Il progresso astratto dell'arte
Entropia e progresso tra le varietà dell'astrattismo
“Nescis quid Vesper serus vehat”
(Virgilio, Georgiche; Varrone, Satire Menippee)
Ernst Gombrich si domanda come sia stato possibile giungere a concepire la vita artistica dei nostri tempi sotto il segno dell’idea di progresso. Lo storico viennese Hans Tietze, si chiede a sua volta come sia possibile che un linguaggio artistico nato appena una dozzina di anni prima possa essere considerato superato. Alla fine degli anni venti del Novecento, lo stesso Tietze individua nello storicismo – termine che usa grosso modo nella stessa accezione con cui lo usa Popper – l’origine di questa inarrestabile propensione.[1]
Nel Postscriptum alla sua Storia dell’arte, è sempre Gombrich a far osservare come gli artisti rappresentino ormai, secondo l’opinione di una vasta minoranza, “l’avanguardia del futuro”, tanto che rischierebbe di apparire ridicolo chiunque non dovesse apprezzarli a dovere.[2] Questa concezione dell’avanguardia artistica risulta in effetti leggibile come un’ultima conseguenza di quella concezione storicista che, se applicata all’arte, può risultare, come anche Max Weber aveva avvertito, decisamente fuorviante, perché se “l’attività scientifica è inserita nel corso del progresso”, viceversa nessun progresso “si attua nel campo dell’arte”.[3]
Denys Riout fa tuttavia notare che la logica che presiede alla pittura astratta contemporanea, nella concezione che ne ha per esempio un rappresentativo esponente come Reinhardt, implica almeno un’altra fede oltre a quella storicista, e cioè quella, nata con il decadentismo e l’estetismo, nell’autonomia dell’arte e del suo impianto formale.[4]
L’ideale dei nuovi pittori all’inizio del XX secolo è riassunto in maniera efficace da Roger Fry in questi termini: “questi artisti non cercano di rendere ciò che, dopo tutto, può essere appena un pallido riflesso dell’apparenza attuale, ma di convincere circa una nuova definitiva realtà. Essi cercano non di imitare la forma delle cose, ma di creare una forma, non di imitare la vita, ma di trovare un equivalente della vita… L’estrema conclusione di tale metodo sarebbe senza dubbio di rinunziare ad ogni rassomiglianza con le forme naturali, e di creare un linguaggio formale puramente astratto – una musica visiva; e le ultime opere di Picasso mostrano ciò in modo abbastanza chiaro”.[5]
L’arte si è avviata così a diventare un’attività autoreferenziale, che dialoga essenzialmente con se stessa ed elabora sempre nuovi codici espressivi immaginando un continuo “progresso” linguistico ed estetico che prelude al mondo prospettato da Andy Warhol, in cui ognuno potrà essere celebre per almeno quindici minuti. Questa fiducia nella propria storia e nelle dinamiche che presiedono alla nascita di sempre nuovi linguaggi pare ormai costituire la dimensione in cui oggi l’arte si muove più a suo agio, sebbene possa provocare effetti tanto paradossali da metterne in discussione il ruolo, le prerogative e persino la possibilità.
Addirittura, secondo Riout l’arte ha ormai imparato a disertare le proprie opere, “nel senso che s’è rifugiata in mezzo alle opere, là dove solo l’organizzatore della mostra può rintracciarla. È dunque possibile metterla in scena solo all’interno della mostra stessa. L’organizzatore è diventato autore, gli artisti attori o semplici comparse”.[6]
A titolo esemplificativo, Riout ci ricorda come “Pierre Ménard, un critico d’arte inventato dagli artisti stessi prendendo a prestito il nome da un eroe di Borges (Pierre Ménard, autore del <<Chisciotte>> ) fornisca una lucida analisi della situazione spiegando la posizione di due illustri mercanti d’arte, collezionisti e organizzatori di mostre: “Yoon Ja & Paul Devatour considerano l’arte un gioco il cui fine sarebbe semplicemente quello di modificarne le regole. Cosa evidentemente tutt’altro che semplice, nella misura in cui l’operazione di ridefinizione delle regole può essere giocata solo nel più rigoroso rispetto di queste stesse regole”.[7]
Del resto, non si può giocare alcun gioco senza misurarsi con delle regole, e nemmeno l’arte più creativa o indisciplinata potrebbe mai sottrarsi a questa legge, perché, come osserva Arnold Hauser, “ogni realizzazione artistica è il risultato di un conflitto fra volontà e il talento creativo dell’artista da una parte e le condizioni, i mezzi d’espressione e le convenzioni trovate dall’altra”, per cui il conflitto con tali convenzioni, e in particolare con quelle deliberatamente o inconsciamente prescelte dall’artista stesso, è ineludibile.[8]
Un simile scenario tutto incentrato sull’autonomia della forma, imperniato sulla dialettica tra l’insondabile creatività dell’artista e le regole che lui stesso si impone, non potrebbe tuttavia mai derivare solo dallo storicismo o da una certa idea di progresso estetico senza attingere anche all’idea, più generale e altrettanto fondamentale, della piena autonomia dell’arte. In altri termini, non è soltanto l’aver abbracciato una prospettiva di tipo storicista a poter spiegare i molti e diversi esiti dell’arte contemporanea: per poter procedere ad un esame organico del fenomeno è necessario prendere in considerazione gli effetti del principio per cui l’arte è fine a se stessa e, più in particolare, in che senso essa lo è all’interno di alcuni linguaggi riconducibili all’astrattismo.
