Dopo la vita

   Quella domenica un lieve tintinnio lo risvegliò più tardi del solito, quando con sua grande sorpresa scorse la sua faccia nello specchio del bagno. Lo spazzolino da denti stava urtando contro i bordi del bicchiere di vetro, come per l’eco attutito di un esile terremoto. Il suo viso gli parve sconosciuto e lui pensò di essere già morto. Fermò lo spazzolino con una mano e poi, con un gesto lento, ripercorrendo un movimento consueto come se fosse del tutto insensato, se lo portò alla bocca, iniziando a farlo oscillare avanti e indietro contro i suoi denti. Quando li mostrò allo specchio li parvero molto bianchi, come nuovi.
   Quello doveva essere proprio il sorriso di chi era già morto, di un visitatore sconosciuto del suo bagno. Gli sorrideva con tranquillità, senza nulla pretendere da lui, senza porre domande. Aveva l’espressione di chi si trova perfettamente a suo agio al suo posto e di chi sa cosa ci sta a fare. Forse anche lui era atteso da una giornata nuova, annunciata dal riflesso di luce che gli sorrideva da un angolo basso, a destra, dello specchio. La giornata che l’attendeva era nuova come quel raggio di luce, che filtrando dalle imposte socchiuse annunciava bel tempo. Una luce limpida e obliqua, non abituale, sicura di sé. Una luce certa di raggiungere ovunque il suo obiettivo.

 

    Raccolse con una mano un po’ d’acqua dal filo che sgorgava liscio dal rubinetto e si bagnò il viso. Poi se lo asciugò, premendo la soffice stoffa di spugna azzurra contro gli occhi chiusi. Quando li riaprì il visitatore era ancora al suo posto, davanti a lui, con la stessa espressione tranquilla e, così gli parve, sorpresa di vederlo. Allora abbassò lo sguardo, quasi imbarazzato: si voltò e con passi lenti raggiunse la sua camera dove, soprappensiero, iniziò a vestirsi.
   Prima di oltrepassare la soglia, prima di uscire di casa, si fermò a guardare per un istante la sala d’ingresso, dove ogni cosa era al suo posto, nel discreto disordine di ogni giorno.  Discesi gli scalini antistanti il portone si diresse verso il solito bar dove faceva colazione ogni volta che non aveva voglia di prepararsi un caffè. Nessuno, in strada, mostrava di accorgersi della sua presenza. Le persone sembravano distratte, o troppo concentrate su qualcosa, intente a raggiungere una destinazione.

   Una volta entrato nel bar ordinò una caffè e una brioscia. Affondò i denti nella sua pasta morbida, che nella sua bocca ebbe un sapore di ciclamino, gli parve, sebbene i ciclamini non li avesse mai assaggiati. Anche il caffè non aveva il solito sapore, il suo gusto era dolce e fruttato, e il mezzo cucchiaino che ci aveva messo dentro non poteva giustificare questa impressione. 

   Uscì di nuovo in strada e gli parve strano di riuscire a camminare. Si chiese persino come facesse a mettere le gambe una davanti all’altra con tanta dimestichezza, ma rinunciò subito a fornire una spiegazione. Tutto, intorno a lui, nonostante la bella giornata, aveva i contorni sfumati del sogno. La sua vita, soprattutto, gli era perfettamente estranea, non gli apparteneva più. Si sentiva come un ospite provvisorio del suo corpo, che curiosamente continuava a muoversi come se non fosse successo nulla. E in effetti qualcosa come un nulla doveva essere successo davvero, qualcosa come un annichilamento improvviso di tutto il suo essere, che aveva tutta l’aria di essere trasvolato altrove. Nemmeno i piccoli doloretti che sentiva da qualche tempo alla spalla sinistra sembravano più suoi. Nemmeno quella voglia di starnutire che sopraggiunse a un certo punto della sua passeggiata, tanto è vero che scomparve dopo pochi istanti.
   Si fermò davanti a una vetrina di elettrodomestici e tutti quelli oggetti gli parvero buffi, cose portate da un pianeta misterioso. I televisori erano pieni d’immagini che si succedevano rapidamente una dopo l’altra, suggerendo l’idea dello scorrere del tempo, di un tempo in cui non era coinvolto. Si mosse di qualche passo e sostò davanti ad un’edicola, dove un’anziana signora stava acquistando il giornale. Le sue piccole mani esitanti presero delicatamente qualche spicciolo dal borsellino, dopo avervi rovistato un po’, e poi, sempre delicatamente, li posò su una rivista molto colorata che si trovava all’altezza del suo viso e oltre la quale si trovava quello dell’edicolante, una persona per lui familiare, che anche quel giorno gli parve tranquilla e cortese. Questi prese le monetine una ad una, con la stessa delicatezza con cui gli erano state consegnate, porse il giornale alla signora e la salutò con un sorriso cordiale, al quale lei rispose con un sorriso altrettanto cordiale. Poi l’edicolante fermò il suo sguardo su di lui, con un’espressione interrogativa e, gli parve, un po’ sorpresa, come se si domandasse cosa ci facesse lì, come potesse trovarsi proprio lì davanti a lui.  


- Buongiorno, come sta? – gli chiese.  

