Capire la paura per ritrovare il coraggio
Gli orizzonti selvaggi di Carlo Calenda tra le difficoltà della liberaldemocrazia e l’attualità del socialismo liberale.
Il progetto egemonico dell'occidente è fondato sul nesso, presunto come vincolante, tra democrazia liberale, sviluppo economico e libero mercato. In Orizzonti Selvaggi, Carlo Calenda ci spiega che, in conseguenza di un tale nesso, si è a lungo ritenuto che i valori dell'Occidente potessero essere esportati insieme alle merci.[1] Un simile progetto ha visto però di recente entrare in crisi uno dei suoi presupposti fondamentali, perché gli stessi valori fondanti della democrazia liberale sembrano non riscuotere più la convinta adesione dei cittadini.
“Secondo un recente sondaggio condotto da World Values Survey – spiega Calenda - solo il 45% degli europei e il 31% degli americani, considera essenziale vivere in una democrazia. Quello che colpisce non è né la previsione errata né, al contrario, il ragionamento, genericamente condivisibile, sul rapporto tra sviluppo economico e democrazia, ma il grado di determinismo con il quale commentatori e politici hanno considerato scontati gli esiti di un processo complesso incerto e liquidato le fasi di transizione”.[2]
La crisi di tali valori è dovuta a un insieme di fattori, tra cui l’insicurezza economica non costituisce certo una componente di secondo piano. Essa attraversa ormai tutto il mondo occidentale ed è uno dei principali effetti della globalizzazione. Calenda ci ricorda che, “se guardiamo alla distribuzione dei posti di lavoro industriali la quota detenuta nei paesi emergenti è passata al 38% nel 1960 al 75% nel 2010. Una migrazione di massa di posti di lavoro. Oggi sappiamo che i benefici associati al libero scambio hanno un impatto enorme sulla distribuzione della ricchezza e sulla qualità del lavoro”.[3]
Anche alla luce di dati oggettivi come questi Dani Rodrik è arrivato a sostenere che “ <<globalizzazione economica, democrazia politica e Stato- nazione sono fra loro inconciliabili. Possiamo avere contemporaneamente al massimo due di queste cose. La democrazia è compatibile con la sovranità nazionale solo se mettiamo limiti alla globalizzazione. Se spingiamo sulla globalizzazione manteniamo lo Stato-nazione, dobbiamo rinunciare alla democrazia. E se vogliamo la democrazia insieme con la globalizzazione dobbiamo accantonare lo stato-nazione e impegnarci per una maggiore governance internazionale>>”.[4]
A quanto pare, una simile governance ha però vita difficile. I negoziati multilaterali dell'Organizzazione Mondiale del Commercio che avrebbero dovuto riequilibrare i flussi commerciali sono falliti, e mentre aprivano le loro economie ai nostri beni e servizi i paesi emergenti hanno trattenuto “all'interno dei propri confini una porzione maggiore di benefici derivanti dallo sviluppo. In parole povere mi va bene importare i vostri prodotti, ma entro il limite del mio vantaggio e comunque preferisco comprare i miei di beni, anche per proteggere lo sviluppo dell'Industria domestiche”.[5]
Proprio le politiche protezioniste di molti paesi emergenti hanno nel corso degli anni sempre più messo in crisi le economie delle società occidentali, dimostrando una volta di più, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che l’economia capitalistica può convivere bene con dei sistemi politici non democratici. Il caso della Cina è, a questo riguardo, esemplare: la Cina infatti, pur avendo abbracciato un’economia di tipo capitalistico, “resta un'economia fortemente controllata e sussidiata dallo Stato. E questa è la principale dimostrazione che la società dei consumi può convivere con un regime non democratico e con un'economia solo parzialmente aperta all'iniziativa privata. In particolare, la selettiva apertura ai capitali internazionali e il mantenimento del controllo del tasso di cambio hanno determinato una protezione del sistema produttivo e un sussidio implicito alle imprese esportatrici cinesi. Come osserva giustamente Dani Rodrik: ‘i campioni della crescita degli ultimi tre decenni […] sono stati paesi come la Cina che hanno giocato la partita della globalizzazione con la regola di Bretton Woods piuttosto che con le regole dell'integrazione profonda’”.[6]
I campioni della crescita hanno dunque potuto conseguire, secondo Calenda, i loro straordinari risultati attraverso una concorrenza sostanzialmente sleale: “la distribuzione dei carichi fiscali è diventata meno equa” e le multinazionali hanno potuto mettere in atto “strategie di localizzazione opportunistiche che hanno ridotto enormemente il loro carico fiscale rispetto a piccole imprese e cittadini”.[7] La Cina ha così potuto praticare una “politica di proiezione verso l'estero attraverso investimenti e finanziamenti di enormi proporzioni seguendo la logica non solo di mercato ma anche di potenza. Tra il 2005 e 2005 gli investimenti esteri cinesi si sono quintuplicati”.[8]
La diffusione della società di consumo di massa nei paesi emergenti non solo “non ha comportato, nella maggioranza dei casi, l'adozione di modelli culturali e istituzionali occidentali”, ma ha favorito la crescita delle economie dei paesi emergenti, a conduzione quasi sempre non democratica, a discapito di quella dei paesi più avanzati, contribuendo in maniera decisiva a determinare un rallentamento della crescita di questi ultimi, che pare avere ormai la sua principale ragione nella globalizzazione.[9] La loro “industria non è stata difesa dai comportamenti scorretti perché molti paesi, diventati assemblatori più che produttori, hanno deciso che non era economicamente efficiente farlo”.[10] Così, mentre più di un miliardo di persone uscivano dalla povertà nei paesi in via di sviluppo e questi divenivano più indipendenti economicamente e finanziariamente, in occidente, durante l’era della globalizzazione, diminuivano i prezzi dei beni di consumo, ma con essi diminuiva anche l’occupazione, mentre la domanda interna non cresceva come avrebbe altrimenti potuto.
