L'arte difficile di non sopravvivere

 


   Nel corso della sua vita movimentata Ernest Hemingway subì un numero impressionante d’incidenti e si fracassò molte volte la testa. Dalla bella biografia che Fernanda Pivano ha scritto su di lui veniamo a sapere tra l’altro che l’ultimo incidente lo ebbe quando, quasi sessantenne, tentò di fare un volteggio sopra uno steccato per imitare un amico. Quella volta non si ruppe la testa, ma si lussò il tendine di un calcagno.
  

Anche da un semplice aneddoto come questo si possono intravedere la generosità e la tenacia che contraddistinsero la vita dello scrittore, permettendogli di cogliere e sperimentare quei momenti dell’ esistenza che, in bilico tra angoscia e disincanto, si prestavano ad essere raccontati in una prosa secca ed essenziale.
   In lui si alimentarono reciprocamente temerarietà e gusto per la confabulazione, la fiducia nell’amore e la rassegnazione al disamore, il desiderio degli amici e la passione della solitudine. Già da bambino si divertiva ad inventare storie esagerando e infarcendo di balle fatti che gli errano accaduti, e da vecchio continuò a fare in modo che potesse capitargli qualcosa che valesse la pena di essere raccontato. Servendosi di una “lingua franca” di sua invenzione (uno strano miscuglio di parole inglesi, tedesche, spagnole e francesi), comunicava con le persone più disparate, e con quella lingua poté raccogliere storie che poi s’incaricò di completare fondendole insieme e depurandole dell’inessenziale.
   Riproporre per Hemingway il dilemma della priorità della vita sull’arte o dell’arte sulla vita sarebbe quindi, una volta di più, un problema mal posto. Vita e letteratura furono nel suo caso le prime e le ultime bozze della stessa opera. Viveva nell’unico modo che potesse desiderare di ricostruire o inventare e inventava solo quanto mancava per tenere insieme ciò che aveva vissuto. Raccontava innocue balle con disinvoltura e con lo stesso candore riempiva le proprie pagine di errori di ortografia, anche volontari, sostenendo che tanto si poteva. pagare qualcuno per correggerli. S’irritava ogniqualvolta venivano intaccati i presupposti etici od estetici del suo personaggio e a volte lo faceva con un puntiglio capriccioso e crudele. In un’occasione ne fece le spese la stessa Pivano, che per altro fu sempre considerata da lui un’amica sincera e leale, oltre che una fidata traduttrice dei suoi libri. L’autrice racconta che aveva usato, parlando di lui in una conferenza, la parola “metafisica”, e che per questo Hemingway le riversò addosso per molto tempo “il suo risentimento con sarcasmi di ogni genere”. Se sapeva giocare con le sue manie, non sapeva però giocare con i suoi principi o le sue debolezze, che spesso si spalleggiavano a vicenda. Era di norma leale e generoso, ma fu anche irriconoscen te verso persone cui doveva molto (come ad esempio Sherwood Anderson) provandone poi rimorso per tutta la vita.
   Narrando insieme alla vita di Herningway la storia della loro amicizia, seguendo liberamente le associazioni dei suoi ricordi la Pivano è a volte maliziosa e a volte indulgente. Il suo affetto e la sua stima per lo scrittore paiono avvolgere e saturare il fascino che lascia intravedere di aver subito. In molti punti racconta come dal vivo, a volte evade dalla vicenda con digressioni psicologiche sottili e caute, altre volte incalza con i fatti come se fosse lei stessa coinvolta o divertita dalla loro rocambolesca successione.
   Dal suo modo di raccontare traspare qualcosa dello stile conciso e pervasivo di Heminway, ma questo viene come affrettato, quasi per una sorta di rispetto o di pudore. A lettura ultimata del libro della Pivano, la famosa “semplicità” della prosa di Hemingway pare scaturire anche dall’esistenza provocatoria e rivolta all’essenziale condotta dal suo personaggio, come per esigenza drammaturgica d’attrito, e la vita e l’opera dello scrittore sembrano incastonate in un progetto che le trascende. Il progetto di mantenere sempre nel punto di maggior equilibrio e conflitto la vita e la morte, l’illusione e la disillusione, senza permettere a nessun costo una loro riconciliazione incosciente in una maturità grave e sterile, priva di speranza e di disperazione.


Fernanda Pivano: Hemingway, Rusconi editore, pp. 229.