Kurosawa e l'ineluttabilità del male
Akira Kurosawa disegna in Raschomon i contorni di un perfetto dilemma morale. In questa pellicola - vincitrice del Leone d’oro alla mostra cinematografica di Venezia nel 1950 e che trae spunto da racconto di Ryunosuke Akutagawa - un monaco buddista e un boscaiolo, per ripararsi dalla pioggia, si fermano sotto la vecchia porta di Rashô, nei pressi di Kyoto, dopo aver assistito a un processo per omicidio. A loro si aggiunge presto un viandante e i tre si scambiano reciprocamente le proprie impressioni e le perplessità sull’andamento del processo, durante il quale i giudici avevano cercato di ricostruire le circostanze in cui un samurai era stato ucciso. Ma nessuna delle tre testimonianze ascoltate dai giudici – quella del bandito sospettato di aver ucciso il samurai, quella dello moglie del samurai, quella dello spettro del samurai – risulta alla fine probante e decisiva: tutte e tre risultano infatti verosimili, ma anche tra loro incompatibili.
Lo spettatore non può che trovarsi nella stessa difficoltà in cui viene a trovarsi il monaco, l’unico che alla fine non potrà fornire una propria versione dei fatti. A quale delle tre testimonianze che ha ascoltato dovrebbe essere portato a credere se sono tutte egualmente credibili? E come potrebbe un giudice emettere una giusta sentenza, visto che si troverebbe nella sua stessa condizione?
Se anche ritenesse uno dei testimoni più attendibile degli altri e se questi avesse detto il vero, la decisione del giudice non potrebbe essere adeguatamente motivata e quindi dovrebbe correre il rischio di fare un grave torto agli altri due, sentendosi poi in colpa per la semplice possibilità di aver arrecato loro ingiustizia. Qualora il testimone creduto avesse detto il falso, il giudice commetterebbe ingiustizia in maniera più diretta e crudele verso quello degli altri due che avesse detto il vero, ma in maniera più indiretta anche verso il terzo, che non sarebbe stato alla fine creduto in base ad argomenti pienamente razionali e convincenti. Certo, se il giudice chiamato a giudicare potesse astenersi dal farlo, potrebbe evitare di commettere ingiustizia direttamente verso ciascuno dei tre, ma comunque il delitto resterebbe impunito, e quindi il suo comportamento recherebbe del male a un quarto, e cioè alla vittima dell’offesa o a chiunque ne rappresenti le istanze di giustizia sulla scena.
In questo film Kurosawa illustra dunque un dilemma morale perfetto, ovvero senza soluzione: dimostra in maniera rigorosa l’impossibilità di non fare il male per chi si trovi chiamato a giudicare e, nel contempo, che il non giudicare sarebbe un altro modo di fare il male. La situazione descritta da Kurosawa è infatti solo in apparenza paradossale o rara, perché la vita propone spesso situazioni analoghe: il non giudicare è comunque un modo di giudicare, e anche la semplice possibilità dell’errore implica una responsabilità e una colpa sotto il profilo morale. L’aspetto più drammatico di tutta la vicenda è che essa getta un’ombra sia sull’umano, razionale e laico anelito alla giustizia, sia su un aspetto cruciale dei quelle religioni – come in particolare il Cristianesimo e il Buddismo – che individuano nell’astensione dal giudizio un motivo o un segno di salvezza spirituale. Se tutti siamo costretti, in un modo o nell’altro, a fare il male, nessuno è immune dal “peccato”. Con un ragionamento parallelo e compiutamente laico, si perviene quindi ad una conclusione molto simile a quella cui giunse S. Agostino: il peccato, o una colpa originaria, sono insiti nella natura umana.
Ora, quando si parla di “giudicare”, sarebbe opportuno specificare se ci si riferisce a dei “comportamenti” o a delle “persone”. Se può risultare impossibile, oltre che moralmente discutibile, pretendere di astenersi dal giudicare i primi, potrebbe invece risultare sensato e coerente con i propri principi morali e/o religiosi astenersi dal farlo con le seconde. Sia che riteniamo, con il Vangelo, che solo chi è senza peccato possa scagliare la prima pietra, sia che pensiamo, con certo ormai diffuso determinismo, che ognuno sia condizionato da fattori in grado di neutralizzare un suo ipotetico “libero arbitrio”, in entrambi i casi un simile giudizio sembra fuori luogo, irragionevole o persino frutto di una certa, più o meno consapevole, egotica arroganza.
