I silenzi musicali della legge

 

   Un giurista dotato di raro spessore filosofico, Vincenzo Vitale, ma anche lo scrittore italiano che forse meglio di altri ha raccolto l'eredità letteraria di Leonardo Sciascia, riflette sul rapporto tra il silenzio, la musica, la mistica e il pensiero giuridico, suggerendo prospettive e accostamenti che possono facilmente risultare illuminanti e preziosi per un lettore attento, incline a restare in ascolto della brezza del silenzio. I rapporti tra questi ambiti apparentemente tanto distanti, quali emergono da L'esperienza giuridica del silenzio (Mimesis, 2018) sembrano infatti preordinati proprio da un Dio che "dimora e si rende percepibile nel silenzio di una brezza leggera, mai nel fragore del mondo o nel trambusto delle cose degli uomini".

   Forse nessuno meglio di Ignacio Larranaga "ha saputo esprimere questa intima solidarietà fra il silenzio e Dio, affermando che 'Silenzio è il nuovo nome di Dio… Dio è silenzio da sempre e per sempre. Opera silenziosamente nella profondità delle anime'". Ma non è il solo: tra quelli non menzionati da Vitale potremmo citare anche Joë Bousquet, per il quale "c'è un solo Dio", ed "è il silenzio di Dio"; o Jean Paul Sartre, per il quale "Dio è il Silenzio, Dio è l'Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini"; così come potremmo ricordare molti pensatori, dal medioevo fino a Simone Weil, che hanno fatto di questa relazione un motivo ispiratore della loro mistica.

  Certo, il silenzio può essere declinato in molti modi. Per  Miguel de Molinos ce ne sono tre: il primo, perfetto, fatto di parole; il secondo, ancor più perfetto, di desideri e il terzo, perfettissimo, di pensieri; e se al primo si giunge attraverso la virtù, al secondo si può arrivare attraverso la quiete, e al terzo mediante il raccoglimento interiore, è solo "non parlando, non desiderando e non pensando" che si può arrivare "al vero e perfetto silenzio mistico, nel quale Dio parla con l’anima, si comunica e le insegna nel suo più intimo fondo la più perfetta e alta sapienza”.

    Il silenzio mistico sembra dunque coincidere per Miguel de Molinos con un perfetto silenzio interiore e a una conclusione simile sembra giungere anche il poeta e monaco buddista Thich Nhat Hanh, il quale aggiunge a questa tesi, come corollario non marginale, che “il silenzio interiore non richiede il silenzio esterno”.  E non lo richiede perché non teme il rumore di fondo della vita, il suo incessante brusio. Ma quando questo rumore di fondo si trasforma in un chiacchiericcio capace di creare una sorta di dipendenza, d'intaccare o deformare l'originaria solidarietà del silenzio con la verità, allora può diventare una seria minaccia per quanto vi sia ancora in noi di umano.

   Si può dunque ben comprendere che Rainer Maria Rilke fosse "angosciato all'idea che la violenza del reale potesse assalirlo con troppa irruenza e distruggere la coppa di silenzio risonante come cristallo che teneva devotamente tra le mani", perché sebbene non possa mai essere totalmente contraddetto o soppresso da nulla, dato che non ha contrario, sebbene esso non possa essere annullato, tuttavia il silenzio "può essere vulnerato, violato, ignorato, anche in forza della mancanza, nella nostra epoca, di ciò che sapidamente Valèry chiamava 'il pudore auditivo'". Questa mancanza, le cui conseguenze si stanno oggi rivelando sempre più devastanti sull'anima individuale e sullo spirito collettivo, sembra evocare una disperazione del silenzio, in certi momenti persino l'urlo sordo del suo oblio.

     Tuttavia, anche quando l'esperienza del silenzio viene ferita e sommersa dal cattivo gusto, dal frastuono di pseudo-musiche e della chiacchiera quotidiana, da ciò che Martin Heidegger definiva Gerede - ovvero da "quel parlare a vanvera, privo di pensiero, quel molto ed inutilmente discorrere 'che vela l'oggetto della comprensione, portandolo in quella chiarezza apparente, che è la inintelligibilità del triviale' " - la parola poetica può tornare a far percepire quell'esperienza distintamente. Nell'alone di silenzio che la circonda la parola poetica può sempre risultare sonora e viva, perché il silenzio non oppone resistenza, perché non ha un contrario nemmeno nella chiacchiera, e sa permanere sul fondo di ogni frastuono come una possibilità immota, come una quiete celeste in cui ogni colore e ogni suono si ravviva. Emblematico "è il caso dell'infinito di Leopardi, dove ogni verso, ogni parola, ogni sillaba alludono al silenzio, al silenzio interiore prima che a quello esteriore, all'intero universo che tace in uno stato di sospensione epocale e metafisica", naufragando in una sorta di "sinfonia del silenzio".