Questo, rinunciando talora persino ad adombrare forme reperite nell’esperienza, si preclude la possibilità di accedere alla dialettica implicita in ogni visione, grazie alla quale il già noto e vissuto s’intreccia con il non ancora noto fino a rendere visibile ciò che prima non lo era e a farci scoprire forme e colori diversi da quelli che pensavamo di aver riconosciuto.
Proprio la tendenza, segnalata da Riout, a concepirsi come continua ridefinizione e rimodulazione delle proprie regole attesta la rivoluzione che si è verificata agli inizi del XX secolo nel modo di concepire l’oggetto della propria azione.
Questo mutamento radicale ha notevoli analogie con il modo diverso con cui in filosofia si comincia, appena più tardi, a ripensare la nozione di “significato”, e in particolare con il modo in cui Ludwig Wittgenstein lo concepisce dopo il Tractatus. Se nella sua prima opera il “significato” di una proposizione consisteva in uno stato di cose, in un fatto, a poco a poco, durante gli anni venti e trenta del Novecento, il filosofo austriaco inizia a concepire tale nozione come una famiglia di giochi linguistici, come un insieme di usi. Il “significato” si sposta così all’interno dello stesso linguaggio: viene a dipendere dalla sue regole e soprattutto dalla sua pratica. Si potrebbe dire, che il significato può concepirsi solo attraverso il riflesso di ogni suo termine nel proprio uso, solo in virtù dei suoi effetti all’interno del linguaggio.
Nella storia dell’arte accade qualcosa di simile, e verosimilmente con un certo anticipo rispetto alla storia del pensiero filosofico. Man mano che si abbandona il modello realista, man mano che l’aspetto “soggettivo” della rappresentazione acquista importanza rispetto a quello oggettivo e la “cosa”, o la “figura”, quali sono percepite nella realtà perdono importanza, non costituiscono cioè più riferimenti rilevanti, l’opera tende sempre più ad assumere come oggetto proprio le stesse regole cui, più o meno consapevolmente ed esplicitamente, l’artista ha scelto di affidare il suo discorso espressivo. Quando si giunge, lungo questo vario e movimentato processo, all’ampia e prolungata ondata dell’astrattismo, la continua rimodulazione del codice espressivo prescelto sembra costituire la traccia da seguire, il tema principale da svolgere.
In questo contesto, diviene allora essenziale procedere attraverso una riduzione coerente degli elementi di cui sono composti gli stessi codici. Quando gli elementi espressivi prendevano spunto dalla realtà percepita, questi erano pressoché illimitati, o almeno erano tanto numerosi e vari quanto quelli offerti da una tecnica pittorica chiamata a confrontarsi con la stessa realtà. Successivamente, all’interno di ciascun “ismo”, o corrente successiva, essi tendono a ridursi progressivamente, fino ad esiti sempre più astratti. Con Kandinsky si tratta ancora con varietà di figure e colori progressivamente private di ogni riferimento riconoscibile. Con Mondrian, si tratta di poche figure geometriche e di qualche colore. Con alcuni artisti successivi, il codice si riduce, come nel caso di Yves Klein, ad un solo colore. Dalla metà degli anni 50 Robert Ryman dipinge quadri di formato quadrato e quindi adirezionali, di colore bianco. Talora, come con i famosi tagli di Fontana, si riduce ad una sola forma. In questi casi estremi, la progressiva restrizione giunge a produrre codici all’apparenza poverissimi che trasformano i pochi, quando non unici, elementi utilizzati in simboli la cui potenza evocativa è direttamente proporzionale solo al loro relativo isolamento.
In linea generale, si manifesta nell’astrattismo la tendenza ad utilizzare codici espressivi composti da un numero e una varietà sempre più ristretta di elementi così da poter evidenziare meglio la ricchezza delle loro possibilità combinatorie. La progressiva riduzione dei codici, la loro calcolata economia, tende infatti a rivelare la fecondità degli sviluppi possibili all’interno di ognuno, quasi che, per cogliere o simulare un senso e poter suggerire un’idea di pienezza, d’integrità della ricostruzione grafica o pittorica, si fosse prescelta la strada di delimitare un orizzonte espressivo.
