L'uomo che semina gli alberi

di Davide Losa

Incontro con Yacouba Sawadogo, un contadino africano e la sua lotta contro il deserto

 

Burkina Faso – Sahel – Africa dell’Ovest - gennaio 2012

 

Lascio il villaggio di Koubri, 25 chilometri a sud di Ouagadougou, sul motorino Yamaha blu di Bayiri, un amico burkinabé. Porto con me uno zaino, un sacco a pelo e un articolo della rivista Geo datato 2008. Su quel pezzo di carta lucida vecchio di 4 anni si narra la storia di Yacouba Sawadogo, l’uomo che ferma il deserto.

Finalmente il mio settimo viaggio nel “paese degli uomini integri” porta con se l’occasione di conoscere quest’uomo. 5000 chilometri e decine di anni separano il quotidiano lavoro di questo contadino africano da quello di Elzéard Bouffier e la sua storia, scritta da Giono nel suo “Uomo che piantava gli alberi”: tanto lontani nello spazio e nel tempo eppure tanto vicini nei pensieri e nelle azioni.

La direzione del viaggio è Nord, verso il Sahel, dove la sabbia del Sahara trasportata dall’Harmattan, il vento del deserto, vince la sua quotidiana guerra contro un popolo di contadini e pastori che instancabilmente cercano di resistervi.

Il motorino scivola lento sulla linea retta d’asfalto che porta alla capitale e al suo ordinato caos. Nel labirinto di moto e biciclette, auto e carretti, riusciamo a raggiungere la stazione degli autobus e con puntualità svizzera partiamo.

180 chilometri e 3 ore dopo mettiamo piede a Ouahigouya, grande città del nord del Burkina Faso, base di molte Ong che lavorano contro la desertificazione.

Il pomeriggio trascorre visitando il Groupement Naam, una struttura di appoggio ai contadini africani presente in tutta l’Africa dell’Ovest. Conosciamo le donne che producono saponi e burro di karatè, i ragazzi della falegnameria e dell’officina, gli speakers della radio “Voix des paysans” e che si occupa di accogliere e alloggiare i visitatori.

Ascoltiamo la stanca voce di Bernard Ouadraogo, ottantenne fondatore del Groupement, e quella diplomatica del segretario generale Hamidou parlare dei problemi dei contadini burkinabè, di emigrazione, cooperazione ed accaparramento delle terre, di lotta contro la desertificazione, formazione, politica e orticoltura.

Fuori l'orizzonte sabbioso si tinge di sfumature di rosso, la luna prende il posto del sole e la notte cala rapidamente.

Il freddo del mattino lo scacciamo con un Nescafé bevuto in un chiosco mentre con il proprietario discutiamo di urbanizzazione. Ma la strada per Gourga, villaggio natale di Yacouba Sawadogo, ci chiama e solo una gomma sgonfia del motorino ritarda la nostra risposta. Il giovane meccanico che troviamo sul bordo della strada la ripara rapidamente mentre intorno a noi la città brulica di persone indaffarate.

Ripartiamo mentre ai nostri lati il paesaggio cambia: l'asfalto diventa una pista di terra rossa e le case si trasformano in spogli alberi spinosi.

Le informazioni raccolte lungo la strada ci conducono rapidamente alla casa di Yacouba. Scopriamo dalla voce di una donna che è appena partito nella brousse. Sui muri scrostati della sua abitazione troviamo il suo numero di telefono scritto in grandi cifre arancioni. Accanto i volantini in bianco e nero della presentazione del film sulla sua storia, “l'uomo che ferma il deserto”.

Lo chiamiamo e dopo 5 minuti il rumore di una moto annuncia il suo arrivo. Un uomo anziano con il viso solcato da rughe, gli occhi stretti e la barba bianca ci sorride. Lo salutiamo in morè ( lingua parlata dall'etnia mossì ) e gli chiediamo com'è andata l'annata. Ci risponde che quest'anno non ha coltivato: sapeva che non sarebbe caduta abbastanza pioggia.

Ci sediamo e gli spieghiamo il motivo della nostra visita: conoscerlo e vedere con i nostri occhi il suo lavoro. Ci ringrazia calorosamente e ci invita a visitare la sua foresta. Così seguiamo la sua tunica marrone salire sulla motocicletta e perdersi nella brousse.

