hong Kong di Chaplin, ci chiese provocatoriamente quale ci fosse piaciuto di più. Qualcuno osò rispondere quello di Bertolucci e lui, dopo un sorriso costernato e divertito, ci spiegò perché non c'era nemmeno paragone e per quali ragioni estetiche il film di Chaplin fosse molto superiore.
Babeuf era di Viareggio ed era anche un grande seduttore. La sua tecnica per rimorchiare in "passeggiata" consisteva nel camminare tranquillo trascinandosi accanto una vecchia bicicletta gialla: pare suscitasse una viva curiosità da parte delle belle forestiere. Le uniche con cui questo tipo di approccio a base di bicicletta gialla non funzionava erano le belghe, e non si era mai spiegato perché.
Un giorno venne con noi a giocare a pallone, in un campo regolamentare. Giocava bene, a centrocampo, ma a un certo punto perse gli occhiali con i fondi bottiglia. Per la prima volta lo vedemmo un po' preoccupato. Ci mettemmo tutti a carcarli sul campo da gioco, lui a quattro zampe, fino a quando non li ritrovammo. Se l'infilo subito con un sorriso di giubilo e riprendemmo a giocare.
Poi c'era il professor Colombo, che parlava spesso delle scienze naturali nel deserto di un vocìo, nel più completo disinteresse della classe, ma che era molto intelligente e competente. Batteva debolmente le sue piccole mani per richiamare l'attenzione, accompagnando quel gesto con qualche debole richiamo vocale. Aveva il corpo minuto e una testa ovale che a volte dondolava proprio come quella di un colombo, e dava sempre l'impressione di essere stato catapultato lì per un'improvvida sventura, perché non sembrava starci bene, nonostante l'amore che lasciava trasparire per la sua materia.
Ma tra tutti gli insegnanti del liceo quella che lasciò una traccia indelebile fu sicuramente la professoressa Stefanelli, che però non era parente dell'altro delle medie. Parlava con voce bassa e ispirata e quando spiegava entrava in una sorta di concentrazione mistica: guardava dei punti indefiniti ruotando lentamente lo sguardo, posandolo di tanto in tanto su qualcuno di noi e nel contempo muoveva la mano con cui reggeva gli occhiali con ampie volute; quindi con la stanghetta si sfiorava la punta del naso, poi la fronte o un orecchio, oppure la metteva in bocca per un istante e quindi riprendeva a volteggiare mano e occhiali nell'aria. Era interamente presa da quanto diceva e nemmeno all'università mi è mai capitato di sentire lezioni di letteratura italiana così belle. Un anno ci portò in gita a Roma dalla mattina alla sera per vedere una mostra organizzata da Stella Rossa. Era molto impegnata politicamente, e sebbene Stella Rossa fosse un'organizzazione politica stalinista la cosa non sembrava turbarla più di tanto, né tantomeno turbava noi. All'inizio degli anni 70 era così, ed eravamo un po' tutti convinti che fosse normale. Nonostante la sua apparente freddezza e il suo dare del lei era molto attenta alle peculiarità di ognuno e formulava in modo pacato e schietto ciò che aveva da dire. Non ho mai smesso di esserle grato per il suo insegnamento e di andare a trovarla, fino agli ultimi giorni della sua vita.
All'università di Pisa
Dopo il liceo, l'università, a Pisa. Anche lì ho avuto la fortuna di avere grandi professori. Dal professor Sainati, la cui grande umanità era pervasa da una straordinaria cultura filosofica, ricordo in particolare le lezioni sulla Fenomenologia hegeliana, che erano scandite con un timbro di voce e una chiarezza retorica degne di un docente ottocentesco, forse dello stesso Hegel. In pratica, considero ancora oggi quelle lezioni un capolavoro didattico. Nello stesso periodo frequentavo le lezioni affabulanti e avvolgenti di Bodei, con cui poi mi sono laureato, e quelle intense e profonde, che a tratti sembravano un po' spiritate, di Gargani su Wittgenstein. Di Badaloni ricordo le belle lezioni su Marx borbottate con la testa e gli spessi occhiali sprofondati nelle sacre pagine del Capitale, mentre Barone spaziava tra un neopositivista e l'altro con la sicurezza e la competenza di uno di famiglia. Alle sue lezioni partecipava spesso anche il professor Pera, che insegnava filosofia della scienza, a cui si deve riconoscere il grande merito di aver fatto conoscere meglio Popper in Italia. Erano professori che avevano opinioni diverse su vari argomenti significativi, ma non c'era una loro lezione che non valesse la pena ascoltare con la massima attenzione.