In questo modo, attraverso una restrizione preventiva dei codici e delle possibili combinazioni, si riesce a fornire l’impressione che ogni disposizione di elementi occupi lo spazio in modo significativo. Alla luce di tutte le loro diverse dislocazioni non attuate, invece di fornire una suggestione d’arbitrarietà viene evocata un’idea di ordine non arbitrario e dinamico, in quanto contrastato dalle prime tracce della sua disgregazione.
Grazie a questa “restrizione” dei componenti dei codici le forme divengono oggetto di una nuova attenzione, e così i colori: ciascun elemento può pertanto ergersi a protagonista di una narrazione e la sua posizione nel quadro simulare in maniera non antropomorfica la presenza di un soggetto umano. In questo modo, diviene visibile anche ciò che prima non lo era e le opere assumono talora l’aspetto di variazioni musicali su un tema prestabilito in virtù della stessa ricorsività di alcuni tratti. Lo spettatore potrà così imparare a riconoscere forme senza partire più dal già noto, seguendo le loro dinamiche complessive unitamente ai loro contrappunti cromatici; in altre parole, potrà imparare a vedere ciò che prima non era visibile, pur trovandosi già davanti ai suoi occhi. Da questo punto in poi, infatti, scopo dell’arte non sarà più quello di renderci il visibile, ma quello di rendere visibile ciò che altrimenti non lo sarebbe.
Quando scrive: “l’arte non ci rende il visibile, rende invece visibile”, Paul Klee sembra sottintendere proprio questo: rendere visibile ciò che altrimenti non lo sarebbe, in quanto occultato da forme e combinazioni di forme già troppo note, che impediscono di riconoscerne altre ad esse sottese. Nella concezione di Klee - scrive Robert Klein - “l’arte insegna a intendere le forme, a intendere le loro opacità di orientamento, di emozione, di energia, e ciò che può nascere dai loro incontri. […] Klee precisa che non esistono forme, entità ideali o meno, che siano identiche a se stesse: esistono solo funzioni. Ai pretesi <<elementi>>, che ci si potevano aspettare, si sostituiscono dei processi, delle situazioni, dei momenti sospesi. Lo spazio stesso, dice Klee, è una nozione temporale”.[9]
Cercando di sviluppare l’analisi di Klein, si potrebbe aggiungere che lo spazio cessa di essere uno spazio assoluto di tipo newtoniano per divenire lo spazio di cui parlava Leibniz, quello che consiste in un puro ordinamento nella simultaneità, un ordinamento che tuttavia non può non alludere ad una dimensione temporale. “Klee dipinge dei ritmi – continua Klein - dei segni, delle tensioni, con i mezzi più imprevedibili, nel modo più libero (non esita, com’è noto, a impiegare segni dell’alfabeto, punti esclamativi): poi finisce che ci si trova dentro un senso”,[10] un senso che sembra sgorgare da sequenze di segni e colori che hanno la variopinta schiettezza di frasi pronunciate da bambini, se non fosse che nelle opere dell’artista svizzero le ricorrenze e le variazioni sembrano studiate e libere a un tempo, rigorosamente ordinate e tuttavia svincolate dalla subordinazione a qualsiasi ordine prevedibile.
Secondo Marcel Duchamp, “la prima impressione che si prova davanti a una tela di Klee è il piacevole riconoscimento di quel che avremmo potuto disegnare durante l’infanzia. La maggior parte delle sue composizioni presentano questo delizioso aspetto di espressione candida e ingenua. Ma, per quanto accattivante, questo è solo il primo contatto con la sua opera. Quando la si consideri più da vicino, si scopre immediatamente che la prima impressione è stata incompleta e che, se Klee spesso utilizza una tecnica <<infantile>>, l’applica a una forma di pensiero particolarmente adulta, che l’analisi della sua opera rivela. La sua estrema fecondità non s’accompagna ai segni abituali della ripetizione. Ha così tanto da dire che un Klee non assomiglia mai a un altro Klee”.[11]
Gli artisti che hanno scelto di non riprodurre più il visibile, ma di rendere visibili forme e immagini che non lo sarebbero altrimenti si trovano dunque a elaborare composizioni di pure forme e di colori. Questa fu almeno la direzione tracciata da Kandinsky, “ideatore di una vera e propria semantica intuitiva degli effetti cromatici”.[12] Il loro libero gioco sembra assecondare anche un’intima disposizione musicale dei loro autori, che li induce, più o meno avvertitamente, a sviluppare l’alternanza di ricorrenze, scarti imprevisti e diramazioni, di strutture ordinate e di fattori di disordine relativo, come in una composizione in cui un tema sia svolto attraverso diversi sviluppi melodici.