   A lui quella domanda parve inopportuna e provò di nuovo un certo imbarazzo. Non era affatto sicuro di poter fornire una risposta sincera, perché non stava in nessun modo determinato.

-  Bene, grazie – rispose laconicamente.

   L’edicolante gli porse il solito giornale e lui depose i soldi sulla stessa rivista colorata sulla quale li aveva lasciati l’anziana signora. Quindi salutò, e in quel momento ebbe di nuovo l’impressione che l’edicolante lo osservasse con un’espressione incredula.
   Continuò la sua passeggiata fino ai giardini, che si trovavano a tre isolati di distanza. Qui si sedette su una panchina e incominciò a leggere il giornale. Ma quasi subito alzò gli occhi: sulla panchina che si trovava quasi davanti alla sua, un’anziana coppia stava seduta in silenzio. Entrambi, l’uomo e la donna, guardavano due punti indefiniti tra gli alberi del parco. Anche se avevano un’espressione seria, a lui parve che fossero sul punto di sorridere.
   Poco distante, su un’altra panchina, accanto a una camelia rigogliosa, una ragazza stava leggendo un libro. Aveva i capelli castani e con le dita di una mano se li aggiustava dietro un orecchio. Gli parve carina e rimase a fissarla per qualche istante. Poi riabbassò la testa sul giornale e iniziò a scorrere qualche titolo. Nessuna notizia provocava in lui qualche interesse. Gli avvenimenti del mondo gli sembravano remoti, il mondo non il suo, ma questa impressione, con sua sorpresa, non lo sorprese affatto, e gli confermò piuttosto quanto lo aveva colpito al suo risveglio in modo del tutto naturale, quando si era trovato di fronte a un’immagine in cui non si riconosceva.
   Sollevò lo sguardo davanti a sé: l’anziana coppia era ancora al suo posto, nella stessa posizione di prima. I loro sguardi non avevano una direzione precisa, anche se ora sembravano entrambi orientati verso una grande quercia poco distante. La ragazza invece stava scrivendo qualcosa su un foglio, appoggiandolo al libro richiuso. Alcuni uccellini cantavano sui rami degli alberi; uno, in particolare, sembrava animato da una vivace euforia, da una certa voglia di strafare. La ragazza continuò a scrivere per un po’, ma ad un certo punto piegò il foglio e lo ripose dentro una busta, che poi appoggiò sulla panchina. Quindi riprese la lettura del suo libro, continuando a tormentarsi un ricciolo dei capelli con un’espressione assorta.

    Come poteva essere morto senza accorgersi della sua morte? – pensò subito dopo essere rimasto per qualche istante ad osservarla soprappensiero; ma gli parve subito una domanda stupida, perché in effetti nessuno può sapere di essere morto. In fondo si trattava di una situazione che in qualche modo poteva prevedere e che comunque non lo stupiva. Le altre notizie del giornale avevano un aspetto piuttosto stantio: forse anche per questo non lo interessavano. Le previsioni del tempo, inoltre, non parevano corrette, perché il cielo non si stava affatto rannuvolando, così come invece annunciavano. Mentre osservava il suo azzurro limpido ebbe l’impressione di avere fame, ma anche questa gli parve una sensazione astratta e remota, oltre che poco verosimile, che sarebbe stato insensato voler assecondare. D’altra parte, quella briosce gli era piaciuta, ma proprio quando stava valutando la possibilità di prenderne un'altra fermandosi di nuovo al bar lungo la strada verso casa, vide la ragazza alzarsi in piedi e allontanarsi rapidamente.

   Fu in quel momento che ebbe l’impressione di conoscerla, tanto che provò un certo dispiacere che se ne fosse andata così, senza nemmeno un cenno di saluto. Aveva un modo di camminare leggero e simpatico, un po’ saltellante, e con qualche saltuario e repentino rallentamento. I suoi capelli oscillavano leggermente ricadendo compatti sulle sue spalle ad ogni passo. Era piacevole osservarla senza essere visti, e con la curiosa certezza di conoscerla bene.

   Mentre la guardava allontanarsi, però, si sentì a sua volta osservato. Allora volse la testa leggermente di lato e quanto vide lo lasciò questa volta davvero stupito, gli procurò un’emozione fresca e piena come quelle che gli capitava di provare nell’infanzia. Un animaletto volante, di colore bianco, ma venato di azzurro e di rosa, della consistenza di una piccola nube, ma un po’ più solido, quasi come un peluche, stava sospeso nell’aria a poche decine di centimetri dai suoi occhi movendosi in un modo quasi ammiccante, come dondolando leggermente sul proprio asse, dando l’impressione di cercare un contatto. Dopo qualche istante di esitazione, lui provò ad allungare una mano per poterlo toccare, ma l’animaletto ne schivò con garbo il movimento prensile, per poi subito avvicinarsi di nuovo, in una maniera vagamente dispettosa, ma gentile e aggraziata. Aveva due orecchie che funzionavano quasi da ali, i movimenti oscillanti e sospesi di un cavalluccio marino e si muoveva nei suoi filamenti nebulosi, come portato dalla piccola nube bianca che lo avvolgeva e su cui pareva appoggiare la sua figura.