Ma poiché non è possibile relazionarci ad alcuno senza tener conto di ciò che ha fatto, di come si è comportato con noi e con gli altri fino a quel momento, sebbene ogni giudizio possa essere ragionevolmente solo provvisorio sarebbe ingiusto, e forse per molti impossibile, non prendere posizione verso quell’insieme di comportamenti, e quindi, almeno momentaneamente, e cioè fino a quando non ci siano segni d’autentico ravvedimento, anche verso chi li ha adottati.
Una simile posizione significherebbe forse venir meno all’osservanza di un principio cruciale della morale evangelica?
Forse no, se si tiene conto di quella ineluttabilità del male di cui di cui il film di Kurosawa ci mostra sapientemente la possibilità in determinate circostanze. In un’ottica cristiana non v’è alcuna sovrapposizione metafisica a quella momentanea e soggettiva presa di posizione etica che si rendesse opportuna o necessaria per non farsi complici del male, o almeno non c’è dal punto di vista umano. In altri termini, non compete all’uomo emettere giudizi irreversibili di colpevolezza sulle persone in quanto tali. Il perdono cristiano, infatti, è sempre pronto per chi rinnega responsabilmente quelle azioni che sono state volte a creare dolore, o che lo hanno anche involontariamente provocato. Il giudizio complessivo e finale spetta a Dio, non agli uomini.
In una prospettiva non religiosa, invece, un simile perdono, per essendo possibile, non costituisce un fattore necessario. Chi compie il male potrebbe sì essere valutato solo per ciò che ha fatto e con la finalità di evitare che le sue azioni, quando lesive dell’altrui libertà, si ripetano, ma la condanna etica della “persona” rimane una eventualità legittima e, in tale dimensione, non priva di una certa razionalità.
Anche in questo caso, tuttavia, con una eccezione, che è proprio quella riferibile al caso in cui si abbracci una prospettiva radicalmente deterministica, ovvero in grado d’inglobare il campo etico. Questa, d’altra parte, potrebbe essere riassunta come la riduzione materialistica e meccanicistica di quella già prospettata da Spinoza. Ora, nel quadro di un rigoroso determinismo, così come nell’ Etica spinoziana, la negazione del “libero arbitrio” è non meno esplicita di quanto non lo sia all’interno della teologia protestante; ma mentre in quest’ultima il giudizio finale spetta a Dio e gli esseri umani possono responsabilmente formularne solo uno provvisorio e relativo a dei comportamenti, nell’orizzonte del determinismo laico, dove c’è posto solo per esseri concretamente viventi, un giudizio morale sulla persona non potrebbe, in tutta coerenza, essere espresso tout court. In maniera all’apparenza abbastanza paradossale, tale dimensione culturale può comunque indurre a propendere, non meno di quella cristiana, per una “pietas” radicale, priva di un giudizio finale sulla persona, e in grado di emettere solo valutazioni con finalità pratiche, volte cioè ad arginare i comportamenti lesivi della propria e altrui libertà ed esistenza.
La parziale somiglianza che verrebbe così a registrarsi tra visioni del mondo e dell’etica tanto diverse, le rispettive modalità di negare il libero arbitrio, sembra innescata da quella stessa ineluttabilità del male di cui ci parla il film di Kurosawa, in cui tutte le versioni sono verosimili, ma nessuna può essere, alla luce delle altre, ritenuta “vera”. Ma se non posso giudicare in base a criteri razionali quando non siano presenti gli elementi necessari per una scelta motivata la libertà del mio agire morale è fortemente limitata, o addirittura, in una concezione globalizzante, praticamente nulla, dato che, se non esiste in qualche caso, non esiste per l’intero sistema. Rigore etico, determinismo laico e negazione del libero arbitrio in una prospettiva cristiana sembrano dunque, in questo senso, condurre alla stessa conclusione: l’impossibilità per un individuo di giudicare altri individui, se non in via provvisoria e in maniera circoscritta, limitatamente cioè ad alcuni loro specifici comportamenti e ai loro effetti. In quest’ottica, anche qualora si possa avere l’impressione di giudicare qualcuno bisognerebbe sempre ricordarsi che in realtà si sta giudicando l’insieme dei suoi comportamenti sino a quel punto, e non la sua persona. Il resto compete a un Dio assente o presente, ma di cui in ogni caso nessuno è in condizione e in diritto di anticipare il giudizio. Per simmetrici motivi, in altri contesti religiosi e filosofici, come ad esempio in una prospettiva buddista, non ha egualmente molto senso emettere giudizi su alcun karma individuale.