    Non a caso proprio del silenzio la musica ci mostra la necessità, l'insostituibilità ontologica, quell'irriducibile permanenza dietro e oltre ogni suono che la rende possibile come esperienza estetica. Ma se la musica, "vive con il silenzio, per il silenzio, nel silenzio, [...] ogni autentico interprete musicale deve rifuggire dalla tentazione di immaginare di poter cogliere il senso musicale di quella determinata composizione, attraverso un lavoro, per quanto attento e tecnicamente perfetto, di giustapposizione delle note che la costituiscono". Il percorso da seguire secondo Vitale è "esattamente l’inverso: non ascendente, dalle parti al senso, ma discendente, dal senso alle parti. Insomma, l’interprete, allo scopo di determinare con esattezza il significato di ogni nota, deve prendere le mosse dal senso complessivo della composizione che ad essa preesiste, così definendola nel suo preciso perimetro concettuale: sta propriamente qui la grandezza dell’interprete, la prova della sua irripetibile unicità".

   Una relazione analoga la si può individuare nel campo della giurisprudenza tra norme e disposizioni, tra spirito della legge e lettera della legge: "ad essere positivamente poste sono le disposizioni, vale a dire i testi scritti, ma non le norme che da quei testi possono trarsi in via d'interpretazione". Le norme sono nascoste dietro le disposizioni, "ma tacciono, in attesa che qualcuno dia loro voce. E dar voce sarà possibile appunto attraverso il lavoro delle disposizioni messo in opera dai giuristi". Questi "sono soliti ricercare, per decidere in modo giusto, quello che tradizionalmente si indica come ratio legis o spirito della legge, in contrapposizione alla portata meramente lessicale del testo che la esprime: littera occidit, spiritus vivificat, secondo il noto insegnamento di S. Paolo".

   Quando per esempio si scrive su un cartello che in un teatro è vietato l'ingresso agli animali, non si specifica che un tale divieto non include i germi che si trovano nei virtuali spettatori afflitti da mal di gola, perché non sono loro a poter eventualmente disturbare la rappresentazione, ed è precisamente questo che lo spirito, o la ratio, di quel divieto intende tutelare. Proprio il silenzio sui quei germi, quindi, sottintende e rivela quella ratio.

   Altri due esempi particolarmente eloquenti proposti da Vitale circa la funzione eminente del silenzio nell'esperienza giuridica sono "il diritto di tacere, "che va garantito ad ogni accusato e rappresenta un autentico spartiacque fra lo Stato di diritto, tutore della libertà individuale, e Stato totalitario, ove invece il diritto di tacere dell'accusato è sconosciuto ed anzi viene considerato un ulteriore illecito"; e ciò che accade nella fase finale di ogni processo quando, "dopo che il difensore, che parla per ultimo, ha completato la sua arringa, il giudice si ritira, per decidere, in camera di consiglio, e si ritira in silenzio e nel silenzio più assoluto", perché ex silentio oritur jus.

   Anche alla luce di questi esempi si può forse comprendere meglio perché Vitale giunga alla conclusione che "il diritto è letteralmente immerso in un oceano di silenzio, nel quale vive e dal quale bisogna prendere le mosse per dar vita all’esperienza giuridica". Lo spirito della legge, in quanto logos, è "per definizione silente, immerso in una costellazione metafisica dalla quale il giurista deve far emergere una e una sola norma sensata per disciplinare il caso concreto. Allo stesso modo dell'interprete musicale, il giurista deve allora discendere dalla domanda alla risposta, vale a dire dalla percezione del senso alla singola norma, e non viceversa".

   Come nell'interpretazione di un brano musicale ogni singola frase dovrebbe essere interpretata alla luce di un senso complessivo, nello stesso modo e per analoghe ragioni la lettera della disposizione dovrebbe essere interpretata alla luce dello spirito della legge, che è evocato proprio dal silenzio che circonda la norma, da quanto essa non dice e tuttavia sottintende. Proprio questo silenzio che avvolge la norma può infatti far brillare la parola, dotarla del suo alone d'implicazioni, circoscriverne le accezioni di volta in volta pertinenti. Esegeta del silenzio della norma, il giurista viene dunque chiamato a interpretare ogni volta la legge come un direttore un brano musicale, quando un istante più lungo o più breve di silenzio può fare la differenza e risultare decisivo.

 

 

 

 

 

Vincenzo Vitale, L'esperienza giuridica del silenzio, Mimesis, 2018.