Per Kandisky questa similitudine non è pertinente solo alla sua opera, ma è estensibile anche al passato: “come in musica ogni costruzione ha un suo ritmo, e se anche nella distribuzione <<casuale>> delle cose c’è sempre un ritmo, così accade in pittura. […] Molti quadri, xilografie, miniature ecc. delle epoche artistiche del passato sono composizioni <<ritmiche>> complesse con forti riferimenti al principio sinfonico. Si pensi agli antichi maestri tedeschi, ai persiani, ai giapponesi, alle icone russe e soprattutto ai giornali popolari ecc. In quasi tutte queste opere la composizione sinfonica è strettamente legata a quella melodica. Quando cioè si abolisce l’oggettività e si valorizza la composizione si ha un’opera basata su una sensazione di quiete, di ripetizione tranquilla, di scansione abbastanza equilibrata. Involontariamente tornano in mente composizioni corali del passato, Mozart e Beethoven. Sono tutte opere più o meno vicine all’architettura nobile, raccolta e dignitosa di una cattedrale gotica: equilibrio e scansione uniforme delle parti sono il diapason e la base spirituale di queste costruzioni”.[13]
Il comporre opere con figure e colori piuttosto che con accordi e note in successione non dovrebbe quindi impedire di cogliere la profonda analogia tra tali forme espressive. Come osserva Francisco Jaruta, lo stesso Klee “ha accennato ripetutamente a una concezione musicale dell’opera d’arte, alla sua condizione persino polifonica, proprio per esprimere la simultaneità delle possibili linee che s’incrociano, che si congiungono definendo il linguaggio delle sue opere”.[14]
Ad una vocazione musicale si accompagna però in Klee anche una propensione narrativa. Come osserva sempre Jaruta “per Klee non esiste una costruzione necessaria. Tutte vengono pensate come ipotetiche variazioni di una storia, di un momento in cui lo scorrere delle cose, il loro fluire lento o precipitoso, i loro attimi di spasmo o di felicità vengono afferrati e invocati”.[15]
Più in generale, se la raffigurazione fa uso di figure, l’espressione linguistica di proposizioni e quella musicale di frasi melodiche, in ogni caso si tratta pur sempre di un numero limitato di elementi utilizzati in maniera ricorsiva, così da poter alludere ad una dimensione temporale prima ancora che a uno spazio oggettivo esterno. Sebbene infatti si dia corpo a strutture spaziali ordinate, senza soffermare l’attenzione sulle variazioni e sugli sviluppi che esse contengono rispetto ad altre possibilità inespresse anche la dimensione spaziale risulterebbe ricevibile solo in maniera vaga, tanto da poter risultare completamente arbitraria. In questo contesto, gli elementi che costituiscono un quadro “astratto” acquistano il loro valore simbolico in virtù della loro disposizione più o meno ordinata all’interno, e ciò attraverso il loro uso ricorsivo.[16]
Le successioni di temi e idee melodiche, così come quelle di strutture di segni, sono alternate a variazioni non dissimili da quelle che caratterizzano l’uso di una parola all’interno di una lingua: anche in questo contesto gli usi possono succedersi in modi identici o poco prevedibili, evocare iterazioni convenzionali o attuare soluzioni particolarmente evocative sotto il profilo retorico o poetico.
Dall’inizio del Novecento anche le forme e i colori si succedono sulle tele dei pittori con ritmi diversi, assumendo complessivamente forme significative alla luce di codici sempre più ridotti, probabilmente perché una tale riduzione è funzionale ad una maggiore perspicuità visiva, la quale a sua volta è in grado di rendere più icastico e perentorio l’orizzonte entro cui si svolge la combinatoria degli elementi in gioco. Per questo la vocazione grafica di questo tipo di arte pare inscindibile dalla sua propensione all’astrazione, e forse è proprio per compensare e integrare questa propensione che il colore interviene come contrappunto della narrazione grafica.
Ci sono tuttavia tanti diversi modi d’astrarre. Secondo Tomás Maldonado c’è ad esempio una profonda differenza tra l’astrattismo costruttivo e l’astrattismo genericamente inteso, nel senso che “le opere di artisti come Malévic, Mondrian e Albers sono diverse, per esempio, da quelle di Pollock”.[17]
L’incremento dell’entropia che caratterizza gran parte dell’arte contemporanea, e di cui Pollock costituisce il caso più esemplare, è dovuto secondo Arnheim a due specie del tutto diverse di effetti: “da un lato, un impulso verso la semplicità, che promuoverà la regolarità e l’abbassamento del livello dell’ordine; dall’altro, il dissolvimento disordinato. Ambedue conducono alla riduzione di tensione”.[18] Se Pollock può essere considerato il prototipo di questo secondo caso, Mondrian o Arp possono essere considerati validi modelli del primo.