   Quel curioso animaletto bianco gli stava vicino e gli girava intorno con l’aria di non volerlo abbandonare, tant’è vero che, poco dopo, quando lui si decise ad alzarsi, anche per vedere cosa avrebbe fatto, lo seguì ad una certa distanza. Ma pochi metri dopo essersi incamminato verso casa, gettando un’occhiata alla panchina dove poco prima stava seduta la ragazza, si accorse che c’era ancora quella busta, non chiusa e non intestata. Allora andò a prenderla, come se fosse certo che gli fosse destinata. Quindi l’aprì, facendo attenzione a non strapparla. Si trattava in effetti di una lettera, scritta con una grafia fine e appena arcuata. Lì in piedi, ancora davanti alla panchina, lesse soltanto le prime righe, che avanzavano una richiesta di perdono.
La convinzione che quella lettera gli fosse destinata non vacillò in lui nemmeno un istante, e questo lo colpì, ma anche lo indusse a rinviarne la lettura completa a quando fosse stato a casa. Così la ripose nella busta e, dopo averla richiusa con cura, se la mise in tasca e riprese a camminare. L’animaletto bianco continuava a seguirlo sospeso nell’aria, a pochi metri dalla sua testa, e sembrava voler controllare ogni suo movimento. Se si fermava, anche quello si fermava poco distante, conservando sempre il suo lieve movimento oscillatorio, come se annuisse danzando di fronte a qualcosa che lo riguardava. Si potevano quasi intuire i suoi occhietti vispi nel bianco vaporoso della testa, e anche la linea della bocca, il che lasciava presagire che fosse in grado di respirare, e forse anche di parlare.

   Quando giunse in prossimità del suo appartamento si voltò un’ultima volta all’indietro e l’animaletto era sempre lì, dietro di lui, ma subito lo sopravanzò, come se sapesse che il portone di casa sua si trovava poco più avanti. Infatti risalì volando e dondolando i tre gradini che conducevano sul pianerottolo e lo aspettò, assumendo un’espressione che gli parve piuttosto impaziente. Deciso a non dare troppa importanza alla cosa, lui gli si affiancò, aprì la porta e attese all’interno qualche istante per vedere se fosse entrato, cosa che la bestiola volante fece in men che non si dica, incominciando poi subito a perlustrare la casa a destra e a manca, come se volesse scoprirne gli angoli più riposti e ne riconoscesse gli odori.

   Dopo aver richiuso la porta rimase ad osservarlo. A dire il vero, non sembrava curarsi troppo della sua presenza. Vagava e volava per la stanza con un’espressione incuriosita e leggera. Poi si diresse in camera da letto, dove si affrettò a seguirlo, ma proprio quando stava per entrarvi anche lui, l’animaletto ne uscì a gran velocità, passandogli abbastanza vicino da sfiorargli il viso e in quel momento gli parve di sentirne l’odore, un profumo di ciclamino, o di cielo freddo, la lieve brezza profumata di una notte invernale, come una breve ondata di aria tersa, fredda e profumata che non riuscì meglio a decifrare. Questa fu la sola forma di contatto: per il resto, la bestiola continuava a perlustrare le pareti e ad osservare i quadri a distanza ravvicinata col suo movimento oscillatorio, senza manifestare un qualche specifico interesse nei suoi confronti.

   Chissà perché, in quel momento si ricordò della lettera. La prese dalla tasca e si sedette in poltrona per leggerla con calma. Dopo quell’iniziale richiesta di perdono rimase colpito da qualche frase: che “al centro dell’anima si deve pur sempre tornare”, e che “nella vita è impossibile, per chiunque, non avere mai incontrato questo centro: per una sorta di legge arcana esso deve aver almeno una volta incrociato l’esistenza di ognuno, per cui il non averlo riconosciuto può costituire l’indizio di una colpa fatale”.

   Poi Giulia - così si firmava la ragazza, e quel nome lo fece sussultare senza che gli fosse possibile capire perché – parlava nella lettera dell’ultima giornata che avevano passato insieme e in cui avevano fatto all’amore. Fu qualche giorno dopo quella notte che successe qualcosa di cui non riusciva ancora a rendersi conto, qualcosa come un travisamento, un errore dovuto a quello che lei definiva come l’effetto di una paura sottile e insieme di una colpa indecifrata, qualcosa che le suggerì di fuggire, di non dare seguito alla cosa, una sfiducia profonda nella possibilità di essere felice, una paura cieca della felicità in quanto tale, o meglio, del non saper trasformare in felicità tutto quanto era sul punto di diventarlo nel modo più pieno e più semplice. La paura essenziale di non saper trasformare un istante in eternità, la paura di non poter rendere eterno un istante. Questa paura era stata alimentata dall’impressione che lui fosse una sorta di “ospite della vita” – così scriveva – “un essere disancorato, che non poteva attaccarsi a nulla per una qualche decisione, ma solo per una naturale adesione al sentire di un’altra persona e al suo mondo sospeso” , e questa impressione aveva rafforzato quella paura, anche se poi si era accorta che lo aveva amato proprio per questo, “per l’assoluta gratuità e leggerezza di ogni momento che avevano trascorso insieme, per la possibilità di essere felici accanto per tante piccole cose senza importanza”. La ragazza raccontava anche di quando, con la testa appoggiata sul suo petto, fingeva di dormire per farsi cullare dal battito del suo cuore e dal suo respiro, fino a quando poi non si addormentava davvero, con la sensazione di essere di essere abbracciata dal cielo. Poi la lettera si chiudeva in modo imprevisto, dicendo che lei sarebbe stata al solito posto, nello stesso luogo indefinito in cui la tiepida luce del sole, come quel giorno nel parco, pareva tenere sospesi il ramo e le foglie che oscillavano sopra le loro teste e che lì sarebbe sempre rimasta, accanto alla stessa felicità che gli aveva letto negli occhi.

