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Uno scrittore-editore nella città dei Montanelli
Il paese che dette i natali a Indro Montanelli, e che ancora prima li aveva dati a un altro illustre Montanelli, quel Giuseppe che era stato uno dei triumviri nella Repubblica Fiorentina, è una cittadina che si trova nella valle dell’Arno, in una posizione quasi equidistante tra Firenze, Pisa e Lucca. La sua dimensione è in effetti ancora incerta tra quella della città e quella di un paese, per la distanza breve tra il borgo antico e la campagna, che pare quasi di poter toccare dalle sue strade, piazze e stradine.
Fucecchio, di cui si parla, è in effetti una cittadina, ma dotata, oltre che di un bel centro storico (ancorché da troppo tempo poco valorizzato) e di una bella campagna intorno, anche di una rimarchevole vita culturale, più intensa e viva anche di quella reperibile in città più grandi. Di Fucecchio v’è una parte alta e una parte bassa e Indro Montanelli non si lasciò sfuggire l’occasione di descrivere le battaglie tra insuesi (gli abitanti della parte alta) e ingiuesi (gli abitanti dei quella bassa). Oggi questi scontri a colpi di uova non ci sono più, ma c’è il palio, ci sono le cene delle contrade, goliardiche e propiziatrici di vittorie, la sfilata della mattina con i costumi medievali e poi, nel pomeriggio, la disfida finale nella “buca”, ovvero il circuito di sabbia subito fuori città, dove il palio si tiene ogni anno.
Scendendo da via di Castruccio (Castracani) e dall’ospedale, nella parte alta, s’incontra la “Fondazione Montanelli”, con i due studi del grande giornalista italiano, quello di Roma e quello di Milano, perfettamente ricostruiti, e con tutte le sue opere disponibili per la consultazione. La fondazione è molto attiva e organizza ogni anno varie conferenze e un premio giornalistico tra i più importanti d’Italia. Scendendo ancora si arriva a piazza Vittorio Emanuele, antistante la Collegiata, che è la chiesa più importante e si affaccia in parte sulla scalinata che dà sulla piazza e in parte sul poggio Salamartano.
Tra Piazza Vittorio Veneto, la Fondazione Montanelli e il Poggio Salamartano c’è piazza Garibaldi dove, nello stesso palazzo in cui mori Giuseppe Montanelli e nacque Indro, hanno la loro sede le Edizioni dell’Erba, una casa editrice che è anche un luogo d’incontro, di tranquille conversazioni e talora di accese discussioni tra amici letterati, alcuni di vecchia data. Vi si respira un po’ l’aria che forse si poteva respirare nelle redazioni di certe riviste toscane della prima metà del Novecento. L’editore, Aldemaro Toni, è infatti anche direttore della rivista Erba d’Arno, che è l’anima della casa editrice.
Aldemaro Toni è però, oltre che un bravo editore, resistente alle temperie delle più effimere mode culturali, anche uno scrittore. Lo stile abituale dei suoi molti romanzi e racconti, il suo modo di narrare, hanno un sapore di altri tempi, ma sono contrassegnati anche da un certo minimalismo di fondo, rivelatore di uno spirito contemplativo per la sua spontanea propensione ad annotare le impressioni di ogni giorno, per la capacità di penetrare con leggerezza e discrezione nelle pieghe della vita quotidiana, nello stato d’animo di persone appena intraviste durante qualche passeggiata, di conoscenti con cui ci si ferma a conversare, di animali e persino di oggetti consueti che ci si abitua a incontrare quasi fossero anche loro personaggi di qualche storia meritevole di essere narrata.
Il suo ultimo libro, Buyers, Racconti III, è una raccolta - per la precisione la terza, dopo Al Sara Hotel (2018) e Calma d’amore (2022) - dei suoi numerosi racconti, e vi si respirano, specie in alcune parti, certe atmosfere tipiche delle cittadine che sembrano includere la campagna nelle loro strade e persino nei loro vicoli, nei loro scorci sulle colline e nell’andamento lento, a volte quasi compassato del tempo, e che si riflette nel tempo della narrazione.
Qualche esempio, qui di seguito, può suggerire questa simbiosi tra città campagna, tra tempo della vita quotidiana e della narrazione: “un conoscente mi sorpassa. Io sono alle prese col telefonino. Ridacchia proseguendo. Ha anche lui ora le scarpette, prima veniva con la bici. Si allontana: è quasi al pino grande, che è un mio punto di riferimento. È bello stabilire, a nostro arbitrio segnali e prendere con le cose confidenza. Un filare di viti una meta, un amico è perfino il cassonetto.”
