Due brevi saggi metafisici
ESISTENZE E INESISTENZE
di Macedonio Fernández
Ogni spirito constata e sente, forse come l’elemento più caratteristico della realtà, la differenziazione tra i fenomeni o stati e quelle che vengono chiamate forme, che li accompagnano, e cioè il Tempo e lo Spazio.
Il nostro spirito non può accettare di considerarle secondo una stessa misura e la distinzione che sente e non riesce a ridurre può tradursi dicendo: il fenomeno è concepito come qualcosa che “esiste”, come modo o caso dell’Essere, e il Tempo e lo Spazio come cose che non esistono e, senza dubbio, non possono essere eliminate dal pensiero.
Non è possibile cessare di pensare e parlare del Tempo e dello Spazio; loro malgrado, nemmeno con grande sforzo potremmo identificarli con gli stati o i fenomeni; in nessun momento li sentiamo o concepiamo come casi dell’Essere, come esistenze. In una semplice frase: nessuno sente o vede il Tempo e lo Spazio, così come sente un suono, un dolore, un sapore o come vede un oggetto o un colore; questo fatto tanto saliente e universale è di grande importanze nella nostra disamina.
La prima categoria metafisica è la differenziazione tra esistenze e inesistenze, comprendendo nella prima classe “l’Essere”, cioè, ogni fenomeno o stato, e nella seconda il Tempo e lo Spazio. Vedremo poi se il Numero deve figurare in questa categoria, e se la forma o il limite sono derivati da quello; e altrettanto diciamo della causalità e della necessità. Sembrerà capriccioso l’impiego della voce “inesistenze” per designare queste creazioni della vita mentale: in questo modo vogliamo sottolineare la loro effettiva carenza delle proprietà dell’”Essere”, come la forte illusione di esistenza che li accompagna per la difficoltà del pensiero di prescindere da essi. Per lo stesso motivo si potrebbero denominare il tempo, lo spazio, la causalità, la necessità, il soggetto, l’io come non-fenomeni, affinché non si supponga che vogliamo erigerli a noumeni.
Apparenza e sostanza, o, che è lo stesso, fenomeno e noumeno, sono categorie che mettiamo al bando perentoriamente come falsissime, come idee deplorevoli.
Vogliamo inoltre affermare che non sentiamo alcuna categoria, ossia differenza, diversificazione, differenziazione, nell’essere totale, incluso il mondo mentale, tanto radicale e forte come l’irriducibile distinguo che lo spirito traccia tra l’essere o l’esistere di un fenomeno e il non esistere del tempo, dello spazio, eccetera. Questa è la distinzione che dovrebbe fornire lo slancio a tutta la metafisica e che con nomi diversi è effettivamente insinuata nelle opere tradizionali: ma nessuno si è deciso a trarre da questi due estremi la giusta impressione e molti continuano a opinare che tempo e spazio sono rappresentazioni come verde o acuto.
La distinzione che presentiamo è la più radicale che sia possibile immaginare una volta che si sia riconsiderato quali dovrebbero essere le caratteristiche di una opposizione perfetta: è una differenza perfetta, cioè, quella in cui i termini differenti non offrono alcun elemento comune: l’elemento comune a ogni differenza è l’esistenza: materia e spirito, rosso e verde, piacere e dolore, caldo e amaro, quantunque opposti o diversi, esistono ugualmente; piacere e tempo, amaro e spazio sono tanto diversi quanto esistenza e inesistenza, tra di essi non vi è nulla in comune.
Con tutto questo non riteniamo di proporre enfaticamente una gran novità, una nuova imponente trascendenza: desideriamo condurre lo spirito del lettore al sentimento che egli ha già sperimentato della radicale non sostanzialità di tutto ciò che non è fenomeno. Esprimendoci con tutta semplicità, diciamo: tempo, spazio, soggetto eccetera non esistono, non sono niente e, in conclusione, sono parole: azzurro, amaro, freddo, dolore, ecco ciò che solo esiste, che costituisce l’essere, o la realtà: oltre il dolore non esiste un soggetto che lo prova, né un luogo in cui si produce, né un istante di tempo in cui succede, né una coscienza in cui si faccia sentire, né una materia in cui opera e in cui è ubicato. Fuori del sapore di un’arancia, del suo profumo, della sensazione tattile e della temperatura che sprigiona, del suo colore, non esiste la materia dell’arancia. Oltre la palla da biliardo che rotola non esiste il suo movimento: rotolando o immobile che sia, solo essa esiste: quando ruota è la stessa di quando è immobile, nulla è aggiunto. Oltre all’atomo che vibra non esiste la vibrazione dell’atomo: non possiamo fare a meno di parlare di movimento, come del tempo, dello spazio, dell’io, ma sappiamo che il movimento non è un fenomeno, una esistenza come l’aspro o l’azzurro. Non è facile ammettere che il movimento non è un’esistenza; come non lo è ciò che si chiama “forza”; e d’altra parte ci costa un grande sforzo riconoscere che lo stesso deve dirsi del tempo e dello spazio; malgrado tutto dobbiamo giungere forzatamente e per analogia a queste conclusioni e il problema metafisico risulterà inopinatamente scomparso, poiché tutte le perplessità metafisiche si può dire che abbiano la loro unica fonte in questa differenza generata da parole o nozioni generali, su cui tanto dovremo insistere.
