Le conseguenze dell'amore per l'amore impossibile


   Il lavoro a cui è dedito Titta de Girolamo - protagonista (interpretato da un bravissimo Tony Servillo) di Le conseguenze dell’amore, di Paolo Sorrentino – è metafora di una condizione di radicale solitudine, di quel tipo di solitudine che può irradiarsi solo dall’impressione di un vuoto persistente; una solitudine ormai priva di risonanze significative e in qualche modo sorpresa dal fatto che la vita possa ancora scorrerle accanto.
   E’ in questa condizione metaforica che Titta s’innamora. Quando si siede al bancone del bar dell’hotel dove vive, la ragazza che osserva da vari giorni non sembra aver notato i suoi sguardi e lui ha l’impressione di esporsi all’esperienza più pericolosa della sua esistenza.  
 

   A questa ragazza, di cui sa poco o nulla, Titta regalerà un’auto sportiva molto costosa, sottraendo denaro ai suoi datori di lavoro. Non si tratta di un lavoro qualsiasi, ma di uno decisamente poco legale, che lui svolge da anni con rigorosa diligenza, lontano dalla moglie, dai figli e dal mondo, che pare ormai racchiuso nella forma astratta di una solipsistica tecnica di sopravvivenza.
  Alla fine riterrà, erroneamente, che la ragazza abbia deliberatamente mancato a un appuntamento, concludendo, con lo stesso perentorio rigore che nutre ogni suo gesto, di non essere amato. Donerà quindi una congrua somma di denaro - anch’essa sottratta agli occasionali rapitori della sua vita - a una coppia di sfortunati e bari giocatori di carte, con i quali era solito far defluire il tempo opaco delle sue serate, affinché possano in sua vece illudersi di poter continuare la loro partita, e si recherà con decisione verso la pozza di cemento che l’attende, una forma compattata dello stesso nulla che aveva a lungo scrutato dalle comode poltrone del suo riservato luogo di autoreclusione.
    In un certo senso è vero: ci si innamora sempre dell’amore; e questo sembra anche il caso di Titta de Girolamo. Il suo sentimento però è ambiguo: forse concepisce, pur non dandolo a vedere, l’amore come assoluta reciprocità, come il riconoscimento essenziale del proprio desiderio,  come “quel sentimento per cui due esseri non esistono che in unità perfetta e pongono in quest’identità – per dirlo con le parole di Hegel – tutta la loro anima e il mondo intero”; oppure, non essendo consapevole di questo suo desiderio, o non provandolo affatto, è preda di un  amore passione, uno di quelli, tanto viscerali quanto tragici, che si possono provare per La donna della porta accanto, come nell’omonimo film di Truffaut.
    Se l’amore passione può essere decisamente autoreferenziale, l’amore inteso come reciprocità e scambio simbolico con l’altro non lo è per definizione, perché è alla ricerca estrema di riconoscimento e condivisione, di quel sentire all’unisono nutrito e venato da mille differenze che  ne costituisce l’essenza. Ma il sentimento di Titta – dicevamo - è ambiguo perché, come ogni innamorato dell’amore (ipotesi che nel suo caso è particolarmente plausibile, non sapendo quasi nulla di lei) sembra usare l’altro come un’occasione o un pretesto per amare. Questo sentimento non solo può fare a meno dell’incontro con l’altro, ma cerca tale incontro con il fine segreto di accertarne l’impossibilità: ecco perché Titta è così sicuro che l’assenza di lei all’appuntamento sia il segno inequivocabile di una scelta precisa, la conferma di una negazione.
    Questo tipo di amore paradossale ha un sapore - come Freud ha suggerito - anche sottilmente narcisistico: è l’opposto dell’amore quale lo intende Leibniz, per il quale “amare est gaudere felicitate alterius”: non solo non permette di assecondare la passione, ma è veicolo di una profonda disattenzione verso l’altro, e lasciandosi prendere nella rete di un infinito paragone ellittico tra la realtà e la perfezione della possibilità tende a dimostrare more geometrico l’impossibilità stessa del sentimento amoroso. Solo la sua purezza e la sua bellezza, infatti, avrebbero potuto salvarlo, e al loro cospetto non si possono prendere in considerazione disguidi o incidenti: un appuntamento mancato può essere soltanto una sentenza definitiva, una defezione esiziale.