In questo nuovo scenario economico in costante trasformazione sono progressivamente mutati, come era lecito aspettarsi, anche i valori politici di riferimento. “Dal 2004 al 2017 i voti raccolti da partiti antiestablishment in Europa (a 15) sono triplicate arrivando a sfiorare il 20%”, mentre i giovani si sono allontanati dall'impegno politico: “in Italia oltre il 33% dei giovani sotto i 20 anni non si informa sulla politica e, quando lo fa, solo uno su quattro usa Fonte documentate”.[11]
Pare che una sorta di fatalismo si sia impossessato delle nuove generazioni, e questo è solo in parte riconducibile a ragioni di ordine economico, come la difficoltà a trovare lavoro o la diffusa precarizzazione. Una simile disaffezione alla politica rivela infatti una ancora più radicale disaffezione per la democrazia liberale, una mancanza di fiducia nei suoi principi fondamentale come mai si era manifestata dal secondo dopoguerra: allontanando i giovani da ogni impegno politico, “la retorica dell’inevitabile” – come la definisce Calenda -[12] ha contribuito a portare alla vittoria i movimenti populisti, in quanto hanno saputo rivendicare, almeno a parole, il ruolo della politica nel proteggere i cittadini, ma anche perché sono riusciti a intercettare la loro sete di un futuro possibile. Il mito della modernità che in Italia il movimento 5 stelle coltiva con tanta cura sembra proprio costituire l’espediente più efficace per garantirsi il consenso dei giovani: lusingando un giovanilismo crescente i populisti a 5 stelle riescono infatti a rendere credibile la promessa di un imminente riscatto sociale e di una generale rinascita. Il fatto che poi, in questo contesto, siano proprio i partiti più populisti ad affondare le speranze e le possibilità di un simile riscatto, tanto di coloro che sono giovani oggi quanto delle future generazioni, non viene percepita come un’ipotesi realistica e quindi costituisce agli occhi dei loro elettori un’eventualità trascurabile.
Ma cosa si dovrebbe fare per mutare la rotta della globalizzazione? Come porre termine ai suoi effetti collaterali più o meno diretti? Secondo Calenda essenzialmente in due modi: sul fronte esterno, dovremmo “cambiare la direzione attraverso un'alleanza sempre più stretta tra i paesi che coniugano le regole di un mercato equo con alti standard sociali e ambientali e diventare sempre più intransigenti rispetto ai comportamenti scorretti;[13] sul fronte interno, la nostra società dovrebbe invece “riscoprire il rispetto per la competenza oggi messa in discussione a tutti i livelli e anche per questo un investimento massiccio senza precedenti sull'educazione è urgente è fondamentale”.[14]
Naturalmente, non si tratta solo di una questione di risorse economiche: ciò che sembra infatti essere qui in gioco sono anche dei modelli educativi che devono essere ripensati e in una certa misura reinventati per poter di nuovo consentire alle giovani generazioni di riscoprire tutta l’importanza dei valori democratici sia per la loro vita che per quella delle generazioni future.
La confusione sempre più diffusa tra i valori del liberalismo politico e del liberismo economico ha d’altra parte contribuito a generare tra i più giovani un’indifferenza o una diffidenza verso la democrazia: visti gli effetti del liberismo implicito nella globalizzazione, molti di loro sono giunti anche a percepire la democrazia liberale come un ostacolo piuttosto che come uno strumento imprescindibile per la conservazione e lo sviluppo delle loro libertà fondamentali.
