Dove vanno Renzi e Calenda?
Qualche ipotesi intorno alle relazioni future di due possibili schieramenti politici
Qualche giorno fa, con una lettera appassionata in cui spiegava in modo circostanziato le ragioni della sua scelta, Carlo Calenda ha dato le dimissioni della direzione del PD. In questo modo ha rispettato l’impegno preso con tutti i cittadini e con tutti i componenti del partito democratico il giorno della sua iscrizione, traendone una logica conseguenza: la necessità di dare vita a quel partito di orientamento liberaldemocratico e riformista della cui presenza in molti avvertono da tempo la mancanza. Dopo la svolta impressa alla crisi dalla decisione di Renzi di appoggiare un governo Cinquestelle-PD, dato lo sconcerto che tale scelta ha generato in una parte dell’elettorato del partito democratico, sono infatti sempre di più coloro che avvertono la necessità di una leadership che abbia valori chiari e linee di comportamento coerenti.
Di sicuro, Calenda non si aspetta nulla di buono dall’alleanza del PD con i Cinquestelle: considera ormai il primo un litigioso guazzabuglio, ora probabilmente centrato di nuovo intorno alle mosse di Renzi, e i secondi un mix di arroganza e incompetenza volto essenzialmente alla conquista e alla gestione del potere, ma incapace di risolvere i problemi del paese.
Una delle principali conseguenze del cambiamento repentino di opinione da parte di Renzi è stata proprio la rianimazione del movimento cinque stelle, che dal Senatore di Firenze è stato risollevato al rango di assoluto protagonista proprio quando si trovava nel bel mezzo di una crisi che sembrava irreversibile. L’altra è stata riportare lo stesso Renzi al centro del partito, attraverso un successo momentaneo che, evitando di affrontare le ragioni vere del consenso riscosso da Salvini, dovrebbe annullarne gli effetti dando vita a un improbabile governo di legislatura con partiti che si insultano da diversi anni e sono in disaccordo quasi su tutto.
A prescindere comunque dagli esiti e dalle conseguenze politiche della strategia renziana, che il partito ha mostrato per lo più di appoggiare o assecondare, una riflessione a parte dovrebbe concernere il modo con cui vi si è pervenuti. Se Renzi avesse comunicato qualche mese prima la possibilità di un ripensamento, se avesse spiegato a chi lo seguiva che l’asserzione Senzadime non era poi così tassativa e che in alcune circostanze potevano esserci deroghe, si sarebbe potuta valutare la sua mossa tattica, in modo oggettivo, per le sue conseguenze concrete sullo scenario politico. Ma non ha fatto questo: ha mutato opinione e strategia nel giro di 48 ore, dopo anni che ripeteva il contrario e dopo migliaia di tweet in cui i suoi seguaci ribadivano le sue ragioni.
Ora, se una svolta così drastica è stata possibile dopo che per anni si erano sostenute tesi opposte, i casi sono due: o quanto sostenuto fino a quel momento era privo di seri fondamenti, oppure la svolta ha motivazioni del tutto diverse e indipendenti da quelle ufficiali. Certo, è stato detto da più parti che nel frattempo lo scenario era mutato, che si profilava il rischio concreto di un governo della Lega, antieuropeista, antiatlantico e sovranista, e che per scongiurare questo pericolo era necessaria una scelta responsabile da parte del partito democratico nel suo insieme. Tutte queste motivazioni, però, sarebbero potute risultare convincenti se il nuovo scenario si fosse profilato all’improvviso, pochi giorni prima della inopinata decisione di Renzi. Ma così non è stato.
Certo, il governo era caduto davvero pochi giorni prima, ed è anche vero che in caso di elezioni anticipate ci sarebbe stata una probabile, sebbene non sicura, vittoria della destra: ma questa eventualità era nota da tempo, la crisi era stata da più parti annunciata da mesi e tutti erano a conoscenza dei numeri preoccupanti che avrebbero potuto portare la Lega ad una vittoria schiacciante. All’interno di questo scenario, mentre altri, nel PD e in Leu, non avevano mai cessato di sostenere apertamente e coerentemente che la strategia migliore per far fronte a una simile circostanza fosse quella di un’alleanza coi Cinquestelle, Renzi aveva sempre continuato, fino a pochi giorni prima della crisi di governo altrettanto coerentemente, a sostenere la tesi dei Senzadime.
Dunque i veri motivi della mossa di Renzi non dovrebbero essere ricercati nell’esigenza di fermare il successo di Salvini in un’imminente consultazione elettorale, dato che un movente simile era attivo già da molti mesi e che non aveva provocato alcun mutamento nella linea renziana.
Per giustificare un tale mutamento repentino di strategia, c’è chi ha sostenuto che in questo modo si è potuto far leva su un effetto sorpresa, che non ci sarebbe potuto essere se invece quel mutamento fosse stato annunciato con congruo anticipo. In quel caso, non si sarebbe indotto all’errore Salvini, la crisi non ci sarebbe stata e saremmo ancora alle prese con il deleterio governo giallo-verde.