   Dopo aver fissato per qualche istante la lettera senza ricordare niente di tutto ciò, ma senza che venisse meno la sua convinzione che quella lettera fosse diretta proprio a lui, se la rimise in tasca. L’animaletto, nel frattempo, si era andato a collocare nel centro della sua poltrona preferita e aveva tutta l’aria di sonnecchiare. Con il capo reclinato su una sporgenza della nube da cui lui stesso prendeva forma, trasformata per l’occasione in una specie di cuscino, respirava con ritmo regolare, gonfiando il petto e sgonfiandolo subito dopo. Tra ogni inspirazione e ogni espirazione si accorse che c’era qualche istante di sospensione, in cui il respiro pareva cessato. Quando espirava qualche filamento di nube si scuoteva e tremava davanti al disegno probabile della sua bocca. Gli parve, in quel momento, un fagotto di neve caduta sulla sua vita tutt’intera, una neve che si era raccolta su di essa per un sussulto d’oblio, per indurlo a dimenticare la vita stessa o non si sa cosa nella vita, forse per cancellare un dolore antico e remoto, per ripulirla, rinfrescarla e concederle un principio nuovo.

   Ma di nuovi principi non riusciva ad intravederne alcuno: solo la sua assenza, la sua momentanea condizione di ospite impalpabile della sua stessa vita riusciva a conferire alla sua quasi esistenza un alone nuovo. Ecco, proprio quella espressione sembrava cogliere un tratto essenziale della sua condizione: lui era un “quasi esistente”, una specie di puro spirito in carne e ossa, ma in cui la carne e le ossa percepivano la loro vita con una debole coscienza, come nella penombra di un dormiveglia in cui tutte le cose hanno contorni e colori ovattati e sembrano entrare e uscire incessantemente da un sogno.

  Cosa rimaneva di quella che era stata la sua vita reale? Quale memoria lo legava a ciò che era stato? Solo un esile filo fatto d’immagini visive e sonore, una vaga traccia olfattiva, qualche sapore riconosciuto, la nostalgia di un dolore antico e arcano, la percezione talora nitida del colore del cielo, i profili e le espressioni dei volti che incontrava per strada. Nulla gli era distintamente noto e tuttavia ogni viso aveva un’aria familiare, l’inclinazione a un misterioso sorriso, un certo garbo e una certa grazia che accompagnavano i loro sguardi, anche quelli più accigliati o assenti.

   L’animaletto continuava a dormire con la sua piccola faccia beata, sempre più ripiegato nella sua poltrona. La nube che ne costituiva il corpo centrale si era dilatata e appiattita sul cuscino contro lo schienale e su di esso sporgeva come un cucuzzolo la sua espressione soddisfatta e leggera, quasi fosse divertito da un sogno. Non emetteva suoni o rumori, ma a lui, che lo osservava respirando piano, pareva di percepirne il sorriso segreto. Il sogno doveva essere effettivamente esilarante, perché quel sorriso si fece reale e a poco a poco sempre più marcato, fino a divenire un riso irrefrenabile, una smorfia di divertimento straripato, il singulto e lo spasmo dello stesso divertimento di Dio al cospetto della sua sofferente o gioiosa creatura. Perché la nebulosa bestiola doveva essere proprio così, un messaggero, un angelo di rassegnazione, un portiere sull’ingresso dell’infinito, l’ammiraglio dell’ultimo viaggio, quello da cui non si può più tornare, ma in cui si può in qualche modo continuare a sognare.
Con ogni probabilità sognava altri angeli come lui, d’indole allegra e curiosa come lui, che forse era stato un giorno un vivente e se ne era andato senza rimpianti, ma con molta nostalgia, con una immutata voglia di vivere e di allegria. La sua faccia esprimeva ora la sua curiosità bambina e quando una mosca gli sfiorò una rosea protuberanza a forma di naso nebuloso lo arricciò proprio come un bambino colto da un repentino desiderio di starnutire.

   L’animaletto non apparteneva a nessuno ed era perfettamente solo. La sua solitudine emanava un lamento silenzioso, forse i sensi di un languido risveglio, ma soprattutto annunciava una condizione opposta, quella per cui nessuno può essere mai davvero solo per il semplice fatto che respira e che il respiro unisce ogni essere vivente in un’unica dimensione, nello stesso gesto vitale complessivo. Il respiro è proprio la memoria di essere una cosa sola, la stessa memoria che si manifesta in ogni sentimento provato all’unisono, per l’appartenenza al mondo che siamo, per un’essenziale mancanza di distinzione tra noi e gli altri. In ogni gioia e in ogni dolore, ogni volta che un’anima risuona e vibra in un’altra, lì si conserva la stessa memoria di Dio, l’epicentro del suo sguardo. L’animaletto era solo come chiunque altro, ma a differenza di ogni altro aveva oltrepassato la porta stretta che conduce dalla solitudine alla vita. La memoria di Dio sembrava aver assunto in lui una forma scherzosa, forse persino dispettosa, ma tutto sommato non irridente, e proprio perché era perfettamente unico e solo doveva essere prossimo a chiunque, un caso esemplare e incontaminato di una specie estinta, e tuttavia immortale.