Le lezioni del professor Colli – l'autore della Sapienza greca, e insieme a Mazzino Montinari dell'edizione critica delle opere di Nietzsche - avevano invece un andamento divagante e trasognato. Giocava spesso col suo naso, che manipolava con distratta disinvoltura, mentre ci parlava dell'Apollo iperboreo, dell'oracolo di Delfi e dei suoi enigmi arcani. Un gruppo di studenti poi lo accompagnava alla stazione a prendere il treno per Firenze e così durante il tragitto la lezione continuava in versione peripatetica, sotto forma di conversazione. Un giorno lo incontrai in un corridoio insieme a un suo collaboratore e mi chiese se ero un normalista. Gli risposi di no e allora lui spiegò che si era accorto che i normalisti spesso gli nascondevano di essere tali. Poi raccontò altri aneddoti divertenti, come del fatto che alcuni studenti gli avevano chiesto perché non facesse il concorso per diventare professore ordinario, visto che era solo associato. La sua risposta, che riportò durante quel breve colloquio in corridoio, fu accompagnata da un sorriso divertito: "non posso farlo perché non c'è nessuno in grado di esaminarmi". Aveva ragione, ma naturalmente l'università italiana non prevedeva, come ancora non prevede, questo genere di eccezioni.
Dall'altra pare della cattedra
Oggi, purtroppo, questa dei miei maestri e professori è una scuola che non c'è più, o di cui è rimasto poco. Così come è rimasto poco di quella dove ho poi insegnato, in diverse regioni, per 35 anni. Non l'ho mai considerato nemmeno un lavoro, perché l'ho fatto con piacere, senza sentire la fatica, che pure c'era, senza risparmio di energia e cercando di trasmettere al meglio delle mie possibilità quello che secondo me era degno di essere apprezzato e amato. Insieme ai miei studenti abbiamo letto libri, proposti da me ma anche da loro, ne abbiamo discusso e ce li siamo raccontati, e abbiamo anche realizzato documentari e mediometraggi. In uno di questi, liberamente ispirato alla vita di Leopardi, lo studente protagonista, che scriveva già allora delle poesie molto belle, è poi diventato un poeta di prima grandezza nel panorama della poesia italiana contemporanea.
A scuola, nel corso degli anni, abbiamo realizzato anche vari giornali, cartacei e poi on line, ma soprattutto abbiamo fatto delle belle gite in mezza Europa: abbiamo visitato una Praga piovosa e misteriosa sulla scia di Kafka e Kundera e attraversato Parigi facendo chilometri a piedi di notte e di giorno; ci siamo goduti un bagno termale sotto la neve sulle montagne svizzere e un'escursione nel deserto, dove una notte cavalcammo, dopo una cena sotto una tenda, su dei cavalli berberi intorno a un fuoco.
Bei ricordi. Sono ormai tanti gli studenti di cui ho un bel ricordo: perché spesso mi hanno stupito e sollecitato, perché mi hanno commosso o divertito, rallegrato e consolato, e perché più in generale mi hanno dato soddisfazioni umane e professionali non facilmente dimenticabili. Ma tra tutti, e per tutti, voglio qui ricordarne almeno una, la cui memoria mi è particolarmente cara. Prima di entrare di ruolo, un anno fui chiamato ad avviare una piccola scuola media per i figli degli ingegneri italiani e argentini che lavoravano lì, a Cernavoda, in Romania, dove il governo rumeno aveva commissionato ad "Ansaldo international" e a un'azienda canadese di cui non ricordo il nome la costruzione di una centrale nucleare. Cernavoda era una cittadina costruita sulle sponde del Danubio, tra Bucarest e Costanza. Fino a un recente passato era stata una colonia penale di Ceausescu e nel 1992, quando ci arrivai io, aveva circa quindicimila abitanti e sembrava di essere nel XIX secolo: i mezzi di traporto più diffusi erano carri trainati da cavalli o da muli, verso sera i maiali e le oche passeggiavano nella piazza principale sotto la luce fioca di qualche lampione e nei pochi negozi si potevano comprare verdure e carne davvero a poco.
In quella scuola italo-canadese, ma frequentata anche da studenti argentini, avevo una pluriclasse: prima, seconda e terza media tutte insieme, e insegnavo diverse materie, tra cui italiano. Quell'anno i ragazzi lessero molto, circa una media di quattro o cinque romanzi a testa, scelti tra le opere degli autori considerati dei classici della letteratura per l'adolescenza. Dopo aver letto i vari romanzi, gli studenti li raccontavano ai compagni, arricchendoli con commenti personali di vari tipo e pertinenza, spesso in modo coinvolgente.