Inoltre, ad aggravare la situazione in un contesto già tanto complesso e insidioso, una parte rilevante degli economisti liberisti, invece di difendere i principi del libero mercato, si sono messi a difendere un mercato senza principi, in cui ogni tipo di concorrenza è di fatto ammessa. Traendo conseguenze estreme da queste posizioni, alcuni capi di stato o di governo hanno deciso di erigere barriere doganali in maniera indiscriminata, non tanto per regolare un liberoscambismo sfrenato e scardinato, ma solo per salvaguardare il bilancio commerciale del proprio paese. Per Trump, ad esempio, “la questione commerciale non ha più niente a che fare con le pretese del rispetto delle regole e la costruzione di un sistema di scambi più equo ed equilibrato, ma con la diminuzione a qualsiasi costo del deficit commerciale americano. L’azione di Trump è sbagliata perché rischia di travolgere l’intero sistema delle relazioni economiche internazionali, ma gli squilibri crescita economica fondata su surplus commerciali europei e asiatici sempre maggiori e l’aumento dell’indebitamento pubblico e privato americano non possono essere ignorati”.[15]
A prescindere da questa considerazione specificatamente relativa agli Stati Uniti, si tratta comunque, secondo Calenda, di una strategia difensiva troppo debole, che potrà avere come principale conseguenza una minore capacità di proteggere i cittadini più disagiati, spingendoli ad abbracciare visioni del mondo e dello Stato sempre più populiste e sempre meno etiche e democratiche.
Questo scenario è possibile, e si sta già verificando, perché è lo stesso stato democratico a risultare in questo frangente poco etico. La riscoperta del ruolo attivo e decisivo della politica rischia così di passare paradossalmente da una prospettiva illiberale: “Erdogan, Putin, Modi, Xi, sembrano finalmente in grado di ricongiungere politica e potere al vantaggio della nazione se non dei cittadini. Molti leader occidentali hanno iniziato a seguirne l'esempio. E molti altri ne verranno”.[16] Questo costituisce un indubbio vantaggio per i nazionalismi e sovranismi più aggressivi e spregiudicati: “vale per la Russia in Ucraina e in Siria, per la Turchia in Medio Oriente e per la Cina nel Mar Cinese meridionale”.[17]
La degenerazione verso il nazionalismo aggressivo sempre in cerca di nemici interni ed esterni diventa un inevitabile effetto di questa frustrazione derivante dagli effetti della globalizzazione e della sua mancata regolamentazione.[18] L’ondata di conservatorismo che ne è seguita pare anch’esso come l’atto istintivo del cercare rifugio in un porto sicuro. Mentre il liberalismo (e anche il liberismo) nascono “in opposizione al conservatorismo, il conservatorismo vede il cambiamento come una minaccia e un pericolo per l'ordine sociale. La continuità della tradizione è centrale all'idea di conservatorismo. La filosofia liberista tende invece a riporre le proprie speranze per il futuro nella crescita economica senza fine prodotta dalla liberazione delle forze di mercato”.[19]
Tuttavia, mentre alcuni, per proteggersi dagli effetti della <<crisi>>, cercano rifugio nella tradizione, molti giovani tendono a porre in secondo piano meritocrazia, internazionalismo e multiculturalismo. In questo contesto, le <<vecchie>> proposte di tipo socialdemocratico sembrano inadeguate e inattuali: mentre infatti il nazionalismo e capitalismo possono allearsi traendone un reciproco vantaggio e offrendo, almeno nelle promesse, più sicurezza ai cittadini e insieme più sviluppo, il socialismo d’ispirazione democratica sembra proporre una via più lenta e meno efficace alla realizzazione degli obiettivi più urgenti delle giovani generazioni: è per questo che oggi “sono soprattutto i progressisti a pagare il prezzo del fallimento percepito della globalizzazione […]. E se cadono le illusioni della <<società aperta>> a partire dal postulato delle opportunità per tutti offerte da libero mercato e innovazione tecnologica, i progressisti non sanno più a che santo votarsi. La retorica della società aperta che ha rappresentato il linguaggio dietro il quale partiti di sinistra hanno nascosto la loro migrazione dal socialismo democratico al liberismo è quanto più spaventa oggi i cittadini occidentali”.[20]
Dopo che per anni si è parlato di <<mobilità sociale>> come di una possibile parziale soluzione alle contraddizioni dell’economia di mercato, e dopo che la <<Terza via>> della <<solidarietà sociale>> sembra essere svaporata nel nulla, si è assistito a un progressivo ridimensionamento dello <<Stato sociale>>. Ormai “la mobilità sociale si è ridotta in quasi tutto l'occidente: le prospettive di miglioramento riguardano circa il 90% dei bambini nati nel 1940 e solo il 50% dei bambini nati e gli anni 80 e lì si è fermato”.[21]
Insieme a questo fenomeno, e quale sua probabile causa di fondo, sembra essersi realizzato quanto annunciato da Emanuele Severino, per il quale “‘la destinazione della tecnica al dominio è la destinazione al <<tramonto>> del capitalismo, della morale e dell'umanesimo cristiano o <<laico>>, della politica e di tutte le forze che intendono oggi servirsi della tecnica’. La tecnica in forza del suo scopo, l’aumento indefinito della potenza, ontologicamente superiore a quello di ricerca del profitto, retrocederà il capitalismo a puro mezzo del suo operare. L’indebolimento del principio di concorrenza potrebbe essere un segnale che va in questa direzione”.[22]
