La polvere di un senso, tra spilli di parole

   Damema Papini y von Marcard è una pittrice nativa di Ibiza, ma da molti anni residente in Toscana. I suoi dipinti sembrano riprendere un discorso rimasto in sospeso agli inizi del Novecento. In particolare, vi si possono riconoscere distintamente echi di Matisse, i suoi colori e il suo gusto per la narrazione di storie con poche figure capitate quasi per caso nel destino dello stesso quadro, tutte più o meno trasognate e luminose.  

    In virtù di un destino non meno ricco di colori e di luce la pittrice è anche scrittrice, autrice ad oggi di un romanzo (La mia isola e di Tito, 2008) e di due volumi di poesie. Tenere tenebre è la sua ultima silloge pubblicata (la prima, La stanza dei cigni, è uscita nel 2023) ed è attraversata dalla storia di un dolore avvolgente, trattato senz’ombra di retorica, e dagli screzi con la vita di ogni giorno, nella casa di campagna di ogni giorno, con le figlie da accompagnare, con la maggiore che scrive da remoti lidi, con una cucciola che soggiorna talora fradicia ai piedi di un divano e un piccolo principe con cui filosofare insieme guardando le stelle.

    Quando ci si accinge a scrivere di versi che sembrano sgorgare direttamente dalle selve e dalle rocce più nascoste dell’anima si prova un po’ sempre quella sensazione che può colpirci quando, con degli stivali infangati, si è in procinto di attraversare le chiare acque di un torrente: il timore di sciupare una trasparenza così tagliente può indurci ad esitare a compiere il passo, a mescolarvi qualsiasi parola nuova. D’altra parte, non si può non nascondere quasi un opposto e analogo desiderio di farlo, nel vago presagio che ciò consentirà di riconoscerla e apprezzarla ancora meglio.

    Ciò che accade quando ci si propone di descrivere i versi di Damema Papini y on Marcard è qualcosa di simile, con l’aggravante che, in questo caso, un certo pudore consiglierebbe di non spingersi tra le raffiche del dolore che li traspare: la sua acuta spina potrebbe infatti indurre a sporgersi sull’orlo di un abisso in cui sarebbe indiscreto scivolare. In virtù di una sua inesorabile inclinazione, quell’abisso tende però, proseguendo nella lettura, a trasfigurarsi in un lento fiume, fino a formare anse in cui nidificano inquieti uccelli migratori, in un alveo scavato “coi passi dei pensieri”, che sanno evocare altri passi, come quelli rapidi e silenziosi di cagne inquiete, portatrici di tenebre.

 “Sono tornate vestite di pomeriggio / nero su lucidi uccelli all’attacco / le Tenebre. Occupano in silenzio / i rami della mente – piegano il tempo. / Nessuno si accorge se non un merlo, / che spicca il volo verso oriente”.

    Con questo dolore, che un sole nero e saturnino ha inteso sedimentare nell’anima della persona amata e che non si sa perché proprio lì abbia inteso prendere dimora, si cimenta talora la parola, l’ostinata sua resistenza vana, risuonando come un’eco remota, la voce sterile d’una sirena che non può più richiamare nessuno col suo canto, o come quella di Orfeo, interdetta e ammutolita, divenuta ormai anch’essa il riflesso di un cristallo di ghiaccio.

    In effetti, il “sole nero” cui fa riferimento Julia Kristeva in un suo famoso saggio è caratterizzato da un proprio stile comunicativo. Con la melanconia tende infatti a scomparire la capacità di elaborare metafore, i silenzi si fanno a poco a poco più lunghi e le intonazioni più monotone, cosa che precipita il soggetto in ancor più angoscianti solitudini. Alla fine, sottolinea la Kristeva, “ogni traducibilità diventa impossibile. Per un certo periodo si assiste al manifestarsi di “nuovi linguaggi, lagnati, strani, idioletti, poetiche”; poi “la melanconia approda all’asimbolia, alla perdita di senso”. Le parole sembrano allora diventare solo un eco delle cose non dette, una rete di suoni vuoti che omettono di svolgere qualsiasi reale funzione simbolica.

    L’autrice si sofferma su questo momento in cui la crisalide di un senso sembra disfarsi con versi incisivi e implacabili: “È sceso il freddo della parola / come spilli nelle pupille / di sconfinata tristezza – origami di ghiaccio / si sono formati nei secchielli / nelle pozzanghere immobili alla poca luce / delle taciute cose tue non dette”. E tuttavia, nell’incombenza di questo dolore, la vita continua, parallela e variopinta di brevi storie quotidiane, anche divertenti e allegre, costellata come ogni altra vita familiare di ansie e rimbrotti. In quest’incombenza, al termine di una giornata può capitare che si accendano fuochi, o che si faccia sobbollire il brodo in una casseruola con la speranza segreta che le fiere che circondano l’amato si spaventino e lui possa finalmente tornare a nutrirsi. L’esortazione muta affinché lui ritrovi la primitiva forza allora potrebbe frangersi in un grido, ma si limita a rassicurare, e con ottimi argomenti: “tu non preoccuparti. Baderò io / ai tuoi mostri. Ne ho la stessa scorza”.

   E la giornata scorre per lei comunque, a volte gremita d’intermezzi in sé poetici, come quando, con il figlio piccolo, le è concesso guardare le stelle e ascoltare le sue perplessità sull’esistenza di Dio, ascoltare con lui “la pausa del mondo / nei suoi limpidi undici anni”. Ma poi, subito dopo, “tornano dalle ombre le cagne / sui crinali della luna / affamate di carezze che lui dispensa / senza aver afferrato alcuna certezza”, e allora l’unica certezza che rimane è un amor fati che non estingue la sua forza: “Io, invece, / non scambierò queste cose / con nessuna”.