La distinzione sommaria proposta da Maldonado, potrebbe dunque essere integrata, anche alla luce di quanto sostiene Arnheim, con la seguente considerazione: se nelle opere che utilizzano codici espressivi ancora piuttosto vari e ricchi si realizza un sottile equilibrio dinamico tra ordine e disordine, nelle tipologie d’astrattismo in cui tali elementi prolificano disordinatamente c’è una perdita di tensione, così come, per altro verso, in quelle che riducono in maniera più perentoria il numero di elementi utilizzati, dove tuttavia l’aspetto più ordinato delle composizioni risulta spesso compensato da un’impressione di casualità.
Arnheim sostiene che, quando Jean Arp faceva esperimenti “con le <<leggi del caso>>, il che talvolta implicava lasciare che le forme cadessero su una superficie e studiarne il risultato, nondimeno operava con estrema cura sulle distribuzioni così ottenute. In una serie di rilievi in legno del 1942, Tre Costellazioni delle Stesse Forme, egli offrì una interpretazione visiva dell’aspetto casuale, ponendo un certo numero di forme autonome su uno sfondo vuoto in modo tale che esse non si adattassero ad alcuno schema compositivo generale, ma venissero tenute in equilibrio unicamente dalle loro mutue relazioni di peso e distanza. Anche mostrando che medesimi elementi possono essere montati in tre modi diversi ma parimenti validi, egli sottolineava la natura fortuita del loro combinarsi: ma lo faceva con quel delicatissimo controllo dell’ordine la cui indispensabilità era giunto a riconoscere”.[19]
Il controllo dell’ordine, e simultaneamente del disordine degli elementi in gioco, costituisce un esercizio ineludibile per l’arte astratta, o almeno per quelle sue tipologie che tendono proprio a sondare le linee di tensione tra ordine e disordine e a modularne le possibili varianti. Senza un simile controllo formale, senza la conservazione di un certo ordine all’interno di ogni nuovo linguaggio, l’arte è destinata secondo Arp a scivolare in “una confusione senza limiti”.[20]
Viceversa, quando la tensione entropica non è del tutto dispersa o annullata, quando siamo cioè in presenza di un certo rigore formale, a sua volta inscindibile da una riduzione calibrata del numero dei componenti stilistici in gioco, una simile confusione può essere scongiurata e ci si può immergere con fiducia nel mare del campo grafico.
Alla fine delle Schöpferishe Konfession (“Confessioni creative”), a commento dell’insieme del proprio lavoro, Paul Klee suggerisce a tutti coloro che vorranno realmente incontrare la sua opera di “lasciarsi condurre verso l’oceano vivificativo del campo grafico”, in cui le molteplici ramificazioni di pochi aforismi scorrono come grandi fiumi e “ruscelli pieni d’incantesimi”.
Ogni ruscello è “pieno d’incantesimi” perché in ciascuno scorre una serie infinita e tuttavia limitata di possibilità formali, di relazioni tra forme; relazioni ignare di sé che utilizzano lo spazio loro concesso per narrare le loro storie ad un arcano e remoto spettatore, per il quale nulla muore. Se infatti tutto è forma, gioco di forme, allora, in un simile gioco, ogni forma potrà, anche solo per probabilità statistica, ricomparire in eterno ricorsivamente. Nel gioco delle forme, dal punto di vista privilegiato di chi può osservare una simile ricorsività, nulla muore e tutto scorre, tutto ritorna. Ogni disegno, ogni traccia, si fa metafora di un senso, e il quadro diviene una sorta di narrazione implicita e perspicua.
Come si riempie uno spazio? Attraverso segni, schizzi, figure, colori. E come il tempo? Attraverso azioni, pensieri, schizzi di pensieri e azioni. Comunque lo spazio venga riempito, un senso sarà sorto; comunque il tempo venga colmato, un senso sarà stato. In entrambi i casi si tratterà anche di metafore, di anticipazioni, di riaccese memorie sublimate, ma finché la tensione simbolica rimane viva, anche l’opera non sarà morta, né correrà il rischio di ridursi ad un’icona ideologica e a un feticcio culturale.
Questo rischio non è tuttavia da sottovalutare. Per esempio, a proposito della action painting di Jackson Pollock, Gombrich svolge le seguenti considerazioni, che potrebbero risultare emblematiche anche per altri astrattisti: “il groviglio di linee che ne risulta soddisfa le due opposte aspirazioni dell’arte del XX secolo: la nostalgia per la semplicità e la spontaneità infantile, che evoca il ricordo degli scarabocchi dei bambini nel periodo precedente a quello in cui incominciano anch’essi a formare immagini, e, all’altro estremo, il cerebrale interesse ai problemi della <<pittura pura>>”[21].