Evocando tra le righe la distinzione di Habermas tra ragione strumentale e ragione comunicativa e il loro diverso grado di sviluppo all’interno della società capitalistica, Calenda pensa che “abbiamo investito nel potenziamento della tecnica molto di più di quanto abbiamo investito nel potenziamento dell'uomo, pensando che le due cose coincidessero. Non è così. Il rapporto tra uomo e progresso tecnologico è cambiato radicalmente: alla crescita dell’uno corrisponde una marginalizzazione e alienazione dell'altro. Ed è per questo che l'umanesimo liberale è in crisi anche per quanto riguarda il suo primo pilastro, quello dei diritti e della democrazia: si è disinteressato dell'uomo nella sua dimensione culturale e sociale (intesa come collaborazione e non antagonismo). Parallelamente abbiamo coltivato aspettative irrealizzabili trasformando di fatto il diritto alla ricerca della felicità nel diritto alla felicità e la felicità in un traguardo in continuo movimento. Un diritto che ‘dipendendo dalle aspettative piuttosto che dalle condizioni (materiali) oggettive’ porta una continua frustrazione, perché le aspettative aumentano sempre più delle conquiste materiali”. [23]
Non possiamo vivere nella speranza di cambiare frigorifero e macchina ogni anno, nemmeno considerando la possibilità d’indebitarci fino al collo. Bisogna piuttosto generare bisogni nuovi, che si fondino su una diversa e accresciuta capacità di discernere tra le miriadi di beni e servizi che il mercato mette a disposizione dei consumatori: questi nuovi bisogni dovranno essere collegati al benessere individuale e collettivo e in grado di garantire, se non una <<decrescita felice>>, almeno una crescita meno infelice, che ci consenta cioè di evitare la stagnazione cronica in cui la società occidentale rischia altrimenti di impantanarsi a lungo garantendo, nello stesso tempo, una migliore qualità della vita su scala mondiale.
Per raggiungere un simile obiettivo bisogna saper resistere alla tentazione di una politica dei dazi condotta in maniera indiscriminata e abbandonare quella fiducia cieca negli effetti positivi della globalizzazione che ha generato i miti negativi del sovranismo. Questo vede nella stessa globalizzazione, nel multiculturalismo e nell’immigrazione i pericoli maggiori per la tutela di standard di benessere accettabili nelle nostre società occidentali, ma per disinnescare gli effetti negativi di queste mitologie negative non basta denunciarne gli aspetti più irrazionali o eticamente discutibili: è necessario disporre di una strategia per gestire razionalmente e in maniera equilibrata questi fenomeni, a iniziare da quello dell’immigrazione.
Per farlo, “in primo luogo dobbiamo mantenere il controllo sui nostri confini”. Calenda a questo riguardo è esplicito e affronta il nodo della questione: “una nazione non può sopravvivere se i cittadini ritengono i propri confini insicuri e permeabili. La messa in sicurezza dei confini, in particolare quando sono marittimi (in mare non si possono costruire muri), implica un lavoro nei paesi di origine e di transito dei migranti, fornendo mezzi per il controllo delle frontiere, per l’identificazione e anche per i respingimenti e i rimpatri”, e a questo fine la politica più efficace sarebbe “riprendere e implementare il Migration Compact già proposto dall’Italia nel 2016 e solo parzialmente recepito dall’UE”. [24]
In questo contesto tanto complesso, in cui sono coinvolte prospettive etiche e religiose oltre che politiche ed economiche, qualsiasi tentativo di tutelare le democrazie liberali dalla diffusione di falsi miti e dai loro effetti perniciosi non può tuttavia prescindere, come si è accennato, da un’adeguata e rinnovata formazione dei cittadini. Senza un profondo ripensamento delle sue modalità e dei suoi obiettivi la liquidità dei valori che caratterizza tutte le società avanzate nell’era attuale è destinata solo ad aumentare e a finire fuori controllo. Purtroppo, a fronte di una simile necessità, negli ultimi decenni i fondi destinati all'educazione sono aumentati in maniera rilevante solo fuori dai paesi occidentali. Questa circostanza ci pone – scrive Calenda, e non possiamo che concordare pienamente con lui – di fronte “al più grande fallimento delle democrazie liberali. Superiore in quanto a effetti persino a quello della crescita delle disuguaglianze (di cui è una delle cause principali)”.[25]
D’altra parte, l’informazione pare assecondare a sua volta un tale fallimento, quando addirittura non contribuisce a determinarlo. Se il servizio di un telegiornale che segnala il miglioramento della produttività viene sommerso da centinaia di tragiche vicende individuali i cittadini non potranno mai farsi un’idea obiettiva della situazione: alla fine, anche l’analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di elaborare delle informazioni in modo critico e consapevole, dipende dall'analfabetismo informativo.
