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Con Beckett nei teatrini del cuore
Cosa ci fa Samuel Beckett nei teatrini del signor Egli, nei luoghi della sua infanzia, accovacciato tra le betulle della dacia russa dove Egli ha soggiornato nell’età matura? Si potrebbe dire che lo aspetti, in silenzio, senza aspettarsi da parte sua niente, nemmeno un’ombra di senso oltre quello puro del viaggio, di una ridda di luoghi incastonati nella memoria come ninnoli o gioielli.
Se questi frammenti accesi sembrano emergere grazie a uno slancio evocativo, quasi prede di un loro volersi rivivere e conservare, i versi più amati ne costituiscono il contrappunto essenziale e cristallino, venendo a sostenere lui, Egli, quali fedeli maestri, nei frangenti in cui sembrano difettare o affievolirsi “i calchi di parole, le tracce” stesse del proprio passaggio. Nella sua variegata teoria di evocazioni discrete, coltivate quasi col pudore di chi si trova ormai oltre, in un tempo levigato e più mite, il signor Egli indugia con passi cauti e un po’ felini nell’alcova dei momenti più significativi della sua esistenza senza enfatizzarne mai le emozioni, nemmeno quando queste sembrano assumere un valore quasi iniziatico. Beckett rimane sempre sullo sfondo, col suo niente da dire, ad aspettarlo al varco, talvolta insieme a Hölderlin (forse pensando con lui che “non è bene rimanere esanimi / di pensieri mortali - / bene, invece, / dire il senso del cuore, / affidarsi al colloquio, rievocare / i giorni dell’amore, / gli avvenimenti”); altre volte insieme a Murasaki, o a Li po (con il quale sembra condividere l’idea che “Se l’immortale attende una gru gialla / per spiccare il suo volo, / l’uomo dal cuore libero / i gabbiani lo seguono” ), o a Monsieur Hulot, o alla formazione euritmica del grande Torino (Bagigalupo, Ballarin, Maroso…) e a qualche parolina, come “Sfrumbla”, che faceva ridere una volta e che ora ha il sapore di una ventata fresca all’imbrunire. Gli amici più cari gli fanno corona, complici testimoni di un destino lievemente errabondo e solitario, ospiti anche loro discreti dei luoghi rivisitati, dei profumi che si sprigionano ancora dagli stessi scenari.
Il signor Egli, in fondo, sebbene abbia molto viaggiato, sembra non essersi mai mosso da dove è sempre stato: dall’angolo dello stesso teatro in cui il suo niente da dire poteva restituirgli intatti, quasi per l’inerzia di un fato, gli aromi e gli aloni di una vita. Preso all’interno della sua incalzante nostalgia, a sua insaputa ne ripercorre la trama, che poi assomiglia alla trina sottile di un ricamo involontario. Così, se in neretto Egli lascia parlare gli eventi che da soli si fanno strada quasi a forza nella memoria, nel contrappunto più chiaro del corsivo ne riporta il gesto ammiccante in uno stile più classico.
“Il poco che c’era da dire era niente”, e questo niente, come il presagio di un sogno senza scioglimento finale lo riporta nel medesimo luogo in cui le parole attendono di poter ritornare al loro inchiostro, alla traccia misteriosa e incantata che, fin da prima d’essere scoperte, quando di Pim non gli balenava ancora la più pallida idea, avevano già impresso sulla carta bianca della sua vita.
Con l’occasione, dunque, Alberto Guareschi - dirigente d’azienda, ex editore e traduttore, tra gli altri, di Hermann Hesse, Tony Duvert, Georges Bataille e Sarah Kirsch, nonché del Tesoretto dell’amico di casa renano di J. P. Hebel - affronta, come recita il retro di copertina, “la poesia in prima persona”, che sarebbe poi una persona terza, sospesa tra lui stesso e un nuovo personaggio di Beckett, forse il più nostalgico, certo il più attento ai diversi luoghi simbolici in cui l’anima può amare raccogliersi nel corso del suo celeste e purpureo viaggio terreno.
Alberto Guareschi
I teatrini del signor Egli.
Edizioni Diabasis.