Quel silenzioso stupore
Le passioni visive di Marino Marini in mostra a Pistoia
Nella prima stanza della mostra che la sua città natale ha voluto dedicare a Marino Marini (Passioni visive, Pistoia, Palazzo Fabroni, dal 16 Settembre 2017 al 7 Gennaio 2018) si trovano il Gentiluomo a cavallo (1937) e il Pellegrino a cavallo (1939). Nell’analizzare la prima di queste due opere Barbara Cinelli, una delle curatrici della mostra (l'altro è Flavio Fergonzi), ricorda le parole che il Longhi riferiva a Piero della Francesca: lo “<<sposato riposo>> e la <<perfezione proporzionata degli spazi>> che accoglievano l’<<umanità di prima covata>> di Piero, rese quasi tangibili da un apparato iconografico insuperabile per eloquenza visiva, dovettero entrare in virtuoso colloquio con le suggestioni della scultura arcaica: come i cavalli di Piero, anche il cavallo di Marino pare voler proporre, più che l’energia, <<la proporzionata nobiltà delle membra>>, e <<su codesta nobilissima progenie animale s’incasella quasi inumano e pur civilissimo>> il cavaliere”.
Lo stesso Marini fornisce la chiave più propizia per intravedere il centro intorno a cui, almeno in quel periodo (siamo verso la fine degli anni trenta), si stava sviluppando il suo lavoro creativo: questo “puntava a ottenere un <<silenzioso stupore, che può soltanto manifestarsi per forme chiuse ed ermetiche, rinnovamento di un mito che ha tanti anni quanti il mondo, a cui l’uomo ritorna come qualcosa di essenziale e fatale>>.
Proprio questo <<silenzioso stupore>> sembra essere infatti il filo rosso che lega la maggior parte delle sue opere: esso pare avvolgere l’espressione di molti suoi cavalli e cavalieri, generalmente colti in stati d’animo paralleli e attoniti, a un tempo consapevoli e fanciulli. Ma un simile stupore non è reperibile solo in tale tipologia di sculture: in una stanza poco distante v’è un’assemblea di Pomone che sembrano sorprese nell’incantesimo che le ha appena dotate di un corpo, che le ha improvvisamente allacciate al suo ingombro, alla naturale morbidezza che prolunga il respiro quieto della loro anima.
Sono tanti i personaggi che attraversano una storia misteriosamente riflessa sullo sfondo dei loro volti, sorpresi in un momento di raccoglimento e concentrazione intorno a un proprio centro invisibile, così come accade nella grande ritrattistica di ogni epoca. Lo stesso fenomeno che si può riscontrare in molti dei cavalli, e specialmente in quelli che prendono spunto dall’arte cinese. Ciò che si rendeva per il Marini fruibile in quei modelli erano la morbidezza e la rotondità prive di tensioni posticce e surrogate, il loro convolare verso l’ammutolita meraviglia di esistere, che sospende ogni commozione virtuale alla forma interrogativa di un’esclamazione. Persino in Icaro (1933), colto forse nel momento in cui sta perdendo le ali, c’è un tale livello di consapevolezza del proprio destino e del suo senso, una sua così piena accettazione, che non vi è spazio per il terrore o lo sgomento che la circostanza estrema avrebbe potuto suscitare.
La cosa però forse più sorprendente è la capacità di Marini di dialogare nell’arco di tutta una vita con stilemi e riferimenti eterogenei e molteplici, riuscendo a ritrovare in tutti la nota dominante della sua arte: quel <<silenzioso stupore>> che avvolge sia l’uomo sia la natura, il corpo così come lo sguardo, pare non estinguersi nemmeno in quei momenti di assoluta tensione, di repentino cedimento e abbandono che attraversa tutti i Miracoli.
Sia che si confronti con maestri del rinascimento fiorentino, sia che dialoghi con l’arte etrusca o classica, con quella egizia o cinese, sia che sviluppi le varie suggestioni ispirategli dall’arte a lui contemporanea, Marini ne trae per un lungo tratto della sua produzione lo stesso silenzio attonito, lo stesso raccoglimento muto, integro e spaesato a un tempo. Solo negli ultimi anni questo silenzio sembra trasformarsi a volte in un grido ammutolito sul nascere, in un grido che si è fatto ispida roccia piuttosto che pietra levigata.
I curatori della mostra gli hanno attribuito alcuni non episodici compagni di viaggio, rispettosi di altri canoni e motivi ispiratori: così, ad esempio, Manzù è presente con un David fragile, acuto e feroce (1938), e con una ragazza che è colta in un momento del suo fantasticare, che la induce al sorriso; Arturo Martini con Tobiolo (1934 circa), felice per aver appena acchiappato un pesce; Rodin e Moore con alcune piccole (di dimensioni) opere, Aristide Maillol solo con una, ma molto bella: Harmonie 1er état.
Il confronto con Manzù (ma avremmo potuto utilizzare anche il Tobiolo di Martini) ci fornisce il pretesto per qualche cenno ai ritratti presenti alla mostra: in quelli del Marini, la persona ritratta è in un momento di vuoto interiore, di piena coincidenza con sé e con il proprio centro; in quelli di Manzù, come ad esempio nella ragazza sorridente cui si è fatto cenno, la stessa ragazza è colta in un momento del suo ricordare o immaginare, in un momento cioè troppo specifico o particolare perché l’espressione del volto e la generale postura possano testimoniare di qualche più compiuta individuazione.
Da Stravinskij a De Pisis, da Madame Melms a Emilio Jesi, passando attraverso quello splendido di Fausto Melotti ancor più ravvivato dall’uso della cera, Marini sa cogliere, forse meglio di qualsiasi scultore suo contemporaneo, questo momento d’identità con sé del personaggio ritratto, di piena coincidenza con la sua indole più riposta e segreta. Ciò che si stempera nelle opere in cui il titolo offre una sorta di resistenza feconda all’azione creativa, consentendo in cambio di svolgere un tema prescelto in maniera più articolata e poco convenzionale: così la Giovinetta (1938), un capolavoro di grazia implicita, o l’Arcangelo (1943), tormentato e dubbioso come può esserlo solo un uomo di autentica fede, così nelle serie dei successivi cavalieri e delle loro cavalcature degli anni quaranta e cinquanta, in cui il tema del <<silenzioso stupore>> si ripropone in modalità ancora più perentorie e subitanee che in passato.
Alla fine di questo variegato e coerente percorso, si scopre che l’arte del Marini riesce davvero, come da lui stesso programmaticamente annunciato nell’Autopresentazione alla Quadriennale del 1935, ad attingere alle fonti della natura per astrarsene e superarle, per farsi <<perfetta allucinazione>>, ma un’allucinazione in grado di <<preservare - come anche si proponeva - per l’umanità la forma dell’uomo>>