La battaglia per le democrazie liberali può invece essere vinta solo partendo dalla consapevolezza che, “se in una società liberale le persone non hanno i mezzi culturali per capire, quelli materiali per progredire, quelli sociali e spirituali per vincere la solitudine” non potranno che “ripiegare verso modelli autoritari, chiusi, gretti e difensivi”.[26] Calenda questo non lo dice, ma si tratta, a ben vedere, di ragioni molto simili a quelle per cui Guido Calogero riteneva il socialismo liberale come lo sbocco naturale della democrazia liberale, la sua piena attuazione, in quanto s’impegnava a garantire a ogni cittadino quei diritti e quelle libertà che quest’ultima poteva tutelare solo in linea di principio e formalmente.
Anche per questa ragione, quando si parla della difesa delle <<democrazie liberali>> il significato di quest’espressione non deve essere equiparato alla difesa di politiche economiche di tipo liberista. Il principio cardine della liberaldemocrazia, nella sua formulazione forse più succinta ed efficace, può essere reperito nelle parole di John Stuart Mill citate da Calenda in epigrafe all’inizio della terza parte del suo saggio: “Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione non avrebbero più diritto di far tacere quel unico individuo più di quanto ne avrebbe lui di far tacere avendone il potere l'intera umanità”.[27] Ma un simile principio cardinale potrà essere ancora riconosciuto come tale solo se, come già Popper aveva messo in evidenza, le società liberaldemocratiche sapranno garantire un uso più responsabile dei media, un uso che parta dal presupposto che gli equilibri sottili su cui una simile società si regge possono essere alterati in maniera determinante da una gestione irresponsabile o superficiale dei mezzi d’informazione.
All'indomani della caduta del Fascismo, Churchill indirizzò al popolo italiano una lettera in cui tracciava le linee salienti di una democrazia liberale: in questa il popolo deve avere sempre il diritto di rifiutare un governo che esso disapprova ed essere in possesso degli strumenti costituzionali con cui poter esprimere la sua volontà; i tribunali devono essere immuni dalle violenze del potere esecutivo e dalle minacce di violenza delle masse e vi devono essere condizioni uguali per i poveri e i ricchi, per i singoli cittadini così come per i funzionari di governo; ognuno deve poter vivere libero della paura che una sinistra organizzazione poliziesca sotto il controllo di un partito unico possa un giorno bussare alla sua porta e condannarlo senza un processo equo e pubblico.[28]
Negli ultimi trent'anni si è però attuata una confezione liberista del modello di liberaldemocrazia cui Churchill fa riferimento. Ovvero, ha preso piede la tesi secondo cui il suo aspetto fondamentale è la libertà economica quale è prevista dal liberismo classico. Questa riduzione del liberalismo al liberismo – che oltre tutto sembra tenere in nessun conto la lezione crociana - ha finito per indebolire la stessa democrazia liberale, disponendone i cittadini a guardare con condiscendenza o rassegnazione a soluzioni autoritarie e non democratiche. Il compito della politica è invece proprio quello di regolare l’attività del mercato, mentre negli ultimi vent’anni essa sembra essere venuta meno a tale compito e a tale prerogativa, lasciando così che entrasse in crisi la fiducia stessa nello sistema democratico.
Sulla scia di questa crescente sfiducia, poiché i cittadini pretendono protezione e lo Stato democratico non pare in grado di fornirgliela, sono sempre di più quelli disposti ad abbandonare la democrazia per uno Stato autoritario. Questa tendenza costituisce per Calenda un paradosso rispetto al passato, perché le democrazie liberali sono nate proprio per garantire dei diritti ai cittadini e per proteggere le loro scelte individuali dall'ingerenza dello Stato. Ma quando lo Stato nazionale non riesce a proteggere quegli stessi cittadini dalle ingerenze che hanno sulla loro vita potenze economiche transnazionali, capaci di mettere a repentaglio la sicurezza del loro lavoro e la stessa possibilità di costruire un futuro, allora, quando questo accade, lo Stato nazionale può diventare l’unico possibile alleato per i cittadini, o almeno per quelli che si trovano in una situazione meno <<sicura>> sotto il profilo economico e sociale. La tirannia dell'economia, in questo caso, finisce col predisporre la società a subire dei cambiamenti tanto violenti e intollerabili da favorire il rovesciamento delle democrazie liberali, per favorire quella tirannia della maggioranza che pare in grado di promettere e garantire tutto e il suo contrario: campo libero alla libertà economica e protezione sociale per i ceti più deboli.