   L’animaletto era però anche un’immagine di leggerezza, di quella stessa leggerezza, nuova di zecca, che derivava a lui – che continuava ad osservare la nebulosa bestiola con uno sguardo un po’ incredulo - dall’essere già morto, circostanza che lo rendeva vivo come non gli sembrava di essere mai stato. Era una leggerezza strana, che ogni tanto gli faceva quasi girare la testa e che era connessa con la sua assenza, col fatto che, sebbene alcuni sembrassero riconoscerlo per strada, nessuno sembrava considerarlo veramente attuale, in uno spazio e in un tempo precisi, ovvero in quelli in cui sembrava trovarsi.
   Proprio mentre contemplava l’animaletto nel pieno del suo sonno placido e un po’ irriverente, sentì suonare il campanello. Appena infastidito dallo squillo, l’animaletto socchiuse uno dei suoi occhi presunti e si voltò su un fianco, mentre lui, dopo aver preso atto che il suo vaporoso ospite aveva un udito, si diresse ad aprire la porta.
Si trovò davanti un vecchio signore, con un abito elegante, un ombrello (che contrastava apertamente con la giornata di sole) e un cappello, che sollevò subito in un gesto di saluto.

-  Buona sera – disse il signore – lei non mi conosce, ma devo riferirle una comunicazione con una certa urgenza… posso entrare?

-    Certo… buona sera… si accomodi – rispose lui con la cortesia che gli era congeniale, senza fare caso al fatto che non si fosse nemmeno presentato. Il signore entrò nella sala d’ingresso tenendo il cappello in una mano e andò a sedersi nella poltrona accanto a quella dove l’animaletto continuava a sonnecchiare con un occhio aperto, con il quale seguì per qualche istante le mosse del distinto signore.
-    Ebbene… prima di tutto, le riferirò il motivo della mia visita… dunque… ehm… sono venuto a comunicarle che lei è stato trattenuto – disse il signore con un tono schietto e leggermente solenne.
- Trattenuto? – interrogò lui a bassa voce, restando in piedi e scrutandolo senza capire.

-    Esatto… trattenuto – ribadì il signore appoggiando entrambe le mani sul manico dell’ombrello.

-    In che senso sarei stato trattenuto? – chiese trovando comunque quell’espressione abbastanza pertinente al proprio stato.

-    Vede, lei… come del resto tutti quelli che a un certo punto della vita sono stati avvolti dal dolore bianco…

-   Dal dolore bianco? - lo interruppe stupito.
-  Sì… il dolore bianco non ha un’origine precisa, è in pratica privo di contenuto, e scaturisce da una sedimentazione di altri dolori precedenti in una massa compatta e amorfa, che emana un alone biancastro sull’esistenza collocandola ad una distanza indefinita da se stessa. Le persone che ne sono colpite, talora in maniera assai repentina, vengono a trovarsi nell’impossibilità di fare una certa cosa... quella certa cosa che ciascuno deve fare nella vita perché questa possa considerarsi conclusa… tutti infatti, anche lei, ci sentiamo legati a qualcosa, ma ciò che ci lega di più, il legame più solido e inafferrabile, è quello che abbiamo con una cosa in particolare che dobbiamo fare, che ciascuno deve fare… e che chi è colpito dal dolore bianco non è più in grado di fare… ebbene, quando questa cosa non è stata ancora fatta si viene trattenuti…

- Quindi io sarei pervaso da questo dolore bianco… e come faccio a sapere qual è la cosa che dovrei fare – chiese ancora trovando quell’aggettivo particolarmente appropriato all’unico dolore di cui aveva memoria.

- Questo, purtroppo non ci è dato ancora saperlo… evidentemente c’è qualcosa che lei deve fare, se è stato trattenuto, ma né lei né io lo sappiamo… in genere tutti, al momento dell’ultimo viaggio, prima della dipartita finale, hanno fatto sempre quella certa cosa che dà un senso alla loro vita, il senso richiesto per partecipare al gioco, ma quando quella cosa non è stata fatta bisogna aspettare… non si può dire quanto, certo fino a quando non sia stata fatta… 

- Ma come si fa a farla se non la si conosce?

- Giovanotto… forse lei crede che le cose importanti della nostra vita siano solo quelle che ritenevamo tali prima di farle? Non le pare che in molti casi, se non nella maggior parte dei casi, le cose più rilevanti ci sia capitato di poterle fare quando meno ce l’aspettavamo? …Comunque, in genere, ci sono degli indizi… come sempre del resto, e si viene messi in condizione di farla così da poter poi prendere congedo…. ma qualora non venga fatta, qualora l’occasione non venga sfruttata, allora bisogna aspettare la successiva. I trattenuti, vede, godono del privilegio di poter sempre usufruire di un’occasione successiva, almeno fino a quando non sapranno coglierla, ma nella vita questo non è concesso, come lei sa bene, perché si ha a che fare con una serie d’istanti irreversibili. Comunque, nell’attesa, per i trattenuti è particolarmente importante è imparare a intrattenersi con la vita, perché solo diventando abili in questo esercizio saranno in grado di cogliere l’occasione…

-Intrattenersi con la vita?!

