La caduta e la perdità dell'unità


Recensione a: Carlo Lapucci, Estetica e trascendenza, edizioni Cantagalli, Siena, 2011.

Quando l’argomento è molto esteso e quando si cerca di fornire una visione generale di una tematica variegata e complessa, allora uno stile espositivo chiaro e l’uso di un lessico non troppo tecnico costituiscono requisiti quasi indispensabili affinché la trattazione risulti piacevole e comprensibile anche per lettori non specialisti. Il libro di Carlo Lapucci Estetica e Trascendenza ha questi requisiti, e se anche per alcuni tratti sembra prefissarsi una finalità quasi divulgativa, la chiarezza della sintesi che propone non deve trarre in inganno, perché in modo sorprendente, con una prosa leggera e a tratti colloquiale, vi compaiono spesso osservazioni che sorprendono per la loro capacità di gettare uno sguardo originale e significativo su una problematica che attraversa un arco di tempo molto vasto.

Volendo individuare un filo rosso che sia utile per legare il materiale piuttosto eterogeneo su cui Lapucci innesta le sue considerazioni, credo che questo potrebbe essere ravvisato in quella che, con un’espressione un po’ sommaria, potremmo definire come “la fine di un universo simbolico unitario”. In altri termini, nel saggio in questione, oltre che a tracciare una breve, ma non per questo superfiale, storia dell’estetica in rapporto al tema della trascendenza, si narra anche come la progressiva perdita di unità dell’universo simbolico in cui fino all’età medievale l’umanità è stata immersa abbia in seguito, progressivamente e inesorabilmente, fatto mancare un orizzonte di riferimento anche all’esperienza estetica, e con essa anche all’uomo in generale, alla sua capacità di relazionarsi tanto agli altri quanto alla propria stessa vita.  
Assecondando in buona parte una tesi di Johan Huizinga, Lapucci rileva come con l’epoca rinascimentale l’uomo si lasci progressivamente alle spalle un cosmo simbolico e spirituale che interagiva continuamente con la sua esistenza quotidiana. Antiche e consolidate certezze, “quali l’oggettività del reale, la provvidenzialità di Dio, la vita eterna, la comprensibilità del mondo, e il posto dell’uomo in questo, il suo compito, la morale, si disperdono e svaniscono, chiudendolo sempre più in se stesso e spingendolo verso una socialità cercata, programmata, incoraggiata, imposta e avversata di fatto da un individualismo via via più prepotente e forte, perché l’io occupa lo spazio che era di Dio” (p. 99).
Queste ed altre considerazioni dell’autore sul quel periodo storico che Huizinga definì come Autunno del medioevo, ne ricordano altre simili del teologo e storico dell’arte russo Pavel Florenskij, il quale aveva dedicato pagine decisamente poco convenzionali agli effetti e al significato dell’avvento della prospettiva nella storia della pittura. Piuttosto che vedere nella prospettiva il segno di un progresso, in quanto essa realizzerebbe la vocazione sostanzialmente realistica di quest’arte, Florenskij vi scorge piuttosto i segni di un individualismo implicito, che favorendo la perdita di riferimenti simbolici trascendenti era destinato a condurre la pittura a concepire se stessa come una mera descrizione di un arbitrario punto di vista umano, della sua condizione precaria e isolata, e non più come il riverbero particolare di un cosmo divino che ci parla attraverso i suoi simboli.  
Se, come ci ricorda Huizinga citando Ireneo, non esiste nulla in Dio che sia vuoto o privo di significato, se tutto in Dio è segno di qualcosa, questo vale anche per l’arte medievale. In particolare l’arte delle icone, su cui Florenskij ha scritto saggi fondamentali, costituisce un esempio di come la pittura possa farsi veicolo di una visione unitaria del cosmo e del suo significato trascendente, simbolicamente tanto ricca da risultare capace di fornire all’uomo un orizzonte di senso che scongiuri la possibilità di un suo spaesamento radicale.
Viceversa, con l’avvento della prospettiva e dell’individualismo rinascimentale un simile orizzonte simbolico si frammenta e disperde, il suo significato unitario e unificante tende a scomparire a poco a poco, lasciando l’uomo da solo in un universo che coincide con la sua apparenza immediata e che è incapace di alludere a qualsiasi dimensione trascendente, l’unica che è in grado di fare da specchio, sia per Florenskij sia per Lapucci, in maniera spiritualmente propizia e salvifica alla condizione umana.
