Borges e Macedonio sotto le stelle

Era una notte chiara e l’aria di una canzone triste risuonava in una piazza affollata di Buenos Aires. Il pensiero era leggero e il cuore stava sospeso nel tepore dell’aria estiva. Come capita ai pensatori lievi, lasciava i suoi pensieri nella loro forma nascente, che rendeva più triste e sola ogni canzone. Anche il rumore delle stoviglie che risuonò durante un intervallo musicale gli parve più triste, nonostante il profumo di carne arrostita e di pietanze speziate che faceva venire un certo appetito.

Anche Jorge Luis Borges e Macedonio Fernández erano seduti lì fuori, al tavolino dello stesso bar, lo sguardo ogni tanto rivolto verso le stelle e i lampioni che ne nascondevano la luce. Ascoltavano quella stessa canzone, che ora assomigliava a una sconosciuta di Gardel, mentre lui ascoltava i loro discorsi,  la malinconia sorridente delle loro voci.

 

La notte dicono porti consiglio, ma quella notte fu lui a consigliarla, a dirle di non dormire, a intrattenerla con mille discorsi intelligenti e sciocchi. A volte i discorsi sciocchi, pigri e distratti, sanno conservare la verità per un tempo più lungo. Come quelli fatti nel dormiveglia dell’anima, quando neanche te li aspetti e che faresti fatica cambiare. Sono proprio i discorsi che non vale la pena cambiare o correggere che cambiano te, senza farsene accorgere.

   Quella notte il cielo era limpido e le canzoni risuonavano nell’aria come una promessa e un rimpianto. Già prima che avesse qualcosa da rimpiangere, il tempo però sembrava scaduto. Se solo fosse riuscito a partire subito, a non dare importanza alla cosa, a quel che la sua vita era stata, a far finta di niente..., ma il niente sapeva fingere troppo bene per farsi ingannare dalle sue finzioni. Sa giocare brutti tiri, il niente, indossare troppe maschere, cambiare le carte in tavola durante la partita. Le parole era lui a suggerirle alla notte, perché le conservasse con sé e gliele riconsegnasse all’alba come nuove, magari anche le stesse, ma rivestite di azzurro, oppure perché gliele riconsegnasse subito indietro, come cirri o alti nembi nel cielo soffusi nella bianca trepidazione della luna.

  E poi partire da dove? Come si fa a partire se non si sa bene da dove si parte, da cosa, lasciando che cosa? E se non si può partire allora è meglio rimanere ad ascoltare i suoni e i rumori che il vento ci porta, talvolta in modo discreto, da un luogo imprecisato.

  Borges parlava con la sua voce leggera, Macedonio con una più sonora. Lentamente il primo si appisolò, reclinando appena la testa sul petto. Nulla lasciava intendere che Macedonio se ne fosse accorto: continuava a parlargli come se lo ascoltasse. Il suo sonno non sembrava disturbarlo minimamente, tant’è che gli gesticolava persino un po’ davanti agli occhi chiusi con movimenti ampi e lenti delle braccia.

  Forse Borges si era addormentato per la bellezza della canzone, o per le parole troppo rade dell’amico, o forse per il ricordo della voce dolente di Gardel, che sopportava nelle sue corde una pena celeste.

La folla a poco a poco si diradò e la luce di un lampione scintillò contro i vetri di una finestra. Un’ombra apparve su una parete verdolina di un appartamento al primo piano, oppure immaginò soltanto una figura che si dileguava in una stanza. Qualche bambino da lontano, con la maglia del Boca e del San Lorenzo mescolate in un’unica festa, tirava calci a una palla, che andava storta e procedeva a balzelloni.

Il cielo gli parve viola e poi giallo, arancione, e poi bianco. Aveva chiuso gli occhi anche lui, per vedere meglio quella palla che ruzzolava nell’aria, per sentire meglio la voce di Macedonio, che continuava a parlottare lanciando una frase ogni tanto nel vuoto, come un ubriaco troppo sobrio.