- Sì, imparare a coglierne le intenzioni nel momento nascente, a scorgerla nelle pieghe riposte in cui si annida, a percepirne le manifestazioni più segrete fino a coincidere con esse, proprio come se noi non ci fossimo più, o non fossimo addirittura mai nati, atteggiamento questo che del resto i trattenuti sono già predisposti ad adottare. Perciò sia fiducioso – aggiunse il signore mentre si alzava in piedi dando segno di voler prendere congedo – vedrà che tra non molto le si presenterà l’occasione… e magari lì per lì non ci farà nemmeno caso… anche perché i trattenuti possono essere messi in condizione di fare ciò che devono solo da altri trattenuti, e questi non sono facilmente riconoscibili…

- Dunque la saluto… - continuò - è stato un piacere incontrarla di persona… e mi raccomando, non abbia fretta… la fretta allontana ogni evento significativo… e si ricordi che tutto passa da ogni singolo solitario istante, che anche solo in uno soltanto può trascorrere tutta la vita… e quindi non si preoccupi… anche perché, in definitiva – concluse sorridendo e porgendogli la mano - nella sua condizione non ce la si passa poi così male…

   Dopo aver oltrepassato la soglia e superato il cancello l’uomo svoltò lungo il marciapiede e lui rimase per qualche istante ad osservarne l’incedere elegante e distinto, scandito dal movimento dell’ombrello che accompagnava i suoi passi. Richiuse la porta con un’espressione interdetta e andò verso la cucina, deciso a prepararsi un tè. Passando accanto alla poltrona, ebbe il sospetto che l’animaletto gli avesse gettato una rapida sbirciata con un occhio semichiuso, ma non ci fece troppo caso. Dopo un’attesa durante la quale non si destò in lui il benché minimo pensiero, si versò il tè in una tazza: il suo sapore gli parve inaspettatamente buono, anche perché, di solito, il sapore del tè lo lasciava del tutto indifferente. Ma questa volta aveva un retrogusto variegato e persistente: lo sorseggiò lentamente facendo attenzione al suo sapore, centellinandone la deglutizione, e pensò anche di offrirne un po’ al suo ormai convivente, che ora sembrava si stesse stirando.  Quindi, trascorse una serata del tutto normale. Guardò un po’ la televisione e poi andò in camera a continuare la lettura di un romanzo che procedeva stancamente. L’animaletto, in un primo momento, sembrò volerlo seguire, ma dopo essersi fermato qualche istante sulla soglia della porta di camera tornò indietro, probabilmente per andare a recuperare la sua posizione sulla poltrona.

   Lui invece dormì male, svegliandosi e riaddormentandosi più volte, ma senza perdere mai del tutto un barlume di coscienza. Il giorno successivo non uscì nemmeno di casa e si dimenticò persino di pranzare: non trovò la forza di fare nulla e trascorse la mattinata e buona parte del pomeriggio a cercare di dormire, agitandosi in un dormiveglia gremito di sogni di cui poi non riusciva ad avere ricordi distinti. Ogni tanto scorgeva la testolina dell’animaletto appollaiato ai piedi del letto, che sembrava scrutarlo con attenzione, oppure appostato alla finestra a guardare fuori la gente per strada con un’espressione malinconica e perplessa. Durante quel dormiveglia ripensò confusamente al contenuto della lettera, e a quell’espressione, “ospite della vita”, che ora trovava stranamente pertinente alla sua condizione. Forse grazie alla sua morte apparente si era realizzata compiutamente proprio quella condizione che lo caratterizzava nel modo più autentico... e trovò appropriato anche quanto aveva detto quel misterioso signore… quel “dolore bianco” di cui aveva parlato doveva averlo attraversato e si ricordò in un attimo di ciò che doveva essere stato, di quell’impalpabile senso di prossimità per ogni cosa viva, insieme alla consapevolezza di una distanza irriducibile, come se la sua presenza nel mondo gli fosse sempre segretamente apparsa come il ricordo vago di un sogno.

   Anche la notte successiva, dopo un’esigua cena costituita da qualche noce e due foglie d’insalata, all’inizio non fu delle più tranquille, ma poi riuscì ad addormentarsi e al mattino si sentì ritemprato. Si alzò con un certo slancio e si recò nel bagno, dove l’immagine nello specchio continuava a fissarlo come un estraneo. Compì in fretta le sue abluzioni mattutine, si fece la barba e quasi si precipitò fuori di casa per raggiungere il solito bar, già pregustando la solita briosce. L’animaletto naturalmente lo seguì anche all’interno e fece una rapida trasvolata sopra le paste esposte nelle vetrinette e sul bancone, deliziandosi manifestamente dei loro aromi. Quando uscirono gli parve particolarmente allegro, perché volava con un’andatura euritmica e festosa.

   Una volta di fronte all’edicolante, che gli gettò la stessa occhiata incredula, acquistò il giornale nuovo e iniziando a sfogliarlo per strada si diresse verso solita panchina. Mentre si sedeva non poté però fare a meno di notare, esattamente dove l’aveva vista due giorni prima, la stessa ragazza che sembrava cercare qualcosa per terra e lui pensò subito che si trattasse della lettera di cui si era appropriato. Poiché l’aveva riposta nella tasca della giacca, si avvicinò a lei con l’intenzione di riconsegnargliela.