   Poiché la bellezza è una promessa di felicità, e quindi l’amore per la bellezza è l’amore per una promessa di felicità, allora, in questo senso, l’amore di Titta potrebbe essere ritenuto - come sostiene Chiara Piazzasi in un bel saggio dedicato proprio a Le conseguenze dell’amore (vedi http://siba2.unile.it/ese/issues/273/614/Segnicomprn57-06p85.pdf) essenzialmente estetico. Ma il desiderio di conseguire una virtuale consonanza e reciprocità, il desiderio di dar vita alla possibilità di un riconoscimento è connaturato a ogni produzione artistica, non meno che a ogni relazione eticamente intesa, e la disgiunzione di tali prospettive rischia di falsificarle entrambe. Così, se Titta avesse davvero mirato a fare del suo amore qualcosa di esteticamente significativo, forse avrebbe dovuto, piuttosto che proporre appuntamenti lapidari e interpretare frettolosamente gli eventi, cercare di comunicare il disegno complessivo del suo progetto amoroso all’interlocutore prescelto, disponendosi in una dimensione di ascolto e di attesa. 
   Grazie ad un incidente - in sé non fatale -  Titta, che ha preteso di amare prima di amare, può invece cadere nell’autoinganno che ha accuratamente predisposto: per questo la sua sorte potrà compiersi in un modo, ad un tempo, esteticamente rigoroso e incompiuto. Rigoroso perché coerente, leggero e determinato; incompiuto perché sostanzialmente solipsistico, come testimonia il fatto che lei non potrà mai sapere il motivo di ciò che lo spinto verso la sua decisione e la sua fine.   
   Tuttavia, quest’ultimo limite della sua opera vivente, originato dal cortocircuito paradossale cui il suo desiderio da forma,  è attenuato, se non annullato, da quanto, sul finire della storia, decide di fare: dal gesto complementare di voler “passare la mano” a qualcun altro, e nella fattispecie ai giocatori tristi con cui era solito condividere le sue esili serate. Se non ci fosse stato quest’omaggio ad un’ipotetica vita altrui, alla mitigazione dell’infelicità di qualcun altro, l’esito della sua vita non avrebbe avuto lo stesso valore e lo stesso significato, nemmeno sotto il profilo estetico. 
   Il suo gesto finale è, d’altra parte, generoso solo per inerzia, per una reminiscenza quasi sorda dell’alterità: è il residuo etico che conferisce spessore estetico a tutta la sua vicenda, perché senza il germe inoculato nel vivente dalla consapevolezza che la vita può comunque dislocarsi altrove, che essa ci trascende e che può persistere, anche in forme che ci lasciano increduli o indifferenti, da qualche altra parte, qualsiasi approccio estetico all’esistenza si trasfigura in un puro esercizio di rigore formale, nell’ossessione di un’eleganza nihilistica, nel compiacimento per la lucida disamina di tutto ciò che può dimostrare la necessità del suo fallimento, mimandone così un senso perfettamente conchiuso.
    Il pericolo che Titta si trova ad affrontare non è dunque costituito dall’amore passione, ovvero da quel tipo di amore che s’identifica con il proprio desiderio: in questo caso la catastrofe avrebbe potuto avere uno sviluppo più lineare e, appunto, passionale. Titta è piuttosto in pericolo perché sente di poterla amare, forse per un motivo non dissimile da quello per cui il Manfred di Byron ama Astarte, ovvero per la sua pietà. E’ vero: vuole “essere esteticamente”, ma forse non tanto perché non ambisca a una relazione dialogica e simbolica; non perché, solipsisticamente, non voglia “comunicare” (tant’è vero che con lei lo fa, con una fiducia laconica e disperata), ma proprio in quanto, non essendo mai riuscito a farlo prima e avendo per un attimo creduto nella possibilità di farlo per il suo volerlo ascoltare, per il di lei voler sapere chi era, dopo l’appuntamento mancato capisce che può essere solo in un modo: cessando di essere l’involucro di se stesso; ciò che fa andando incontro ad una fine certa e donando il resto di una felicità solo intravista a due coniugi sconfitti, in moneta cartacea, come gettando un pugno di mosche in un’altra tela. Del resto, quando manca soltanto una possibilità, e non si dà quella possibilità, subentra una delle due forme della disperazione di cui parla Kierkegaard; e senza quella possibilità, l’ultima che intendesse concedersi, non c’era più una grande differenza tra una valigia di dollari o un pugno di mosche: si trattava solo d’individuare il giusto intermediario, o il povero baro, cui affidare l’illusione troppo breve di poter intrattenere la vita.