  Avrebbe voluto dare ancora qualche suggerimento alla notte, indurla a farsi carpire, guidare verso un altro luogo. Perché lo accompagnasse dovunque, dove lui sarebbe voluto andare. Posti che non sapeva, che non conosceva ancora. Luoghi della memoria forse, o di un’altra vita. Magari di quella che sarebbe potuta essere proprio la sua, se nella sua non ci fossero stati le circostanze e le situazioni specifiche, i fatti e gli accidenti solitamente attribuiti al caso. E poi il suo carattere, la sua vena di tristezza, una specie di accidia che aveva, il lavoro del niente, della tenace vanità che aspettava ogni gesto al varco, non appena lui si fosse distratto, non appena avesse lasciato la presa di quella cosa misteriosa e lontana che gli sembrava ora la vita.

  Borges si era risvegliato e a tratti diceva sommessamente qualcosa. Macedonio ora taceva, ascoltava i suoi silenzi. Quei due gli parevano  bambini cresciuti all’improvviso, rapiti dai loro pensieri in comune, fatti in parte di sonno, dal non aver fretta di esistere. Le loro voci gli facevano compagnia. Erano voci che non volevano farsi sentire, che sapevano d’essere ascoltate. Quando si sa d’essere ascoltati la voce è diversa, non si aspetta nulla, non vuole raggiungere nessuno. Non si cura nemmeno dell’esistenza di chi parla, di chi sia a parlare, perché è già in ascolto della propria eco che culla e desta, incuriosisce e sorprende. Chi parla non conta, ascolta la propria voce senza accorgersi di parlare, come se fosse quella di un altro, di un interlocutore segreto con i piedi sospesi a mezz’aria, le gambe troppo corte per toccare terra che dondolano nel vuoto come quelle dei bambini quando vogliono sentire di poter correre e saltare.

Macedonio si portò due dita alla tempia, in un momento di concentrazione. Borges si allungò un po’ contro lo schienale, distendendo le gambe e aggiustandosi distrattamente la cravatta. Poteva ancora scorgere la figura dell’amico avvolta in un alone opaco. In quel loro silenzio sembrava che assaporassero il loro quasi non pensare, come se fossero sul punto di svanire.

Poi ci furono degli urli, delle grida dei bambini che continuavano a giocare nella luce dei lampioni, una discussione, forse un litigio, ma poco dopo la palla ricominciò a correre e rotolare. A un certo punto un calcio troppo forte la inviò nella direzione sbagliata, tanto che sbaragliò tutto quanto si trovava sul loro tavolino. Bicchieri, bottiglie e piattini, che per quanto piatti non riuscirono a evitare l’impatto. Ci fu un gran fragore di vetri e cocci. Subito dopo, un ragazzino accaldato, con un ciuffo nero appiccicato sulla fronte come una piccola luna, fu inviato a riprendere il pallone. Per afferrarlo protese le mani di slancio verso Macedonio, che nel frattempo lo aveva raccolto al volo dopo che era rimbalzato sulla schiena di un altro signore lì vicino. Il signore si era voltato, e poi aveva fatto un cenno d’intesa, rigirandosi subito a conversare con gli amici.

Borges aveva avuto un debole sussulto e aveva stretto tra le mani i braccioli della sua sedia con una forza nuova. Il bambino, con tutt’e due le mani e con una forza anche maggiore, s'impossessò della palla e pronunciando un “grazie” energico sorrise, guardando con un lieto ardore Macedonio, che era quasi restio a lasciarlo andar via. Ma il bambino gli aveva strappato la palla dalle mani con quel sorriso vittorioso, si era subito voltato ed era corso a giocare con i suoi compagni, che erano rimasti sotto i lampioni a osservare la scena da lontano, respirando piano per vedere meglio cosa sarebbe successo, preoccupati forse di dover riparare i danni procurati, di essere cacciati o rimproverati dal cameriere. Ma nessuno di quei signori si arrabbiò, e nemmeno il cameriere venne a rimproverarli: si limitò a spazzare e a ripulire, poco dopo, senza commentare.

“La palla – disse Borges – proprio per la sua forma sferica, e quindi perfetta, è difficile prevedere dove andrà a finire e pare indifferente al proprio destino. Forse per questo pare assecondarne uno assoluto e celeste.”.

“Una palla ha una sua rotondità superba” – rispose Macedonio – “ma è pur sempre un poliedro camuffato. Noi non possiamo scorgerne gli angoli e gli spigoli, ma di certo ne ha di rilevanti e decisivi. Quanto basta per spiegare, a prescindere dal terreno accidentato, l’apparenza del caso”.