Una di loro, Maria Ferrazza, una ragazzina argentina che frequentava la prima, con due occhi neri e luccicanti d'intelligenza, durante l'anno ne lesse undici, e non solo li lesse, ma li raccontò in classe in modo così divertente e interessante, commentando i caratteri dei singoli personaggi in modo così spregiudicato e così poco imparziale che non solo riuscì a coinvolgere il suo pubblico, ma convinse anche qualche genitore (nel villaggio del cantiere costruito dai canadesi ci si conosceva un po' tutti) a leggerne qualcuno che si era perso da ragazzo.
Trattandosi di una scuola privata, andammo a sostenere l'esame di Stato alla scuola italiana di Bucarest, dove una commissione era stata inviata direttamente dall'Italia a esaminare gli alunni per l'ammissione alla classe successiva. Furono tutti promossi, e con buoni risultati, ma l'esame di Maria fu un caso unico, credo, nella storia degli esami. Subito infatti i commissari le chiesero se avesse letto qualcosa durante l'anno, e quando lei gli snocciolò con grande spigliatezza i suoi undici titoli uno dopo l'altro qualcuno di loro si lasciò sfuggire qualche risolino ironico e qualche sguardo incredulo con i colleghi. Poi gli chiesero di quale preferisse parlare, ma lei fece scegliere loro. Le proposero allora Le avventure di Huckberry Finn, il libro con cui secondo Hemingway nasce la letteratura moderna. Il racconto di Maria, in lingua italiana nonostante che lei fosse di madre lingua castigliana, iniziò in modo come al solito spigliato e divertito, durò circa una quarantina di minuti e fu così ricco di dettagli e commenti significativi e brillanti, con una proprietà di linguaggio così raffinata, che lasciò la commissione letteralmente a bocca aperta, tanto che nessuno osò interromperla o fare commenti di sorta. Alla fine il Presidente, dopo un lento e reciproco sguardo d'intesa con gli altri commissari, chiese se qualcuno avesse qualche domanda da fare, e tutti lasciarono rapidamente intendere di no.
Fu così che Maria superò l'esame con il massimo dei voti, senza in pratica che le fosse rivolta domanda, e in modo del tutto meritato, come poi la sua successiva carriera scolastica confermò esaurientemente. Quando una decina di anni dopo seppi della sua morte, a Buenos Aires, in un incidente in moto, su cui viaggiava col suo fidanzato, il dolore fu colmo di tutti i ricordi ancora vivi di lei, che era stata la perfetta sintesi delle tante vite che stava per incarnare. Per questo per me rappresenta ancora, con il suo sorriso e la luce che brillava nei suoi occhi neri, tutti gli studenti di sempre, tutti i giovani lettori che la scuola riusciva a creare e in piccola parte anche oggi riesce forse a formare, tutte le loro gioie, e i loro desideri, tutte le speranze inespresse e irrealizzate che la scuola vede trascorrere e passare e che la gioventù reca sempre con sé da sempre.
Oggi, dopo tanti anni, ho però l'impressione che di quel tipo di scuola resti solo un alone un po' stereotipato e impallidito. Forse perché tutto quello che abbiamo fatto sarebbe ora difficile a concepirsi oltre che a farsi: oggi ci sono infatti mille regole, norme di ogni tipo, una burocrazia imbarazzante, una lista di sigle e acronimi in perenne divenire cui è difficile star dietro e in tutto questo pare che le cose fondamentali, e cioè l'amore per le proprie discipline e il desiderio di farle amare, siano divenute invece le meno importanti, sostituite da regole che imbrigliano l'insegnamento, della cui utilità non si è convinti, che spesso si considerano controproducenti ma che si devono applicare contro le proprie convinzioni e il senso di tutta la propria esperienza.
Eppure la scuola va avanti, pur tra mille difficoltà e soprattutto mille ipocrisie. Nonostante che sia sempre più nelle mani di quello che, una ventina di anni, venne lucidamente definito dai curatori di un bel libro (Buone notizie dalla scuola) il "ceto buro-pedagogico", va avanti, perché ha infinite risorse e opera in una fase decisiva dell'esistenza, perché sa rigenerarsi e rinascere dalle proprie ceneri e dalle proprie sconfitte, come sempre sa fare la vita quando è presa per mano da qualcuno che sappia trasmetterle l'amore per l'arte e la conoscenza.