Letteratura, scuola e democrazia

 

 

   In un racconto di Jorge Luis Borges, Il Sud, il protagonista sta leggendo un libro in un locale quando viene sfidato a duello da due individui che sono infastiditi proprio dal fatto che sta leggendo. Nella sua prefazione a La città assente, un romanzo di Riccardo Piglia - che fino a pochi anni fa è stato uno degli scrittori e critici letterari più influenti in Argentina - Tommaso Pincio racconta che una sera, verso mezzanotte, mentre da Trastevere si stava dirigendo verso il rione Regola leggendo un libro, fu affrontato e preso a male parole da un gruppo di giovani che erano infastiditi, anche in questo caso, dal fatto che stesse leggendo. Quando riuscì, con una discreta dose di sangue freddo, ad attraversare incolume il gruppo cha lo aveva per qualche istante circondato sentì che dietro ancora gridavano: “legge ancora, lo scemo. T’ammazziamo di botte, ti pestiamo a sangue”.

 

   La città assente è un libro in cui i protagonisti entrano ed escono dalla trama e che mentre incontrano amici o sconosciuti attraversano porte che li conducono in altre trame e in altre storie, come chi odia i libri, o è loro indifferente, non potrà mai fare altrettanto bene. La concezione narrativa su cui si fonda il romanzo di Piglia deriva in parte dall’opera di Macedonio Fernández, ma esso trae qualche ispirazione anche da Notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino e da Tlön, Uqbar, Orbis Tertius di Borges. “Mi piaceva l’idea – scrive Piglia nella postfazione alla sua opera – di una trama che è come una strada: apri una porta e all’improvviso la tua vita è completamente diversa. È da qui, forse, che è nata la mia decisione di usare la città come metafora dello spazio del romanzo”.

 

   Sempre nella stessa postfazione, Piglia spiega come la letteratura sia in grado d’interrompere il flusso della lingua, di alterarne le consuetudini espressive e i riferimenti valorali in essa impliciti ed è dunque perfettamente normale che possa essere avvertita come un pericolo. Su questo tema, del resto la stessa letteratura si è intrattenuta più volte, anche con delle opere che sono divenute dei classici, come ad esempio Fahrenheit 451, in cui Ray Bradbury descrive una società in cui leggere o possedere libri è considerato un reato grave.

 

 

   In effetti, come si è visto, leggere in pubblico può rivelarsi per alcuni perfino un’offesa, perché può essere avvertito come una minaccia a un insieme di valori e stili di vita che con la lettura sono praticamente incompatibili. Sempre meglio, comunque, dell’indifferenza sempre più diffusa in cui la lettura è progressivamente scivolata nel nostro paese, dato che in essa la maggioranza degli italiani non ravvisa alcun pericolo, dimostrando così di non percepire la contraddizione, che può invece essere percepita anche da un gruppo di balordi per strada, tra il leggere e la propria vita.

 

   Questa diffidenza, o indifferenza, per i libri caratterizza a tal punto la società italiana che, stando a quanto ci dice l’Istat, solo il 41% legge almeno un libro all’anno. Si tratta a ben vedere dello scenario ideale per l’insorgere di qualche forma più o meno originale di totalitarismo. La lettura, e in particolare quella di romanzi, ovvero la letteratura, costituiscono infatti un esercizio fondamentale per imparare ad adottare punti di vista diversi dal proprio abituale, a sintonizzarsi con altre prospettive e stati d’animo, con disposizioni che ci sono normalmente estranee e che stentiamo a comprendere. Sono, in altri termini, un apprendistato di democrazia, tant’è che potremmo misurare il livello di totalitarismo presente in una data società dalla quantità e varietà di libri che questa censura, proibisce o addirittura distrugge. Quando quest’esercizio viene meno, quando una maggioranza della popolazione rinuncia a sviluppare quella disposizione dialogica e comunicativa che sta alla base della vita democratica navigando tra i personaggi di un romanzo o di un racconto si gettano le basi per l’implosione di qualsiasi forma di civiltà degna di questo nome, ovvero una civiltà che non sia incapace d’interrogarsi e di comprendere cosa muove o determina le scelte e i comportamenti degli individui e delle masse che la popolano.

 

   La scuola, che potrebbe opporsi a quest’incombente scenario, non lo fa in maniera efficace, nonostante che siano molti i docenti che combattono da sempre e anche con buoni risultati per impedire almeno un più celere deterioramento della situazione e nonostante che autorevoli rappresentanti degli stessi docenti abbiano scritto libri illuminanti a riguardo. Basterebbe ricordare quelli di Daniel Pennac, di Paola Mastrocola, di Claudio Giunta (gli ultimi due potrebbero essere Ministri della Pubblica Istruzione finalmente all’altezza della situazione dopo decenni), o alcune opere di un filosofo e psicoanalista come Umberto Galimberti, che sulla scuola ha fornito spesso franchi e preziosi contributi, per capire che la direzione intrapresa ormai da anni, sotto la guida di un tristo e politicamente trasversale “ceto buro-pedagogico”, va in una direzione opposta a quella da loro auspicata; va cioè verso un tipo di formazione sempre più rigidamente vincolata da regole sterili, complicate e artificiose che in teoria dovrebbero garantire fantomatiche valutazioni oggettive, ma che in realtà non valorizzano né la lettura né il lavoro di coloro che cercano ostinatamente di restituirle il ruolo cruciale che le compete all’interno di ogni processo formativo.