Un altro finale per Medina-seroté
Il finale di “Nel paese dei ciechi”, di H. G. Wells, omette la narrazione della sorte della sua protagonista femminile, Medina-seroté, che ci piace qui immaginare e raccontare.
Il racconto di Wells narra la storia di Nuñez, scivolato quasi per caso in una valla abitata da diverse generazioni da una popolazione completamente cieca. I suoi abitanti, che per ragioni climatiche preferivano vivere e lavorare di notte e dormire di giorno, lo scambiarono per un selvaggio e cercarono di rieducarlo. Nuñez, dopo aver imparato i loro usi e costumi, provò a parlare loro della vista, ma più si sforzava di spiegargli in cosa consistesse il vedere più era trattato con diffidenza. Tramò il piano ingenuo e fallimentare di poter realizzare un colpo di Stato per prendere il potere, ma fin dalla prima colluttazione dovette, armato di una vanga, sperimentare quanto fosse difficile colpire un cieco a sangue freddo. Quando il suo piano fu scoperto lui, inseguito, provò a fuggire, ma poi, colto dai crampi della fame, della solitudine e della disillusione, si vide costretto a chiedere il loro aiuto, in primo luogo sotto forma di cibo.
Venuto a più miti consigli, fu assunto a servizio da Yacob, un uomo bonario della cui figlia minore, Medina-seroté, Nuñez finì, presto contraccambiato, con l’innamorarsi. Durante le loro passeggiate, le raccontava dei colori delle montagne e dell’erba, ma anche le parlava della bellezza del suo viso, ignota agli abitanti della valle. Proprio quei riferimenti alla sua bellezza che la rendevano turbata e inquieta contribuirono forse a far nascere e rendere irreversibile il sentimento di Medina-seroté.
Il loro progetto di matrimonio incontrò però le resistenze di molti abitanti del villaggio, specialmente dei più giovani, che erano preoccupati per la corruzione della stirpe che la loro unione avrebbe comportato. Uno dei membri più autorevoli del consiglio degli anziani suggerì la soluzione: il fatto che Nuñez manifestasse palesi segni d’immaturità e talora fosse afflitto da vere e proprie allucinazioni era probabilmente dovuto, secondo quell’anziano medico, alle due escrescenze che aveva all’interno delle morbide cavità che avevano in quel paese nomi di occhi. La sua proposta era dunque quella di asportare quei corpi irritanti: dopo una simile operazione chirurgica sarebbe probabilmente divenuto più assennato.
La settimana che doveva precedere quell’operazione – alla quale, per amor di Medina-seroté, aveva dato il suo assenso – Nuñez non dormì mai. Poi ebbe pietà di se stesso, delle cime dorate delle montagne e delle stelle: guardò un’ultima volta il dolce viso della sua sposa promessa e si allontanò per rimanere da solo prima del suo sacrificio. Ma risalita la valle non vi fece più ritorno, perché mentre i suoi occhi si soffermavano a scrutare con attenzione l’azzurro del cielo immenso e la cortina delle montagne provò una felicità estrema e nuova, che lo indusse ben presto ad abbandonare il paese dei ciechi per ritornare nel mondo dei vedenti.
Fin qui il racconto di H. G. Wells; d’ora in poi, nessun elemento della trama di questo racconto è più imputabile al suo autore.
Dopo la partenza di Nuñez, Medina-seroté passò alcune settimane immersa in un incontrollato silenzio. Poi a poco a poco, riprese a condurre la sua vita di prima, senza parlare con nessuno della cosa, di quell’abbandono di cui aveva scorto qualche presagio nella camminata che aveva accompagnato il suo promesso sposo oltre i confini della vallata. Quando, dopo quasi un anno, un giovane del paese, figlio di un amico di suo padre, le dichiarò il suo amore, cosa che fece in un modo esitante e malcerto, lei manifestò l’intenzione di ricambiarlo. I due giovani iniziarono così a frequentarsi e a fare lunghe passeggiate insieme, durante le quali Medine-seroté gli parlava delle cose che si potevano vedere con gli occhi, delle stelle e dei monti, delle aurore e dell’inafferrabile verde dei licheni, dell’azzurro del cielo e del rosso febbrile delle foglie d’autunno.
Alonso, così si chiamava il suo nuovo fidanzato, in un primo tempo non sembrò dare importanza alla cosa, ritenendola frutto di una certa voglia di scherzare o di qualche momentaneo eccesso dell’immaginazione. Man mano però che tali fantasie si fecero più insistenti ed estese un qualche collegamento con il passato sentimentale della ragazza divenne per lui ineludibile, specialmente alla luce di alcune domande che lei gli rivolgeva in modo ricorrente: “sono davvero bella?”; oppure: “tu puoi immaginare la mia bellezza?”
Alonso iniziò così a preoccuparsi seriamente, fino al punto di voler sottoporre tutta la questione al giudizio del padre di lei e del proprio, riuniti insieme ad altri membri della comunità per procedere ad un esame accurato di tutta la faccenda.
Secondo l’anziano medico che aveva escogitato il metodo per curare il disturbo di Nuñez, la ragazza era rimasta contagiata dalle sue allucinazioni e queste si erano impresse con tanta forza nella sua fantasia da trasformarsi in vere e proprie idee fisse. Per rimuoverne l’inquietante presenza nella sua mente si rendeva necessaria a suo avviso una cura prolungata in un regime di quasi totale isolamento e bisognava fare ricorso all’ausilio delle più moderne terapie psicologiche. Per quanto non si trattasse di tipologie di sapere particolarmente sviluppate nella valle, alcune teorie di questo tipo avevano di recente preso a circolare negli ambienti accademici in cui venivano formati i nuovi medici.
Il caso di Medina-seroté venne in seguito classificato come delirio allucinatorio da shock in seguito ad un abbandono assolutamente ingiustificato e incomprensibile. Secondo l’opinione dell’equipe di medici che la prese in cura, bisognava ricorrere ad un’attività rieducativa essenzialmente volta a farle gradualmente percepire l’irrealtà di tali esperienze allucinate, basata su intense e prolungate esperienze tattili e olfattive, attività che avrebbe potuto farla rientrare, secondo loro in tempi abbastanza brevi, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali.
Fu chiesto al padre Yacob l’autorizzazione per intraprendere un simile percorso terapeutico, e questi, sebbene a malincuore e con incomprimibile amarezza, dette alla fine il suo assenso.
Medina-serotè si sottopose a quel trattamento senza opporre alcuna resistenza. Nei giardini dell’ospedale in cui trascorreva buona parte del suo tempo faceva molte cose che aveva sempre fatto durante la sua fanciullezza: sfiorava l’erba umida con le sue dita affusolate, ascoltava il canto dell’usignolo, dell’assiolo, dell’allodola e di altri uccelli, si lasciava avvolgere dal rumore del vento e talora bagnare dalla pioggia notturna. Quando le capitava, come la terapia prevedeva, di conversare con qualche medico o con qualche parente venuto a trovarla, le sue parole erano gentili e i suoi discorsi ragionevoli. Solo una o due domande intervenivano però sempre a procrastinare la sua permanenza in quel luogo quieto in cui si svolgeva la sua rieducazione, domande che rivolgeva ai suoi interlocutori in maniera affabile, con una grazia tattile e sonora, sussurrandole alle loro orecchie mentre li teneva delicatamente per mano: “tu mi trovi bella?”… “tu puoi immaginare la mia bellezza?”.