Un’altra volta il narratore incontra due coniugi di una certa età che lo salutano: “la moglie, rimasta un po’ indietro, incrociandomi mi ha domandato: ‘oggi non c’è la signora’?! Avevo cappellino e occhiali, il bavero tirato su, mi ha preso per un’altra persona. Ma io lo stesso ho detto ‘eh sì…’, entrando per un attimo, senza volerlo, in una parte: come a vivere, per quattro o cinque passi, una vita che non era la mia”.
Dove la campagna s’insinua nella città, dove sembra avvolgere con le sue colline l’antico borgo, può capitare sovente di sentirsi fra i viventi una specie… “perché? Perché ci sono le piante, perché ci sono – anche loro padroni di quella terra gli animali… i gatti che talvolta attraversano o che, prima guardandoti, fuggono avvertendoti come un estraneo. E le nubi che vanno e vengono, e anche loro che sembrano venute lì per un po’ ad abitare. E gli insetti che sono, inutile dirlo, migliaia e migliaia”.
Anche la pioggia ha da queste parti un alone diverso, perché sembra accompagnare in modo più naturale le giornate, ogni singolo passo durante le consuete passeggiate, gli sguardi che viaggiano intorno, un certo stupore che persiste sulle soglie delle case, dove si affacciano frammenti di vita domestica scanditi dai riflessi del tempo.
Quando piove, “un punto importante è dove si lascia l’asfalto. Le scarpe suonano diverse nel pietrisco ed è una cadenza piacevole quel rumore. Se è piovuto da poco, in questa parte ci sono i bozzi, ed è un impegno (anche quello piacevole e parallelo) doverli scansare. Sono torbe le loro acque: più chiare in certi solchi dei campi vicini; le fosse spesso solo ‘s’indovinano’, perché ricoperte dall’erbe”.
C’è un racconto di Manara Valgimigli in cui ci si sofferma a descrivere un piacere analogo, quello di sentirsi la strada sotto i piedi, e in effetti i piaceri e i dolori che emergono dalle pagine narrative di Aldemaro Toni fanno tutti capolino da un quotidiano trasognato, dall’immersione in un tempo ricorsivo che non sembra destinato a dover finire, ma semmai solo ad estinguersi a poco a poco, come la luce di una candela o di un vecchio lampione al mattino, come i suoi riflessi accesi sul selciato, in modo quasi indolore.
Ma sull’asfalto umido della strada, di giorno, si replicano anche gli alberi, con la loro ombra trinata da attraversare: “dov’era un guado nel fiumiciattolo, ora è un laghetto. Dalla collina continua l’acqua in piccoli rivi a dare apporti. Dal piccolo dilagamento, spuntano canne, per ora secche: le nuove verranno chissà quando. C’è come una parte sorda ad un ‘vitale invito’, un dirci che tutto (o meglio, ciascuna cosa) ha il suo momento”.
Poi, verso sera, ogni cosa si allontana, trova la sua giusta posizione nel tempo e nello spazio, si fa ricordo che dilegua lanciando un saluto, come quando le nuvole sembrano formare un tappo nel cielo e all’orizzonte rimane solo una strisciolina, “rossastra o più chiara. Il verde scuro è ancora più scuro, i campi col grano nuovo hanno perso il loro più intimo giallo. È rugginosa una catena fra due pali. Una rimessa di bandone ha perso un suo spiovente. C’è anche freddino nell’aria. E un cane inquieto abbaia.”
Dopo le sue passeggiate, durante le quali il narratore è andato in giro “col taccuino come a fare quadretti, a fermare sensazioni”, la sera si raccoglie dunque nel suo studio a leggere e di nuovo a distrattamente pensare, registrando anche qui ogni più piccola variazione nell’incedere dei giorni, come per esempio l’aver acceso assai prima un lume, o il fuoco del camino, o l’ascoltare il gocciolare degli alberi fuori dalla finestra, ma anche da quella sua postazione da gatto gli può ancora capitare di soffermarsi ad osservare “l’erba cambiata un po’ di colore”, i profili sfumati delle colline e il grigio del cielo, quando non ci sono animali intorno e non si sentono rumori, “eccetto il ticchettio sulle lamiere”.
Se non si trattasse di prose esemplari per la loro semplicità e per il loro quieto nitore, se certe sensazioni fossero state messe in versi, le si sarebbe forse potute scambiare per una poesia cinese dell’epoca Tang, o anche di una successiva, come questa che segue, ricavata e per un attimo presa in prestito da un frammento di quelle prose:
C’è una striscia di giallo
lungo un argine laggiù,
quel colore non si vela
con la pioggia.
Su in alto, più lontano,
si confondono le pezzature.
Sembra un po’ stanca la terra.
Aldemaro Toni, Buyers, Racconti III, edizioni dell’erba 2024.