Il tema dell’arte per l’arte, della ricerca di una forma pura, ritorna qui in primo piano, ma non è un caso che Gombrich usi queste parole per Pollock, e non, ad esempio per Klee, alla cui opera sarebbero pur sempre potute, almeno in via approssimativa e generica, risultare adattabili. Ciò che in Pollock manca, rispetto a Klee, è quanto Dürer riscontrava come l’essenza di un buon pittore. In un celebre frammento egli infatti sostiene che “un buon pittore è internamente pieno di figure, e se fosse possibile che egli vivesse eternamente, avrebbe comunque sempre qualcosa di nuovo da riversare nelle opere da quelle idee interiori di cui parla Platone”.[22]
L’espressionismo astratto proposto da Pollock rinuncia invece a fare riferimento a figure che non siano casuali, uniche e indecifrabili ed esso sembra assumere nelle sue significazioni e implicazioni più estreme quanto sostiene Deleuze nella sua monografia su Francis Bacon. Così come per Deleuze “la pittura non ha né modelli da rappresentare, né storie da raccontare”,[23] per Pollock essa deve premunirsi contro ogni tentazione in entrambi i sensi per conservare una presunta genuinità d’ispirazione e rimanere pienamente fedele al proprio canone. In questo modo, ovvero eliminando ogni ricorsività, e dunque abolendo qualsiasi dimensione narrativa, temporale nonché musicale, la sua arte finisce con l’assumere il sapore di un gesto perentorio e incontrovertibile, il cui valore estetico pare dover consistere proprio nella sua unicità e inappellabilità.
Mentre per altri tipi d’astrattismo l’attività dell’artista pare simile a quella del fenomenologo che pone in evidenza figure o forme altrimenti destinate a non essere viste, nel caso di Pollock - o comunque ogni volta che si perde un significativo e dinamico livello di tensione tra ordine e disordine, tra la ristrettezza dei codici e la complessità delle possibili combinazioni dei loro componenti - l’opera d’arte pare proporsi come un puro gesto ideologico volto ad affermare quell’assoluta spontaneità che costituirebbe il segnale, al tempo stesso, del conseguimento di una totale libertà espressiva e della rivelazione di un nuovo tipo di genialità.
Come fa osservare Mario Perniola, esiste una certa somiglianza tra l’arte e la filosofia in una prospettiva fenomenologica, che può essere riassunta nel modo seguente: “per l’arte come per la filosofia, la realtà del mondo è indifferente. Esse non accettano alcuna esistenza come <<pre-data>>: per entrambe ciò che conta è l’evidenza, cioè il manifestarsi e il presentarsi alla coscienza dell’oggetto nella sua essenza”.[24]
Quest’analogia non ci esime tuttavia dal riscontrare differenze anche profonde tra i tipi di “essenza” cui si può far riferimento: questa può essere anche - come nel caso di Pollock e di altri cui abbiamo fatto cenno durante questa breve riflessione - completamente inarticolata e non modulabile, appiattita cioè sull’atto che l’ha originata. Può essere proposta come un prendere o lasciare totalizzante, in cui il gesto dell’artista può essere soltanto accettato o rifiutato nella sua globalità. L’opera rischia, in questo caso, di assumere la connotazione di un feticcio, ovvero di qualcosa che può risultare comprensibile solo al prezzo della sua totale indecifrabilità, e proprio in virtù di questo paradosso dotato di un valore estetico assoluto, tanto da poter risultare provvisto di qualche alone magico.
È Theodor W. Adorno a sostenere che “la qualità e perfino la verità delle opere d’arte dipendono essenzialmente dal grado del loro feticismo, nel senso che la celebrazione implicita nel loro statuto di cose distinte dagli oggetti utili garantisce loro una completa libertà, emancipandole da ogni rapporto col mero intrattenimento; paradossalmente è proprio il feticismo che preserva la loro <<serietà>>!”.[25]
Questa dimensione celebrativa e “feticista”, in cui culmina la concezione dell’arte per l’arte, è però dovuta non solo al fatto che l’opera può distinguersi da qualsiasi oggetto utile o da una sua ipotetica funzione d’intrattenimento – questo in fondo valeva già per l’arte figurativa classica e moderna – ma soprattutto al fatto che essa sa fare a meno di ogni riferimento figurativo riconoscibile, in qualche modo evocativo dell’esperienza quotidiana.
D’altro lato, quest’approccio all’arte astratta rinuncia anche ad avvalersi delle possibilità espressive offerte dalla simulazione grafica delle tensioni formali ricorrenti tra gli elementi desunti da un codice limitato, e pertanto capace di suggerire disposizioni significative ed evocative di tali elementi.