- È questa che sta cercando? – le chiese.

Dopo un attimo di perplessità lei si alzò in piedi e la riconobbe: - sì, grazie… ma come…

- L’ho trovata qui l’altra mattina, dopo che se ne era andata… la busta era aperta…

- E così l’ha letta… non doveva… - disse la ragazza con una smorfia di fastidio repentino e un occhio che si era fatto più grande e accigliato per una subitanea irritazione.

-Mi dispiace… sì, l’ho letta…

- Perché? – chiese la ragazza fermamente, guardandolo irrigidita. Rimase per qualche istante così in piedi davanti a lui, con una fossetta particolarmente pronunciata su una guancia e una ruga che si era fatta più profonda lungo il viso, fino a quando non distolse lo sguardo pungente degli occhi dai suoi mentre si sedeva per controllare il contenuto della lettera.

- Non lo so… forse semplicemente per curiosità – rispose con un certo ritardo, sedendosi accanto a lei.


   La ragazza rilesse rapidamente qualche riga e poi ripiegò lentamente i fogli nella busta.

- Perché a un certo punto è scappata? Che cosa è successo? – chiese lui senza ormai temere di apparire indiscreto; ma lei non rispose, e abbassò lo sguardo sul selciato, restando in silenzio.
- Bene, allora riformulerò la domanda… perché Giulia te ne sei andata… era successo qualcosa di così grave? – e mentre scandiva deliberatamente il suo nome questo gli parve ancor più familiare, tanto da procurargli un senso di vuoto freddo alla bocca dello stomaco.
- No, non mi va di parlarne – rispose lei continuando a guardare per terra e senza assecondare il suo tono più confidenziale – e poi vorrei sapere perché le interessa tanto saperlo… e perché dovrei dirglielo… e chi l’ha autorizzata a leggere la mia lettera…
Senza sentirsi minimamente spiazzato da quella domanda, rispose che l’aveva letta perché aveva avvertito che conteneva qualcosa che lo riguardava... e poi che anche in lei c’era qualcosa che lo riguardava.
- Come poteva riguardarla? – domandò bruscamente, ma con qualche incertezza nella voce.

- Non glielo saprei spiegare, ma è stata un’impressione piuttosto netta fin dall’inizio.

   Dopo qualche istante, durante il quale quella risposta le sembrò stranamente credibile, Giulia iniziò a raccontargli cosa era successo, quello che ora le pareva “il suo comportamento assurdo”, e tuttavia così caratteristico della sua vita fino ad allora. Ad un certo punto, proprio quando ormai erano decisi ad andare a vivere insieme e avevano già parlato di sposarsi, lei non si era fatta più trovare. Aveva addirittura cambiato casa e numero di telefono e non gli aveva comunicato i suoi nuovi recapiti. Non si era fatta trovare per mesi. Lui naturalmente l’aveva cercata, ma non c’era stato niente da fare. L’aveva cercata anche a casa dei genitori, che abitavano in un’altra città, ma loro non avevano potuto e voluto essergli di aiuto, perché gli aveva dato specifiche indicazioni di non fornirgli alcuna informazione. Aveva detto loro che si erano lasciati, tutto qui, senza spiegare, ma impartendo ordini perentori. Lui non aveva fatto assolutamente nulla, era stata una sua decisione improvvisa e basta.
-    O meglio – continuò poi la ragazza - qualche cosa lo avevo fatto io, prima, perché durante tutta la fase del nostro innamoramento mi ero comportata nel solito modo, sentendo il bisogno di mentirgli sulle più piccole cose, per depistarlo e forse metterlo alla prova come mi capitava di fare spesso all’inizio di ogni storia, per vedere se seguiva le mie tracce, fino a quando poi quello che sentivo non divenne chiaro e troppo evidente, quel desiderio di camuffarmi e depistarlo si eclissò e a quel punto fummo per un certo periodo molto felici, lo fummo cioè fino al mio nuovo attacco di panico e alla mia decisione di sparire…
-  E perché… che spiegazione ti sei data? – domandò lui. 
- Non lo so… - continuò Giulia fissando l’anziana coppia che era appena tornata a sedersi sulla panchina di fronte - ma all’improvviso quella felicità mi è parsa una cosa astratta e pericolosa, come se non potesse essermi destinata, e lui un essere quasi inafferrabile, non radicato nella vita, con uno strato di dolore imprecisato sullo sfondo che nessuno avrebbe potuto colmare e che quindi non aveva bisogno di ancore o legami, e perciò nemmeno di me, sebbene lo avessi visto davvero felice insieme a me… e così non mi sono fatta più trovare. Nei mesi successivi poi mi sono sempre sentita completamente vuota e senza consistenza, tanto che non mi rendevo nemmeno conto di star male, non mi accorgevo nemmeno di provare un vero dolore… fino a quando poi non c’è stato quell’incidente…


- Incidente?