    In certi giorni anche il giardino sembra andare in rovina. La rovina pare quasi “ci rappresenti al meglio - / i rovi attorcigliati agli alberi / il balcone pericolante /la ruggine dl lampione di Parigi / le erbe alte in cui abbiamo perduto la motosega”. In fondo si tratta, per chi ci ammanta con un dolore senza voce, d’imparare a morire per assideramento: “una lucina piccina ti apparirà / in fondo. Ma solo se riuscirai a rimanere / vigile. Come un cipresso abitato. Seguila. Io come Orfeo / cercherò di non voltarmi / divorando fermo il passo.

    Una sera che la figlia maggiore telefona da un paese del Nord per sapere come stanno, lei si sente dapprima leggera, sua coetanea, sua amica: “sono tentata di confessarle / che H dal divano ore fermo fissa / lente apatie di atomi nel cerchio del crepuscolo. / Che il suo dolore ci abita ogni ora, ogni muscolo. Che dal fondo della tavola a cena ci ha spiegato / sul piatto intatto coi bambini allegri di fianco / di voler essere cremato / e stanotte si è aggrappato contro l’affranto / mio corpo che dormiva – così fino all’alba / l’ho cullato sul petto trattenendolo da se stesso / in un baltico pianto / che moriva.

    Mio dio, poi mi ricordo che è suo padre. / Che io devo essere sua madre. / Stiamo tutti bene, amor mio”.

    La gola allora può bruciare per il pianto represso e per spengere un fuoco che non arde. Un silenzio attonito sembra poter intenerire le tenebre, mentre in una luce senza tempo si staglia “ancora l’equazione irrisolvibile del dolore”. Irrisolvibile, e dunque per eccellenza filosofica, di una filosofia che attinge direttamente all’esperienza fondamentale, a quel dolore ch’è maestro di ogni conoscenza, come tanto bene ci mostrò Eschilo, e oltre il quale ogni cosa è arcana, come osservava Leopardi ne L’ultimo canto di Saffo.

    Ma anche il dolore può diventare a suo modo “consuetudine al non detto”, trasformarsi in una forza ignara di sé, della propria origine e natura. Per poter interloquire con lui, c’è allora bisogno d’una sorta di leggerezza, di avere come “nella testa un cardellino”, percepire il suo cinguettio tra le pagine di un libro, tra le pieghe del silenzio che preme il cuore.

   Quest’apprendistato duro e lieve, quest’esercizio che distanzia da ogni cosa familiare pur riunendole tutte in unico destino, è come un vedersi vedere, come un vivere a metà: “Io vivo a metà. / È un mio talento. L’altra la osservo / come qualcuno di cui non ricordo il nome / un dejà vu che non afferro”.

    Questa sensazione di vivere a metà può attraversare le giornate: solo qualche volta pare sussultare all’improvviso, come per esempio quando in una notte di pioggia la luce violenta di un fulmine denuda e traspare le foglie sospese nel freddo dei rami, mentre salta la luce. Allora, “nel riflesso desolato del pianeta / covo uova di parole. Mi emoziono / a pensare di salire nello studio pet vederle / creparsi poco a poco per venire alla luce. / Nella penombra della vita mi sembra / i miracoli si vedano meglio”.

    Proprio quando le parole si crepano producono versi: è proprio allora che si liquefanno fuori dal loro oblio quotidiano, dalla loro condizione di disincanto, e tornano risuonare, a saper fissare il loro sguardo pungente sulle cose, trasfigurandole come un alito di vento quando s’insinua nella calma irreale e plumbea di certe giornate, fino a sollevarle in alto, al di sopra della loro soffocante indifferenza: “per portarvi un esempio / sul palmo di mano / mi confronto a tu per tu / con le montagne. / Le fisso negli occhi / che cercano di disintegrarmi / con la loro indifferenza / ma si addolciscono di azzurri / quando ne pettino le pietre sui fianchi”. Poi “sulla cima sto in silenzio / perché nella mia piccola persona / sento compiersi la polvere di un senso. Le nuvole mi oltrepassano la pelle / e tutto giace distanze sulla costa / sulla punta del mio dito / in afferrabile calma di sole”.

    Questa polvere di senso sembra talora addensarsi nelle più miti mattine, quando gli alberi indossano la loro veste più gaia e le stanze sono attraversate da una luce obliqua, quando un nuovo quadro si fa sguardo e sembra poter fermare il tempo; ma poi quello sguardo si dissolve e le parole tornano a emettere il loro suono sordo e vano, lasciando intravedere quel qualcosa di meccanico che si annida tra i loro incastri. Nel viso di chi si ama il silenzio può allora trasfigurarsi in una fissità straniera, che nel cuore di chi gli sta di fronte stilla come una pena antica. Si può così scoprire di saper amare sostenendosi appena a quel che rimane, a una pura iridescenza che ripercorre tutta una vita, e si scopre di aver imparato a farlo in volo, proprio quando le tenebre velavano l’azzurro.

    Si tratta di un modo d’amare che può prodursi solo in chi sa seguire le venature di parole non dette, di una vocazione rigorosa che non fa sconti, di uno stato d’animo distinto e tenace, seppur affine a molti altri, in cui il desiderio di restare dove si è può fondersi con quello di portare in salvo chi si ama in un altrove. Vengono a questo proposito in mente proprio i versi di Fernando Pessoa: “Andiamo via, creatura mia, / Via verso l’Altrove. / Lì ci sono giorni sempre miti / E campi sempre belli. / La luna che splende su chi / Là vaga contento e libero / Ha intessuto la sua luce con le tenebre / Dell’immortalità”.

 

 

 

Damema Papini y on Marcard, Tenere Tenebre, Eretica edizioni, Salerno, 2024.