La conseguenza di tale approccio è che all’interno della dimensione intellettualistica in cui tanta produzione artistica sembra trovarsi sempre più a suo agio non è nemmeno necessario saper costruire e proporre nuovi linguaggi, nuove concezioni espressive modulabili graficamente, così da lasciar percepire un certo rigore formale: l’opera d’arte è sempre più in grado di annunciarsi come un gesto indiscutibile e assoluto, di proclamarsi feticcio di se stessa con una mossa che assume ogni volta le sembianze del finale di una partita a scacchi con lo spettatore assoluto che asseconda e accetta l’ideale della perfetta autoreferenzialità simbolica, all’interno della quale qualsiasi simbolo venga gettato sulla scacchiera non può che assumervi un significato unico, impareggiabile e non commensurabile con nessun altro.
Proprio in virtù della sua qualità di feticcio, l’opera basta così a se stessa e al suo pubblico, che continua a fare da specchio persino in absentia, dato che l’opera non ha più bisogno di misurarsi con le sue reazioni o valutazioni, dato che che l’ideologia in essa implicita le ha rese preventivamente impossibili o inutili. A meno che non siano volte a cogliere, attraverso un lavoro di decodifica non troppo dissimile da quello che può contraddistinguere una qualche pulsione enigmistica, il messaggio semplicemente asserito o il “concetto” allusivamente “urlato” in cui consiste la sua chiave di lettura e la misura finale del suo “valore”, le valutazioni estetiche che è possibile formulare risultano sempre, e anticipatamente, sottoposte all’esercizio di un ricatto ideologico: quello in virtù del quale si può non apprezzare l’opera solo a patto di una radicale incomprensione, così come, per ampie schiere di astanti, si può non ridere di una barzelletta solo perché si è privi di un sufficiente senso dell’umorismo.
In questo modo, l’arte si condanna a divenire lo sponsor della propria assenza, si dispone a sopravvivere a se stessa come la cornice di un centro vuoto che non ha più senso proporsi di colmare. Come scrive Slavoj Zizek parlando in heideggerese, con il <<Quadrato nero su superficie bianca>> di Kasimir Malevič “l’essenza del quadro è di fornire un quadro (un quadrato, una cornice) per l’essenza stessa”.[26] In altri termini, l’essenza stessa dell’arte si riduce al contorno che ne individua lo spazio, alla circostanza e all’atto iniziatico che la proclamano tale, o tutt’al più all’enunciazione di un discorso criptato rispetto al quale l’unica reazione esteticamente ammissibile è la sua decodifica. L’essenza è sancita così da un Altro luogo, da altri inattingibili e arcani assemblatori di senso e organizzatori di mostre, da chi ha la faccia tosta di giustificare il valore estetico di un’opera mediante l’essenza metalinguistica e autoreferenziale dell’atto assoluto che ne inaugura il codice e sa svelarne ogni volta una possibilità attraverso un unico e perentorio gesto “creativo”.
La disumanizzazione dell’arte di cui parlava Ortega y Gasset sembra dunque aver condotto ai suoi esiti più drastici: spingendosi alla periferia dell’esperienza vitale, o comunque limitandosi a simularne per via astratta impasse e sviluppi, “l’arte – come osserva Perniola commentando Ortega – è diventata prossima ai giochi e addirittura agli sport, mentre l’intero Occidente sembra essere entrato nella fase della puerilità”.[27] Ma la devitalizzazione e la disumanizzazione dell’arte hanno saputo mascherare il regresso “simbolico” e culturale cui hanno condotto con la sicurezza impavida del bambino che si accinge a conquistare un castello in mano a dei pirati immaginari: la sua propensione al gesto liberatorio e l’illimitata riserva di codici espressivi cui può attingere fanno di lei una ragazza di sicuro avvenire, un’eroina adatta ad ogni stagione, un’intrepida forgiatrice d’un senso sempre nuovo, magnifico e progressivo.
Il suo successo definitivo e incontrovertibile coincide con il trionfo di quella “volontà di stile” in cui consiste secondo Ortega l’essenza dell’arte contemporanea dopo l’abbandono della forma delle cose che aveva costituito un riferimento imprescindibile per la grande stagione realistica.
“Stilizzare” non è tuttavia solo – come scrive Ortega – “deformare il reale, de-realizzare”.[28] La stilizzazione non implica soltanto una disumanizzazione, o se vogliamo, tale disumanizzazione costituisce solo il primo effetto e la prima conseguenza di quella de-realizzazione. Essa annuncia invece – e nonostante le anse feconde in cui l’arte può essersi soffermata durante un simile tragitto, anse che lasciano intravedere prospettive ancora vive e insondate lungo le esitazioni del proprio declino – anche la piena autoreferenzialità linguistica della nozione di “significato” in filosofia e il “relativismo” epistemologico che ne deriva.