Davanti ai pericoli e alle paure esiste sempre la tentazione di adottare un'idea di Stato <<organicistica>>, opposta a quella della democrazia liberale. Nella concezione illiberale dello Stato, “la tutela dei diritti viene messa in secondo piano rispetto all'unità e alla coesione per affrontare i nemici”; in essa è anzi destinata a diffondersi quella retorica sul <<nemico>>, vero o presunto, che da sempre alimenta tanto la coesione nazionale quanto il patriottismo aggressivo. Lo Stato risulta così “sovraordinato rispetto a ogni altra componente della società e a ogni diritto di libertà individuale. Per dirla con Benito Mussolini: ‘per il fascista tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tantomeno ha valore, fuori dallo Stato’”. [29]
Oggi molti regimi illiberali, come l’Ungheria, la Russia e Cina, costituiscono le “destinazioni favorite di investimenti produttivi e finanziari”. Ciò dipende dal fatto che il “capitalismo può agevolmente convivere con i regimi illiberali”, e per questo non bisogna aspettarsi che corra in soccorso di quella democrazia liberale che gli ha consentito di prosperare per almeno due secoli.[30]
La forza che questa situazione fornisce agli stati illiberali è evidente. La Russia è tornata a fare una politica estera e militare aggressiva, cercando di destabilizzare le democrazie liberali occidentali.[31] Sebbene il fascino della leadership russa si basi sulla percezione indotta di una <<forza>> che in realtà non possiede, la sua aggressività sullo scacchiere internazionale rischia di rivelarsi pericolosamente destabilizzante. La Russia è infatti uno dei paesi “più diseguali del mondo dal punto dii vista della distribuzione del reddito e della ricchezza: con l’87% della ricchezza concentrata nelle mani del 10% dei cittadini profitti del paese”.[32] Quanti vorrebbero davvero riprodurre una simile situazione in Francia o in Italia? Eppure Putin continua a riscuotere crescenti simpatie in Europa. Proprio per questo è necessario rispondere con fermezza all'aggressione russa pur mantenendo aperto il dialogo, a condizione però che cessino le intromissioni della Russia all’interno dei nostri sistemi politici.[33]
L'evoluzione di alcuni paesi europei verso forme di democrazia illiberale – espressione che corre tuttavia sempre il rischio di generare qualche pericolosa confusione, perché in realtà non esiste, a nostro parere, nessuna democrazia illiberale, e l’espressione stessa è una contraddizione in termini - finisce invece proprio col fare il gioco di quell’atteggiamento neoimperialista russo che per altri aspetti mostrano invece di temere e ricusare.
Il loro controverso atteggiamento dimostra però una volta di più il disagio in cui vengono a trovarsi oggi le democrazie occidentali. Se non si riesce a integrare la difesa dei diritti individuali e delle libertà economiche riequilibrando il ruolo dello Stato e quello del privato, rimodulando il rapporto tra comunità e individui, tra diritti e doveri, tra efficienza e giustizia, l’impianto stesso delle società democratiche rischia di crollare.
Ma per realizzare tutto questo è necessario ripensare e rilanciare la formazione della cittadinanza: non si può cioè prescindere dall’esigenza, avvertita chiaramente già dai liberali del XIX secolo, di avere dei cittadini consapevoli e responsabili, in grado d’interpretare in maniera autonoma e critica il contesto economico, sociale e culturale in cui vivono.
