Quando la politica torna a scuola da Gorgia

    Come è noto a chi abbia qualche ricordo di filosofia liceale, il sofista Gorgia, a cui Platone dedica un dialogo, sosteneva che l’essere non fosse. Infatti, se ci fosse l’essere, questo dovrebbe essere o generato o ingenerato. Se fosse generato, dovrebbe essere generato dall’essere o dal non essere, ma poiché il non essere nulla può generare, dovrebbe necessariamente derivare dall’essere, e dato che se fosse generato dall’essere questo non potrebbe che essere generato a sua volta dall’essere, e così all’infinito, ciò significa che non è stato generato ed esiste da sempre. Ma se esiste da sempre è illimitato, e se è illimitato non è in nessun luogo, e se non è in nessuno luogo non è.

   Ora, il ragionamento di Gorgia non farebbe una piega se le parole e le espressioni che in esso compaiono fossero sempre usate con lo stesso significato. Ma così non è, perché, ad esempio, l’espressione “non è in nessun luogo” è usata con due accezioni diverse: nella prima, “se è illimitato non è in nessuno luogo”, significa in nessun luogo determinato, e dunque da qualche parte piuttosto che da qualche altra, e che è perciò dovunque, dappertutto; nella seconda ricorrenza, “se non è in nessun luogo non è”, significa invece che non è da nessuna parte, e che dunque non c’è.

  Questo tipo di ragionamenti, noti come sofismi o paralogismi, possono essere effettuati consapevolmente o meno. Probabilmente Gorgia ne formulò diversi in buona fede, quasi a testimoniare il proprio stupore di fronte alla potenza del linguaggio e il suo convincimento circa la dipendenza sostanziale della conoscenza umana da un simile strumento, con le conseguenze relativiste che ne scaturirono; ma ciò non toglie che di questo tipo di ragionamenti si possa fare un uso retorico deliberato e calcolato.

   Ancora oggi, in politica, e in tutto il mondo, se ne fa un ampio uso. Di recente, anche alcune nostre scuole, insieme ad alcune asl, pare vi abbiano fatto ricorso nel tentativo, per la verità assai vano, di ottemperare alle disposizioni, sovente contraddittorie, della Azzolina e del Governo. Dopo un caso di positività in una classe, alcune scuole e asl (per fortuna una minoranza) hanno stabilito quanto segue: gli studenti di quella classe devono essere messi in quarantena, mentre i docenti della stessa classe, qualora dichiarino di aver rispettato le distanze e le norme sulla sicurezza, possono tornare a scuola senza quarantena e senza tampone. Potranno così fare lezione nelle altre classi, come al solito senza indossare la mascherina durante le lezioni e facendone uso, come gli studenti, solo durante gli spostamenti, a continuare a fare lezione alla classe in quarantena da scuola con la didattica a distanza.

   Tutto il ragionamento si basa anche in questo caso, come in quello precedente di Gorgia, su un uso ambiguo e polivalente di un termine, che in questo caso è “sicurezza”, o “sicuro”. Dato che è considerato “sicuro” per i docenti stare a una distanza di almeno due metri dagli studenti, anche senza mascherina, o di un metro con mascherina, se hanno rispettato queste disposizioni possono tornare a scuola senza fare né tampone né quarantena.

   In realtà, il termine “sicurezza”, quando lo si riferisce ad una misura preventiva atta a rendere improbabile il contagio in condizioni normali, ha un certo significato e certe implicazioni; quando si riferisce a circostanze in cui si è stati in presenza di positività al covid ne ha altre, così come ne ha ancora assolutamente altre per gli operatori sanitari che fanno tutti i giorni migliaia di tamponi in tutta Italia, adeguatamente protetti e mascherati come nessuno in nessuna classe è ovviamente mai stato. La parola “sicurezza” assume cioè - come ogni altra parola e come molti linguisti e filosofi del linguaggio hanno dimostrato - diversi significati a seconda delle circostanze, sintattiche e sociali, in cui viene usata.

  Il sostenere che quei docenti possono tornare a scuola senza fare né quarantena né tampone perché hanno rispettato le norme sulla sicurezza dimostra che evidentemente quelle asl e quelle scuole si sono in questo caso accordate per produrre un’argomentazione sofistica, e non è forse difficile capire perché: sapendo che tra poco la situazione diverrà quasi ovunque ingestibile per il numero degli insegnanti che potrebbero trovarsi in quarantena o in attesa di tampone, hanno deciso di assecondare le direttive del Miur di resistere ad ogni costo alla tentazione di una nuova chiusura, e cioè anche col rischiando di avere un maggior numero di contagiati assolutamente evitabili tra studenti, collaboratori scolastici e docenti, nonché tra i rispettivi familiari.  In fondo non è stato troppo difficile procedere in tal senso: è bastato usare la stessa parola, senza tener conto dei diversi significati e delle diverse implicazioni che poteva assumere in circostanze diverse, per produrre un paralogismo verosimile e per molti accettabile.

   Naturalmente, questa circostanza costituisce un caso particolare, dato che, come si è accennato, la grande maggioranza delle scuole e delle asl ha messo i docenti in quarantena o gli ha fatto fare almeno un tampone, ma il solo fatto che simili disposizioni siano possibili fa capire quanto sia incerta e sfuggente tutta la normativa che regola queste situazioni. Nella fattispecie, lo è a tal punto che, a corollario della situazione sopra descritta, in qualche scuola dopo la richiesta ai docenti di rimanere a casa in attesa di comunicazioni, è stato addirittura loro chiesto di portare un certificato medico per il giorno di assenza, pur sapendo benissimo che nessuno era stato malato e nessuno era stato messo in quarantena per un giorno, dato che una quarantena di un giorno non produce alcun tipo di sicurezza.