Essa instaura un processo che verrà portato a compimento solo nella seconda metà del Novecento, quando l'opera d'arte, ormai divenuta compiutamente “autonoma”, farà ruotare il suo discorso intorno alla propria essenza vuota e quando, ormai preda di un narcisismo assoluto, tenderà sempre di più a trasfigurarsi nell’involucro metalinguistico di una siffatta essenza, nella cornice che le consenta di spacciare il puro arbitrio che la contraddistingue per una sorta di coraggio estetico sempre germinale ed iniziatico, capace di reperire sul suo fondo il feticcio illusorio della propria libertà, che potrà reputarsi assoluta nella misura in cui saprà illudersi di riuscire a contemplare il nulla che la sostiene.
[1] Cfr. E. Gombrich, Arte e progresso, trad. it. Roma-Bari, 1985, pp. 80-82.
[2] E. H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, trad. it. Torino, 1966; ed. cit. 1979, p. 110. Sui fattori che hanno più in generale prefigurato l’affermazione dell’idea che vi sia anche in campo artistico un progresso analogo a quello rinvenibile nella storia della scienza e della tecnica, vedi pp. 609-616).
[3] Il passo completo nel quale Max Weber svolge queste considerazioni è il seguente: “Oltre a queste condizioni preliminari che il nostro lavoro ha in comune con l’arte, esiste una legge fatale che lo differenzia profondamente dal lavoro dell’artista. L’attività scientifica è inserita nel corso del progresso. E viceversa nessun progresso – in questo senso – si attua nel campo dell’arte. Non è vero che un’opera d’arte di un’epoca in cui siano stati elaborati nuovi mezzi tecnici, per esempio, le leggi della prospettiva, si trovi per questa ragione a un più alto livello, sul piano puramente artistico, di un’opera d’arte priva di ogni conoscenza di questi mezzi o di quelle leggi, purché questa non sia formalmente o materialmente manchevole, purché cioè essa abbia scelto e plasmato il proprio oggetto come era possibile fare a regola d’arte senza l’applicazione di quelle condizioni o di quei mezzi. Un’opera d’arte veramente <<compiuta>> non viene mai superata, non invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente un significato di diverso valore; ma di un’opera realmente <<compiuta>> in senso artistico nessuno potrà mai dire che sia superata da un’altra pur essa <<compiuta>> (M. Weber, La scienza come professione, trad. it. in Il lavoro intellettuale come professione, Torino, 1948, ed. cit. 1976, pp. 17-18).
[4] Cfr. D. Riout, L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, trad. it. Torino, 2002, p. 88. I due dogmi dai quali l’arte contemporanea sembra non poter prescindere sarebbero dunque “l’autonomia dell’arte e lo storicismo”.
[5] Cit. in F. Venturi, Storia della critica d’arte, Torino, 1964, p. 315.
[6] Ivi, p. 406.
[7] Ivi, p. 407.
[8] A. Hauser, Le teorie dell’arte. Tendenze e metodi della critica moderna, trad. it. Torino, 1969; ed. cit. 1979, p. 329.
[9] R. Klein, La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, trad. it. Torino, 1975, p. 469.
[10] Ivi, p. 470.
[11] M. Duchamp, Scritti, trad. it. Milano, 1975, p. 176.
[12] D. Riout, op. cit. pp. 41-42.
[13] W. Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, trad. it. Milano, 1989, pp. 91-92.
[14] F. Jarauta, I codici possibili del mondo, in Paul Klee, La collezione Berggruen, Fondazione Memmo, Skira editore, trad. it. Milano, 2006, (pp. 30-33), p. 31.
[15] Ivi, p. 32.
[16] Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell’arte, trad. it. Milano 1876, ed. cit. 2008, p 43.
[17] T. Maldonado, Reale e virtuale, trad. it. Milano 1992; ed. cit. Milano, 2007, p. 64.
[18] R. Arnheim, Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine, trad. it. Torino, 1989, p. 73.
[19] Ivi, pp. 34-35.
[20] Ivi, p. 76.
[21] E. H. Gombrich, La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, op. cit. pp. 598-599.
[22] A. Dürer, Lob der Malerei. Salus 1512, in Id., Schriften und Briefe, Leipzig, Reclam, p. 119; cit. in A. Pinotti, Estetica della pittura, Bologna, 2007, p. 47.
[23] G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione (1981), trad. it. Macerata, 1995; cfr., A. Pinotti, op. cit. p. 159.
[24] M. Perniola, L’estetica del Novecento, Bologna,1997, pp. 90-91.
[25] Th. W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. Torino, 1975, p. 320; cit. in. M. Perniola, op. cit., p. 107.
[26] S. Žižek, In difesa delle cause perse, trad. it. Milano, 2009; ed. cit. 2013, p. 287.
[27] M. Perniola, L’estetica del Novecento, op. cit., p. 36.
[28] J. Ortega y Gasset, La deshumanizaciòn del Arte y otros ensayos de estética, Madrid 1925; ed. cit. 1993, p. 67.
Bibliografia
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