Come osserva ancora John Stuart Mill nella prefazione dei suoi Principi di economia politica, “‘lo scopo principale del progresso sociale dovrebbe essere quello di preparare, attraverso l’educazione, l’umanità a uno stato sociale che unisca, alla massima libertà personale, quella giusta ed equa distribuzione dei prodotti del lavoro che le attuali leggi sulla proprietà sembrano trascurare del tutto’”.[34] In questo senso, nel contesto della difesa dei più elementari diritti e libertà di ogni cittadino, dell’esigenza fondamentale di una sua adeguata formazione e preparazione alle sfide che i nostri tempi impongono, Calenda sostiene con lungimiranza che persino “l'educazione alla bellezza deve tornare a essere uno degli obiettivi delle nostre società a partire dalla prima infanzia. Contemporaneamente, fino a che il cambiamento degli stili di consumo conseguente al innalzamento del livello meglio di cultura non assicurerà la sostenibilità del mercato degli eventi dei prodotti e delle iniziative culturali, questi andranno agevolati finanziariamente sia dal lato dell'offerta che da quello della domanda”.[35]
Naturalmente, oltre alla gran parte di considerazioni condivisibili, il libro di Calenda lascia spazio ad alcune domande, che sorgono spontanee a proposito di alcuni dati, come ad esempio i seguenti: “nel 2017 abbiamo contemporaneamente conseguito il record di Export 450 miliardi di euro di beni esportati e di poveri assoluti: cinque milioni”. Queste cifre contrastanti dovrebbero farci riflettere, anche perché si associano a ulteriori paradossi, come ad esempio il fatto che “siamo il primo paese occidentale dove si è formato un Governo guidato da sovranisti anti-occidentali”. Non solo: siamo anche il paese con la crescita economica più bassa, forse dopo la Grecia, dell’UE, e quello in cui “il senso della nazione e dello Stato è più flebile. Non è un caso che la lega abbia trovato all'estero, in Russia, il suo riferimento politico e culturale. Sovranisti senza patriottismo: un unicum al mondo”.[36]
Ma come si spiega il dato iniziale? Perché incide così poco l’aumento dell’export sulla nostra crescita economica complessiva? La situazione sarebbe la stessa se al posto di tutte le centinaia di migliaia di lavoratori delocalizzati all’estero fossero retribuiti dei cittadini italiani residenti in Italia? Nel computo delle nostre esportazioni si sono forse calcolate quelle operate da aziende delocalizzate che poco o nulla contribuiscono alla ripresa della domanda interna? E in ogni caso, non si pone comunque, e in maniera urgente, l’esigenza di <<proteggere>> le aziende non ancora delocalizzate cercando nel frattempo di individuare soluzioni per convincere quelle che sono già all’estero a rientrare? Non costituisce anche questo uno dei motivi della nostra debole crescita a cui converrebbe porre rapidamente rimedio?
Ma queste sono solo alcune delle domande che vorremmo fare a Calenda. Altre, di tipo diverso e a titolo puramente esemplificativo, potrebbero essere le seguenti: non pensa che nel caso specifico italiano molti elettori della sinistra abbiano voltato le spalle al PD e alle altre forze politiche progressiste perché si sono sentiti in tante occasioni presi in giro? Ad esempio: si parla da tanti anni di sburocratizzare il paese; conseguenza: la burocrazia è aumentata. Si doveva condurre una battaglia seria contro l’evasione fiscale, conclusione: l’evasione è grosso modo la stessa di dieci anni fa. Si dovevano tagliare un po’ di spese inutili, come ad esempio le provincie; conclusione, le provincie sono ancora al loro posto, costano come prima e non si sa bene a cosa servono. Ci si era proposti di proteggere i confini nazionali e di regolamentare l’afflusso dei migranti garantendo a chi si poteva accogliere condizioni di vita dignitose: risultato, fino all’arrivo di Minniti al ministero dell’interno l’afflusso è stato incontrollato e molte delle persone accolte sono state ridotte in schiavitù, mentre altre hanno goduto vantaggi che sono entrati in conflitto con quelli non goduti da famiglie italiane disagiate.
Ma l’analisi di queste situazioni ci porterebbe troppo lontano, e prolungherebbe questa riflessione oltre i limiti imposti dal suo scopo. Certo, tra le molte analisi condivisibili presenti in questo saggio, non si può non concordare decisamente con Calenda quando ravvisa nella <<paura>> il tratto dominante della civiltà occidentale contemporanea. Proprio per questo è necessario imparare a comprendere specialmente le paure degli <<sconfitti>>, incominciando con il dare loro diritto di cittadinanza: perché è con queste che siamo di fatto in guerra.
Questo libro non ci nasconde che il futuro è carico di incognite e di rischi e vi si prende atto che nel tempo presente i cittadini chiedono risposte e hanno bisogno di protezione. Sebbene questo termine sia diventato “quasi una parolaccia” nel linguaggio dei progressisti, è necessario e urgente dargliela, ma, naturalmente, senza usare trucchi, senza illudere i cittadini con ingannevoli espedienti assistenzialistici.
Per affrontare gli <<orizzonti selvaggi>> che sono di fronte a noi Calenda ci fa comprendere che abbiamo bisogno di un pensiero sociale, economico, culturale nuovo che si fondi sul potenziamento dell’uomo, il rinnovamento dello Stato e la valorizzazione della società e che abbia anche l’obiettivo di ridare dignità e potere alla politica. Per questo, esorta i progressisti a porre di nuovo l’idea di libertà, intesa come progetto collettivo, al centro del loro progetto politico: l’ultima volta che questo accadde - ci viene da aggiungere - almeno in Italia, fu grazie al pensiero e all’azione politica dei liberalsocialisti, dei fratelli Rosselli, di Salvemini e Calogero, di tutti coloro che credettero, in tempi non meno difficili di questi, in cui ideologie nazional-populiste e illiberali stanno rapidamente diffondendosi, in una società ad un tempo più libera e più giusta. Per questo siamo convinti che la costruzione di quella <<democrazia progressista>> di cui Calenda ci parla nelle ultime pagine del suo libro non possa prescindere da quella eredità culturale e dai suoi valori fondamentali.