Alla fine, nel film di Kurosawa le cose non diverranno più chiare nemmeno quando, con un colpo di teatro, anche il boscaiolo aggiungerà, sotto la porta di Rashô, la propria versione dei fatti, sostenendo all’improvviso di essere stato testimone della scena. Poco dopo il viandante, accusato dallo stesso boscaiolo di aver rubato il chimono in cui era avvolto un bambino abbandonato e appena ritrovato sotto la porta, lo accuserà di aver taciuto alla corte la propria versione per non dover ammettere che era stato proprio lui a rubare il prezioso pugnale della moglie del samurai.
Così nemmeno il boscaiolo risulta alla fine immune da colpa, e il cerchio si chiude. Tutte le versioni fornite dai protagonisti risultano alla fine compatibili col vano tentativo di salvare l’onore di chi le narrava, ma tutte sono smentite dagli altri. Anche il samurai ucciso, che fino a quel momento sembrava esente da colpa, nella versione del boscaiolo rinnega la moglie e la disprezza, lasciandola al bandito in cambio della possibilità di mantenere per sé il proprio cavallo.
Alla fine, nemmeno lo spettatore è in condizione di giudicare e tutti si rivelano di conseguenza indirettamente corresponsabili di quanto accaduto per il semplice fatto di non poter emettere alcun giudizio e di non potersi, pertanto, opporre al male. Poiché tutte le versioni sono credibili, tutti sono colpevoli ma, per la stessa ragione, si può anche concludere che tutti sono innocenti.
Nella sequenza finale, dopo essere rimasto per qualche istante raccolto in disparte il boscaiolo si avvicina al monaco, che ora tiene tra le braccia il bambino piangente, e dichiara di volersene prendere cura. Ha già sei figli, e quindi potrà ben occuparsi anche di un settimo. Il monaco, che aveva disperato e che era giunto, al termine dei quattro racconti a non credere più nell’umanità macchiandosi (almeno dal suo punto di vista) in questo modo a sua volta di una colpa grave ed estrema, gli dice che con quel gesto gli ha restituito le fede nella vita e negli esseri umani.
Esprimendo il desiderio di voler adottare il bambino, e indipendentemente dal fatto che l’accusa mossa nei suoi confronti dal viandante fosse giustificata, il boscaiolo restituisce al monaco e allo spettatore, oltre che a se stesso, la fiducia nell'esistenza di un senso nella vita di ogni singolo individuo; con il suo gesto di tenerezza e premura egli redime in parte ciascuno dei protagonisti. Certo, affinché un simile gesto potesse conseguire un simile effetto era necessario che il suo destinatario fosse una figura innocente, ma l’ineluttabilità del male mostra che ciascuno lo è, o almeno che è necessario e giusto supporlo tale dato che nessuno è immune da colpa.
Dalla consapevolezza dell’ineluttabilità del male può dunque scaturire l’inizio di un perdono, tanto degli altri che di se stessi: essa c’insegna a rinunciare alla difesa ostinata del proprio “onore” e alla vana tentazione della menzogna, iniziandoci a quella piena accettazione della colpa e dell’innocenza che sono nello stesso tempo di ognuno e dalla quale soltanto può avviarsi ogni trasfigurazione spirituale che preluda al disvelamento di un senso: che sia inteso all'interno di una prospettiva laica o religiosa esso, in quanto rigorosamente dedotto da un dilemma insolubile, può configurarsi come la premessa originale di un'etica condivisa.