Ma se la crisi non vi fosse stata nulla di tremendo sarebbe accaduto: i pentastellati avrebbero continuato a veder erodere i propri consensi e anche la Lega avrebbe dovuto scontare gli effetti dell’impossibilità di sostenere a lungo la propria politica irrealistica in tema d’immigrazione; entrambi avrebbero dovuto varare una difficile legge di bilancio e sarebbero emerse ulteriori contraddizioni tra quanto annunciato nel loro contratto e l’azione effettiva del governo. In definitiva, quindi, è probabile che, dopo qualche mese, un anno o poco più, al momento della crisi comunque annunciata e poi della sfida nelle urne, la Lega non avrebbe potuto godere di un vantaggio incolmabile
Dunque, o quella di Renzi è stata una mossa avventata per correggere un errore pregresso e non ammettere che avevano ragione Bersani e altri “rottamati”, commettendo però un nuovo errore per aver rianimato il Movimento Cinquestelle senza intaccare più di tanto, almeno in prospettiva, il consenso della Lega; oppure tale mossa volta può essere spiegata, molto più banalmente, con la doppia volontà di non perdere il proprio patrimonio di deputati e senatori e di riprendersi il centro del PD. In entrambi i casi, tra loro tutt’altro che incompatibili, ciò che ha poi raccontato ai suoi sostenitori ed elettori, reali e virtuali, sarebbe una balla: nel primo caso utile a coprire un errore, nel secondo a mascherare il reale intento politico della sua iniziativa, motivata dall’esigenza di tutelare la sua forza parlamentare in attesa, qualora il PD dovesse uscire sfiancato dalla vicenda o non gli riconsegnasse la leadership, di poter dar vita a un nuovo partito. In ogni caso, i suoi elettori e sostenitori sarebbero stati trattati come degli inetti pronti a seguirlo dovunque e a qualsiasi condizione, cosa che non è mai indizio di una cultura autenticamente democratica da parte di un leader politico.
E proprio questo è l’aspetto più interessante di tutta la vicenda. Negli ultimi tempi, tutti i leader hanno acquisito l’abitudine di cambiare opinione su tutto con grande disinvoltura, e di cambiarla radicalmente, in tempi rapidi e senza avvertire l’esigenza di fornire ai cittadini delle spiegazioni convincenti. Lo ha fatto Di Maio, ma lo aveva già fatto e ci eravamo abituati; lo ha fatto Salvini, ma ci eravamo abituati, lo ha fatto Conte, e stranamente non siamo rimasti sorpresi, ma ora lo ha fatto anche Renzi, in maniera clamorosa e portandosi dietro quasi tutto il PD, e a questo eravamo anche abituati (in fondo aveva annunciato che si sarebbe ritirato dalla politica se avesse perso il referendum costituzionale), ma non così tanto da aspettarci un rovesciamento della sua posizione di tale portata.
La politica, in Italia, sembra diventata una partita a scacchi tra leader di cui gli elettori non riescono - se non tardivamente, e solo in qualche caso - a comprendere le mosse. L’unico modo in cui i cittadini, nel contesto di questa diffusa inaffidabilità dei loro rappresentanti, possono prendere parte alla vita politica è facendo il tifo per un leader piuttosto che per un altro, accettando di seguirlo senza far troppo caso alle contradizioni delle sue scelte e perdonandogli, da buoni tifosi, anche le più evidenti prove di malgoverno. In questo modo, la politica rischia però di diventare il gioco di abilità di leader alla guida di gruppi di potere a cui poco o nulla importa degli interessi del paese, che diventano così solo eventuali effetti collaterali del loro successo o insuccesso personali.
L’effetto più eloquente di questo scenario è il fatto che il primo partito d’Italia è quello degli astenuti, partito che è probabilmente destinato a crescere dopo l’esito di questa crisi. A questo punto però, indipendentemente da qualsiasi valutazione ulteriore su cosa abbia indotto Renzi a determinare tale esito con la sua mossa inattesa, la questione forse più interessante concerne quelle che potrebbero essere le sue strategie future, e come queste potrebbero combinarsi con quelle di Carlo Calenda.
Un’ipotesi fantapolitica, avanzata qualche giorno fa, tra il serio e il faceto, da un bravo politologo come Denilo Breschi, è che ci troviamo solo al primo tempo di un'operazione articolata in tre fasi, la prima delle quali prevederebbe la formazione di un governo giallo-rosso, “utile per prendere tempo e preparare sotto copertura amica la seconda fase”, quella in cui dovrebbe nascere il nuovo partito. Renzi, secondo Breschi, potrebbe costruirlo, nonostante i recenti dissapori, con lo stesso Carlo Calenda, “che dunque sarebbe solo uno pseudo-antirenziano con funzioni da apripista”. A questo punto dovrebbe intervenire “la grancassa mediatica che crea l'evento”, dietro la quale “potrebbe celarsi un soggetto che sia quanto meno proprietario di uno dei più importanti quotidiani italiani e magari anche di un'emittente televisiva che da anni si occupa quasi solo di politica, oltre a possedere una miriade di pubblicazioni annesse e connesse”. La campagna elettorale verterebbe sulla “imprescindibile necessità di una grande formazione di centro, moderata, europeista, antisovranista ed antipopulista. A supporto di un tale orizzonte programmatico potrebbe aderire anche una porzione del partito Fininvest, nonché giungere una benedizione da Oltretevere. Confindustria non potrà che esserne soddisfatta”.