Come oggi, anche all’inizio degli anni 20, all’epoca del <<biennio rosso>>, i populisti massimalisti e i fascisti stavano sfruttando demagogicamente il disagio dei ceti più poveri e l’insofferenza di quella parte della borghesia che non credeva più, o non aveva mai creduto, nei valori della liberaldemocrazia né in quelli del socialismo liberale e riformista. La contiguità politica del massimalismo marxista e del fascismo, posizioni entrambe foriere delle più grandi tragedie del Novecento (nemmeno il Nazismo avrebbe probabilmente mai potuto svilupparsi se il terreno non fosse stato preparato da queste ideologie solo apparentemente opposte) assomiglia per certi versi a quella, ancora oggi ravvisabile, tra una parte della vecchia <<sinistra>> conservatrice, incapace di misurarsi con le circostanze attuali in un dimensione globale, e l’altra, confluita nella cultura del <<risentimento>> ben rappresentata dal Movimento a 5 Stelle.
Come accadde allora col fascismo, una volta al governo anche il Movimento 5 stelle sta mostrando il suo volto più autentico: quello di un partito che ha come obiettivo primario la pura gestione e conservazione del potere, ciò che fa agitando lo spettro di quella democrazia diretta che nell’epoca moderna è sempre stata ispiratrice di disastri politici. Così oggi, nuovamente, questo partito sta riuscendo, anche grazie ad un accorto uso del <<web>>, a imporre insieme alla <<Lega>> scelte e soluzioni illiberali <<seguendo il popolo>>. Quest’espressione, usata dallo stesso Mussolini quale sintesi del suo <<metodo>> per conseguire, ma in parte anche per conservare, il potere, illustra perfettamente le ragioni che gli consentirono una così rapida ascesa politica: <<seguire il popolo>>, senza pretendere di guidarlo, gli permise infatti d’imporre allo stesso popolo, almeno nei primi anni del <<ventennio>>, la sua volontà e il suo disegno politico autoritario. Fu sufficiente cogliere al volo la circostanza d’una crisi profonda dei valori della liberaldemocrazia e del socialismo riformista e democratico durante il primo dopoguerra, in un momento di grandi difficoltà economiche e di alta conflittualità sociale, per riuscire a imporre le sue leggi liberticide a chi già lo acclamava nelle piazze con entusiasmo e dedizione.
Crediamo che la trasversalità dei consensi ottenuti dal fascismo fin dalle sue origini renda il raffronto con l’elettorato dei 5 stelle, almeno sotto questo profilo, abbastanza calzante. Certo, qui siamo di fronte a un pericolo complessivamente nuovo per la democrazia, certamente più nuovo di quello rappresentato da partiti che fanno leva su posizioni e valori già presenti nella tradizione della destra in Italia e nel mondo.
Comunque, solo nella misura in cui le forze progressiste sapranno riconoscere, oltre alle ragioni della paura degli sconfitti, anche le varie e diverse ragioni di chi determina i successi elettorali dei vincenti di oggi, solo in questo caso potranno realmente individuare i propri errori durante le recenti legislature e rinascere su basi realmente nuove, ovvero capaci di misurarsi con gli <<orizzonti selvaggi>>, complessi e drammatici, che abbiamo di fronte.
Carlo Calenda, Orizzonti Selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio, Feltrinelli, 2018.
[1]C. Calenda, Orizzonti Selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 26.
[2] Ivi, p. 27.
[3] Ivi, pp 33-34.
[4] Ivi, pp. 29-30
[5] Ivi, p. 34.
[6] Ivi, pp. 34-35. Cfr, D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 165.
[7] Ibidem.
[8] Ivi p. 36
[9] Cfr. ivi, p. 37. Cfr. T. Detti, G. Gozzini, L’età del disordine, Laterza, Roma-Bari, p. 33.
[10] Ivi, p. 38.
[11] Ivi, p. 50.
[12] Ibidem
[13] Cfr., ivi, p. 44.
[14] Ivi, p. 54.
[15] Ivi, p. 65.
[16] Ivi, p. 67.
[17] Ivi, p. 68.
[18] Cfr., ivi p. 69.
[19] Ivi p. 71.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 74.
[22] Ivi, pp. 87-88. Cfr. E. Severino, Il declino del capitalismo, Marsilio, Venezia 2017, p. 83.
[23] Ivi, p. 99.
[24] Ivi, pp. 104-105.
[25] Ivi, p. 121.
[26] Ivi p. 131.
[27] Ivi, p. 133.
[28] Cfr. ivi p. 136.
[29] Ivi p. 146.
[30] Cfr ivi p. 147.
[31] Cfr ivi p. 150.
[32] Ivi p. 154.
[33] Cfr. ibidem.
[34] Ivi p. 162.
[35] Ivi p. 167.
[36] Ivi p. 187.