Permettetemi un’ampia reiterazione: non sono nulla, non esistono il movimento, i fatti, la forza, il numero, le relazioni, l’intensità, l’estensione, i giudizi, il tempo, lo spazio, la causalità, la necessità, il colore, il suono, i corpi, la coscienza, la materia: e neppure esiste l’Esistenza o l’Essere, che è la più astratta o generale della nozioni. Esistono solo stati o fenomeni né interiori, né esteriori, né psichici né materiali, che non si producono né nel mondo né nella coscienza, né in alcun luogo, né in qualche istante.
Lo stesso concetto di esistenza o essere è sorto unicamente grazie a quest’opposizione avvertita tra le parole che corrispondono a fenomeni e quelle che non corrispondono a fenomeni.
Quando una nozione è di grande generalità, o universale, cioè applicabile a quasi tutti o a tutti i fenomeni, ci pare che corrisponda ad un’“esistenza” speciale, a un fenomeno concreto, perché unendosi a tutte le immagini (che sono ugualmente fenomeni, esistenze) non possiamo scinderla dal nostro pensiero, eppure, forse, facciamo aderire alla parola che la designa qualche immagine vaga tratta da un fenomeno, la quale finisce per sembrarci un fenomeno speciale inerente o corrispondente propriamente alla nozione.
Cavallo, colore, piacere sono nozioni generali; immagine, sensazione, sono più generali; tempo e spazio quasi universali; cosa, fatto, fenomeno sono universali poiché equivalgono a esistere, a esistenza. La diversa ampiezza di questi concetti non modifica la loro essenza: quella di essere parole e nulla più; parole che, come fenomeni psicologici, sono stati visuali o auditivi e che, come ogni fenomeno, hanno la capacità di essere preceduti o seguiti da altri e in questo modo provocare un movimento d’immagini e di altre parole in chi le ascolta o legge e in chi le emette o scrive.
Oltre alla parola “rosso” esiste il fenomeno “rosso”: il tempo non esiste e esiste solo la parola tempo.
Le parole generali come cavallo, albero, osserveremo che, nonostante l’opinione generalizzata, non corrispondono a un’immagine generale, e non solo perché un’immagine generale sarebbe quasi contraddittoria, ma perché in realtà il nostro spirito non procede, come si suppone, astraendo da tutte le immagini degli esemplari conosciuti di una specie di esseri o di oggetti un’immagine composita, formata con le caratteristiche comuni a tutte, ma piuttosto si avvale per ogni specie dell’individuo che gli è più familiare, e così chiunque viva in un paesaggio circondato da pini quando pensa al concetto generale di albero ha nella mente l’immagine selezionata di un pino e non la immagine-prodotto di tutte le percezioni di alberi che ha incontrato nella sua esperienza.
Non solo, la cose stanno in questo modo fino al punto che si può negare che l’uomo faccia quasi mai uso di nozioni generali, per la ragione che è rarissimo che possiamo affermare qualcosa che sia certo per tutti gli esemplari di una specie; posso dire infinite cose dell’albero che ho visto ieri in quel tal luogo, ma di tutti gli alberi conosciuti non potrò forse affermare niente: né che sono tutti alti, tutti verdi, tutti fitti, tutti sottili, tutti aromatici, tutti resistenti, tutti soavi, tutti rapidi a crescere, tutti fruttiferi, che tutti perdono le foglie d’inverno, eccetera. E ciò non deve sorprendere perché le specie sono creazioni convenzionali e il concetto che le definisce, ossia l’enunciazione dell’elemento comune a tutti gli individui che la formano, tollera e ammette sempre delle eccezioni.
Così si passerà a dire che una legge è: ciò che resta di un’affermazione generale una volta sottratte tutte le sue eccezioni.
Produrremmo una nuova digressione se cercassimo di modificare quelle in cui ci è capitato d’incorrere; volgiamoci, dunque, tacitamente al tema.
Prendiamo la nozione “tempo”; se riusciamo a mostrare la sua nullità possiamo supporre che lo spazio si presti ad un analogo esame distruttivo.