Questa sarebbe dunque, nell’ipotesi di Breschi, la seconda fase, terminata la quale verrebbe “infiocchettato il pacchetto” da consegnare al corpo elettorale per poter poi dare via alla terza fase: i renziani staccano la spina al governo giallo-rosso di copertura e si indicono nuove elezioni, partecipandovi con un partito del tipo En Marche!, o comunque con uno che possa essere l’ago della bilancia nello scenario politico durante la prossima legislatura.
Certo, alla luce degli ultimi scambi d’idee tra Renzi e Calenda questa sembra, almeno per quanto concerne la loro alleanza nella seconda e terza fase, un’ipotesi davvero fantascientifica: in primo luogo perché Calenda non sembra il tipo da assecondare simili prolungati tatticismi, e poi perché ha lui stesso descritto uno scenario in parte simile, ma sostanzialmente incompatibile con quello proposto da Breschi.
Secondo Calenda, infatti, "Renzi formerà i suoi gruppi parlamentari a ottobre: lo sanno tutti […]: farà i gruppi separati, dirà che voleva un governo istituzionale e non con i Cinquestelle, disinnescherà le clausole Iva, farà cadere il governo e proverà a riprendersi il Pd". Così, almeno, Calenda ha detto a Pesaro la scorsa settimana e ribadito poi a Quarta Repubblica, ricordando ai renziani più distratti che fino a poco tempo fa, “quando Franceschini proponeva di dialogare con i Cinquestelle, veniva lapidato”. Inoltre, sempre riferendosi alla svolta del PD, ha sintetizzato le cause delle sue dimissioni con una constatazione semplice e difficile da confutare: “non era mai capitato un voltafaccia di questo genere di un'intera classe dirigente”. Ora, poi - ha aggiunto – la stessa classe dirigente sta varando coi Cinquestelle “un programma che fa ridere i polli. Si può anche accettare di fare un accordo con chi non c'entra niente con la tua storia, ma almeno lo fai seriamente”; invece si dà vita a un governo privo di dignità, che servirà solo a “gonfiare la destra”.
Un’analisi, questa, che non è molto diversa nemmeno da quella di Grillo, secondo il quale, se non dovesse nascere un governo serio e ambizioso, i neo-alleati giallo-rossi finirebbero col fare un enorme favore alla Lega; o di Casini, che ha grosso modo la stessa convinzione. Data la distanza culturale e politica tra i due, si tratta probabilmente di un’ipotesi disinteressata e non peregrina.
Naturalmente in politica, come nella vita, tutti possiamo sbagliare, ma questa resa senza condizioni del PD ai Cinquestelle ha tutta l’aria di costituire un errore gratuito perché Salvini, secondo Calenda, poteva essere affrontato e, se non proprio vinto, almeno drasticamente ridimensionato, dato che in fondo non è che un “barattolo vuoto”, sebbene accuratamente riempito negli ultimi tempi dai consensi derivati dagli errori, dalla litigiosità e dall’incoerenza del PD.
Per questo, proprio nella giornata del varo del nuovo governo giallorosso l’ex ministro dello sviluppo economico ha confermato l’intenzione di trasformare “Siamo Europei” in un partito aperto a tutti coloro che, provenendo da sinistra come da destra, si riconosceranno nei valori del liberalismo riformista.
Di certo, anche nell’ipotesi di ammettere la “doppia tessera”, non sarà semplice per il nuovo partito ritagliarsi uno spazio al centro dello schieramento politico, specialmente se Renzi dovesse dar vita a un proprio partito, dato che questo andrebbe a intercettare consensi nella stessa area elettorale. Se così fosse, le due neonate formazioni politiche finirebbero col darsi fastidio a vicenda, per cui sarebbe consigliabile che evitassero d’inasprire tra loro troppo i toni per non precludersi la possibilità di collaborazioni future.
Queste ci potranno essere, ma dopo quanto accaduto in questi giorni non saranno mai semplici o scontate, perché i due partiti saranno per certi versi molto simili, per altri opposti. Mentre infatti quello di Renzi, sempre compattamente aggregato intorno al suo leader, sarà caratterizzato da una concezione prevalentemente “tattica” della politica; il partito di Calenda avrà una visione più strategica e di lungo respiro, come quella che è stata con grande chiarezza ben argomentata in Orizzonti Selvaggi.
Dopo quanto accaduto durante questa crisi può darsi che si faccia strada, in una parte significativa dell’opinione pubblica, l’esigenza di un modo più coerente e meno ondivago di fare politica. In questo caso, il nuovo partito di Calenda non farà troppa fatica a trovare uno spazio significativo nel futuro scenario parlamentare. Specialmente se tale scenario dovesse scaturire da una nuova legge proporzionale, potrebbe anche giocarvi un ruolo decisivo. In ogni caso, potrebbe comunque divenire finalmente un saldo punto di riferimento per tutti i cittadini che credono nei valori del riformismo liberale.