- Sì, un piccolo incidente… credo di essere svenuta per strada, mentre guidavo, ma è strano perché non ricordo niente, so soltanto di essermi ritrovata con la macchina ammaccata contro un lampione, ma non ricordo nulla di come è successo… e dopo non ho più capito la mia paura, la paura che aveva fino allora dominato la mia vita, il sospetto che per noi fosse impossibile amarci in un modo compiuto, che io non fossi in grado di concentrare l’amore su di lui senza sentirmi appesa a un filo che poteva essere reciso dal vento…

- Forse per la paura di poter perdere tutto in un colpo solo… quando si ama davvero si rischia questo… e la cosa può terrorizzarci – disse lui quasi interrompendola, ma trovando le proprie parole astratte e troppo vaghe, un po’ fuori luogo, come spalmate sopra quello che avrebbe voluto dire, o che forse avrebbe voluto fare subito e con decisione.
   Giulia gli gettò una breve occhiata attenta, senza fare commenti: - non lo so, può darsi… e comunque dopo l’incidente ho deciso di scrivergli la lettera, senza avere poi il coraggio di spedirgliela, forse perché ormai anche lo spedire una lettera mi sembrava un’azione inutile… perché in realtà non si poteva fare più nulla… – disse poi abbassando lo sguardo verso i propri piedi, che in quel momento le parvero magri e distanti dal resto del corpo, due appendici estranee che la osservavano facendo capolino dalle scarpe basse, nere e scollate che incominciava a indossare ogni anno a tarda primavera.
   Proprio in quel momento, a quel punto della sua frase che era rimasta sospesa, l’animaletto passò velocemente sopra le loro teste inseguendo una farfalla e lui, cercando di non farsene accorgere, alzò appena lo sguardo seguendone il volo, che non sembrava riuscire a raggiungere il suo obiettivo. L’impressione di conoscere quella ragazza si riaffacciò allora in maniera più chiara, ma fu solo un attimo, non ci furono sviluppi per un prolungato silenzio. Poi lei si spiegò meglio, aggiungendo che aveva deciso di scrivere quella lettera solo quando aveva avvertito accanto a sé una presenza, qualcuno o qualcosa che l’aveva per sempre riconosciuta, l’esistenza da qualche parte di un testimone fedele della sua vita da cui si sentiva persino amata, nel modo più giusto, senza sapere nemmeno chi fosse. Questa presenza le aveva dato come la certezza di non essere sola… e proprio allora le era capitata una cosa ancora più incredibile di cui però non voleva parlare.
   Dopo si fece di nuovo silenziosa e incrociarono per qualche istante i loro sguardi, entrambi con un’espressione stupita e interrogativa, fino a quando lui non scorse con la coda dell’occhio di nuovo l’animaletto, che ora però non stava più inseguendo la sua farfalla, ma un altro animaletto con caratteristiche analoghe. Le due creature stavano volteggiando nell’aria sopra di loro e sembravano in grado di salire sempre più in alto. Anche Giulia guardò nella stessa direzione e fu palese la sua sorpresa nel vederle volteggiare nel cielo, insieme a qualche rondine e qualche piccione. Tornarono a guardarsi e restarono senza parole: un respiro rimase sospeso, un cuore non fece per un istante il suo dovere e rallentò all’improvviso la sua corsa. In quel preciso istante si riconobbero e seppero di essere gli stessi che erano sempre stati.

   Rimasero immobili per un tempo indefinito, fino a quando le loro mani si strinsero quasi involontariamente. Poi quella di lei si sollevò in un movimento lento e sfiorò il viso di lui con un’esitante carezza. Ci fu un abbraccio, cauto all’inizio, poi sempre più forte, quando le labbra di Giulia iniziarono a tremare e riuscirono a fermarsi solo in un bacio, breve come la vita e un lungo respiro. Subito dopo reclinò la testa sulla spalla di lui e una lacrima lenta le scivolò sopra una guancia, incanalandosi in quella piccola ruga leggera che adesso era quasi sparita. Ne era rimasta soltanto una lieve traccia, culminante nella fossetta che le spuntava sempre dietro un angolo della bocca ogni volta che sentiva arrivare una ventata di gioia.
Furono distratti solo dal passaggio rapido davanti a loro dei due animaletti, che dopo alcune evoluzioni nell’azzurro si allontanarono volando sempre più in alto, fino a quando di loro non rimase più nulla perché sparirono dentro una nube isolata e purpurea che si stagliava nel cielo verso il sole. Sulla camelia accanto alla panchina era sbocciato un unico fiore, bianco e appena dischiuso, che due giorni prima non c’era, e lui pensò che non sapeva di essere solo, perché quando si è soli non si può sapere di esserlo, che per saperlo bisogna essere almeno in due. Forse anche Giulia si era nascosta per tutto quel tempo in quel fiore ancora non ancora dischiuso, perché lui potesse ritrovarla, senza saperlo, nello stesso parco di allora, dov’erano stati felici. Si accorse che anche lei si era voltata a guardare quel fiore e fu in quello sguardo prolungato di entrambi, durante quella distrazione, che anche le loro immagini sulla panchina si dissolsero a poco a poco e rimase al loro posto solo una busta che sembrava addormentata, mentre sulla panchina di fronte l’anziana coppia continuava a fissare un punto remoto e imprecisato verso il cielo, oltre la grande quercia che distendeva la sua ombra mossa dal vento fino a lambire la loro figura.