Sarà una visita di due ore intramezzata da numerose soste nelle quali ci racconterà con passione il lavoro che ha fatto e sta continuando a fare da 37 anni sui 25 ettari di terreno della sua famiglia.

Quello che si presenta davanti ai miei occhi alla prima sosta mi sorprende: una foresta rompe la monotonia della savana. Yacouba scende dalla moto e ci mostra come ha trasformato i compatto suolo del Sahel in un ecosistema pieno di vita. Mi addentro insieme a lui nell’intreccio di rami e arbusti tra nidi di uccelli e qualche farfalla.

Tutto questo è stato creato con il solo suo lavoro riscoprendo l’antica tecnica della zai, che era andata perduta nel corso della storia. Questa tecnica consiste nello scavare buche nel terreno durante la stagione secca per poi seminarvi all’inizio della stagione delle piogge. Yacouba ha scelto di utilizzare semi di alberi selvatici raccolti da lui stesso, che non hanno bisogno di essere irrigati ma solamente protetti dagli animali.

Prima di ripartire ci mostra desolato i termini ( piccoli blocchi di cemento ) che il comune ha posato per lottizzare il suo terreno e dare parcelle di terra a chi vuole costruire una casa. “vogliono sabotare il mio lavoro” ci dice in tono arrabbiato.

La tappa successiva ci porta ad un pozzo usato per abbeverare gli animali della foresta. Ogni mattina e ogni sera Yacouba pompa per loro l’acqua e getta sul terreno semi di miglio per sfamarli. Li intorno una Ong tedesca ha avviato con la sua collaborazione un progetto di apicoltura.

In questo luogo, all’ombra di un piccolo hangar di paglia, Yacouba ama riposarsi.

Gli chiedo se sono tante le Ong che lavorano con lui. La sua risposta è negativa: “la cooperazione non ama lavorare con le persone intelligenti”, mi dice in tono sarcastico.

Continuiamo fino a raggiungere il primo albero seminato. Gli chiedo cosa lo ha spinto a fare tutto questo. Mi racconta di quando faceva il commerciante e guadagnava parecchi soldi. Poi ha compreso che dio ha messo al mondo l’uomo per aver cura della terra. Da quel giorno ha lasciato il suo lavoro ed ha iniziato a coltivare la foresta mentre tutti gli davano del pazzo. Ora la gente ha cambiato idea e i contadini lo ascoltano e lo rispettano.

Saliamo su una collina mentre il vento anima gli alberi. Vorrebbe aumentare l’estensione della foresta ma non ha mezzi per farlo se non il suo duro lavoro quotidiano.

Ci muoviamo ancora e Yacouba ci mostra i buchi scavati nel terreno nei giorni precedenti. Più in la delle giovani piantine protette da rami secchi spinosi. In quei buchi vi seminerà piante medicinali. Con esse curerà la gente proprio di fronte a dove sorgerà un nuovo grande ospedale, probabile cattedrale nel deserto voluta dal governo. Un'altra sfida per quest’uomo che non conosce il francese, parla morè e scrive solo in arabo.

E poi ancora la sua voce e i suoi occhi mi raccontano di altri progetti: la foresta da recintare per proteggerla, gli animali da allevarvi dentro e poi l’idea di trasformare questo posto in una scuola per tutti coloro che vogliono condividere con lui i suoi sogni e il suo sapere.

Ritorniamo a casa e lo ringraziamo per la visita. Contraccambia i nostri saluti e ci chiede una sola cosa: raccontare la sua storia.

Gli lascio le quattro pagine patinate in cui si parla di lui: a me non servono più ora che l’ho incontrato.

Mentre Bayiri ingrana la marcia del nostro motorino mi volto a guardare indietro. Yacouba, ascia in spalla, risale in moto e torna nella brousse.

Ritorniamo a Ouahigouya e dopo un pranzo veloce prendiamo la strada per Ouagadougou.

Il pullman sobbalza mentre prendo appunti su questo incontro. Il paesaggio al di là del finestrino opaco scorre veloce. In testa mi rimane il pensiero di questo grande uomo che, senza pensare al proprio interesse, lavora ogni giorno, per seminare un pezzo di deserto.

 L'uomo che semina gli alberi è stato pubblicato per la prima volta sul numero di 273 di AAMTerranuova del giugno 2012,  p. 34.