L’istante in cui un fenomeno si produce non esiste, ma esiste solo il fenomeno; la durata di un fenomeno non è un fenomeno; un fenomeno non presenta in sé alcun elemento che lo distingua come stato anteriore o posteriore rispetto ad un altro. Nessuno ha percepito nemmeno idealmente “il posteriore” o “l’anteriore” come ha percepito “l’amaro” o “un dolore”. Nessun fenomeno, fatto, stato, presenta in sé alcun carattere che lo distingua come passato, presente o futuro.
Diciamo però “sta per piovere” o “ha piovuto” con intenzioni molto distinte; diciamo con accento sicuro: “Pietro arrivò dopo Giovanni”, oppure: “questa lampada sta ardendo da un’ora”. Allo stesso modo diciamo: “mancano due ore o bisogna aspettare due ore perché parta il treno”, con il che vogliamo significare qualcosa di molto simile alla distanza nello spazio: in questo caso l’esistenza del tempo sembra ancora più reale.
E’ chiaro che il dolore che diciamo di aver sofferto e l’altro che, in altra circostanza, diciamo di poter provare questa mattina, ci inducono a comportarci molto diversamente e suscitano stati d’animo molto differenti; ma quale tratto particolare ci induce ad affermare di uno che è un fatto passato e dell’altro che è futuro?
IL DATO RADICALE DELLA MORTE
di Macedonio Fernández
Se la nostra sensibilità, che è tutta la realtà e tutto ciò che siamo, tutto ciò che esiste e che c’è, dovesse cessare - e questa cessazione consisterebbe tanto nella nostra supposta inesistenza anteriore alla nascita quanto nella supposta inesistenza successiva alla morte, cioè, tanto nella cessazione che cessa con la nascita quanto in quella che inizia con la morte – se cesseremo un giorno di esistere… non lo sapremo mai, non è così?
Qualcosa che non accade nella sensibilità, nel sentire – che è l’unica modalità possibile dell’essere, al di fuori di essa c’è il nulla; infatti non ci fu mai qualcosa che non fosse, nella sua totalità, un mero sentire – non accade né è, in alcun modo. E così come niente che non sia un sentire può essere un accadimento della sensibilità, allo stesso modo la cessazione della sensibilità non sarà un fatto della sensibilità, poiché, siccome tutto è sensibilità, ciò che non succede in essa non succede in alcun modo. Non è possibile che noi ci accorgiamo un giorno di non esistere. Per parlare della vita bisogna esistere e per parlare o pensare sul nulla lo stesso. La morte non è il nulla, ma ciò che nulla è. Non c’è l’opposto della vita; il suo contrario non esiste.
Ma potremmo sapere se eravamo morti un tempo, se poi ricominciassimo ad esistere? Il non esistere non sa nulla; l’esistere può conoscere il non esistere? C’è qualcosa che non sia stato mai un presente per il pensiero, che mai abbia potuto essere pensato presentemente e che senza dubbio il pensiero possa pensarlo come ricordo o come idea, senz’essere mai stato immagine o percezione attuale, senz’essere mai stato un’attualità per il pensiero?
Tale sarebbe il groviglio del pensiero del nulla; la morte non fu mai attualità nel pensiero perché pensare è esistere e d’altra parte perché qualcosa possa essere pensato speculativamente è necessario che qualche volta questo qualcosa e il pensiero siano stati simultanei.
Il sogno e lo svenimento sono esempi di queste supposte situazioni d’inesistenza (poiché ciò che nessuno sente, non è niente) seguite dall’esistenza. E poiché d’altra parte nulla è se non è sentito, e solo mentre è sentito, se qualcuno per un istante non sentisse nulla si sarebbe verificata per quell’istante la perfetta inesistenza del mondo (mondo e sensibilità sono due parole per una sola cosa). Se per un minuto io non esistessi il mondo, durante quel minuto, sarebbe cessato. Sarebbe un minuto senza mondo.
Credere in un istante senza mondo, in una durata del non sentito, del non sentire, è credere nella realtà del tempo.
Io nego la realtà del tempo, che penso sia nulla, tanto come intuizione (Schopenhauer), quanto come forma di giudizio (Kant).
C’è solo un’esistenza, non solo eterna, ma incessantemente continua, e in essa non solo un io sempre personale, sempre dotato di memoria, internamente e individualmente continuo, ma che si riconosce eternamente. Una sensibilità incessante non cominciata, né sicuramente interrotta per ricominciare.
E’ nell’analisi o critica della impressione del tempo che si dissolve la concezione delle interruzioni passeggere della nostra sensibilità, le quali supposte interruzioni hanno ingenerato l’impressione che il nulla sia pensabile e l’impressione (poiché non giunge ad essere nozione o idea) della morte.
Le traduzioni sono di Gustavo Micheletti