Percorrendo epoche di crisi culturali e valoriali sempre più spaesanti l’arte, e in particolare la poesia, impareranno poi ad assecondare il venir meno di tale “universo simbolico unitario”, cercando di scorgere nella foreste di simboli che la natura gli suggerisce uno sguardo confortante ed amichevole, ma senza riuscire in effetti a trarne un grande conforto. Così Lapucci può ravvisare nella poesia decadente di Baudelaire la trasformazione in un puro “mistero” privo di senso di quelle segrete corrispondenze che nell’universo simbolico medievale si fondevano in maniera armonica. Ormai, sia nella poesia moderna che nel pensiero contemporaneo, l’uomo e l’artista, sia romantico sia decadente, possono confidare solo sulle proprie forze e pregare solo “un cielo vuoto”, limitandosi ad alludere in maniera suggestiva al trascendente e al senso di mistero che porta con sé. Ma si tratta ormai di “viaggi privi di mèta”, dove “le cose comunicano senza dirsi nulla”. In questo nuovo universo disorganico e frammentario “i fiori hanno un linguaggio ma non si sa per dire che cosa; si attraversano cieli, azzurri infiniti, eteri vaghi, si fugge il fango, il mondo meschino per andare non si sa dove, ci si purifica e, quando si dovrebbe arrivare alla fine, alla conclusione, alla rivelazione: nulla” (p. 158).
L’artista medievale era invece in comunicazione col divino e non si sentiva, come accadrà poi, un creatore onnipotente, ma piuttosto un “medium tra una realtà superiore e una inferiore” (p. 52). Attraverso la sua arte egli poteva riscoprire incessantemente la sua appartenenza al tutto, appartenenza che lo rendeva mite e rappacificato col suo orizzonte vitale, ma anche proteso a identificarsi con la consonanza dei richiami simbolici che poteva scorgere nella natura. Come a S. Agostino, l’universo gli appariva un poema scritto da Dio ed egli percepiva se stesso come “un demiurgo che rapisce una scintilla divina e l’infonde nella materia” (p. 73), perché non v’era in lui contrapposizione tra spazio esteriore e mondo interiore, così come non ve n’era tra amare e comprendere.
Il detto popolare “chi tutto ama tutto comprende” non può, secondo Lapucci, essere rovesciato conservandone la verità, e ciò a maggior ragione in un’epoca in cui il culto dell’intelligenza sembra proporsi come una chiave universale per conseguire un dominio sempre più completo sull’uomo e sulla natura. Non si può infatti enunciare con altrettanta convinzione la frase inversa: “chi tutto comprende tutto ama”, se non altro perché i modelli di comprensione che sono attualmente in vigore sembrano rinunciare volentieri all’esercizio di quell’Esprit di finesse che era essenziale per sondare le ragioni del cuore, ragioni che tendono per loro conto a confidare nell’esistenza di un orizzonte spirituale in grado di suggerire un senso alla vita.
Così, al culmine del percorso che l’individualismo rinascimentale compie fino ai giorni nostri, in quello che Lapucci considera uno dei poemi più emblematici del Novecento, Terra desolata di Thomas Stearns Eliot, si descrive un mondo fatto di unioni sostanzialmente violente, frutto di errori e fraintendimenti, rese sterili dall’egoismo e dall’indifferenza. L’unica forma di saggezza che potremmo contrapporre a questo scenario sarebbe quella che proviene dall’umiltà, ma poiché proprio l’umiltà sembra oggi la dote meno diffusa, sia sotto il profilo sociale sia sotto quello artistico od estetico, si rischia di essere vittime dell’allucinazione che ci vorrebbe protagonisti assoluti ed esclusivi della nostra esistenza.
L’effetto più consistente di una tale allucinazione non può che essere quello di condurci per mano sull’orlo di un baratro e di ritrovarci all’improvviso, anche nella vita reale, di fronte a quello stesso nulla che pervade la Terra desolata di Eliot. Di ciò che siamo stati, delle nostre precedenti immedesimazioni in altre visioni della vita e del cosmo, rimarrà solo una debole eco, uno strano residuo svaporato, quasi il ricordo di una vuota identità sospesa di fronte a un vago, indefinito altro ideale, divenuto ormai come un sordo mistero che ci circonda. Il poeta cercherà allora, ancora una volta, con i suoi versi, di dominare un ordine invisibile dando forma a un caos apparente, facendosi testimone dell’inesprimibile e dell’ineffabile. Tutte le rotte sono infatti possibili a chi esalta ogni tentazione per sentirsi simile a un Dio, a chi pretende, con i suoi atti poetici, di dipingere un universo privo di un artefice, di uno sfondo ultimo e di un senso capace di avvolgere la nostra vita.
Gli effetti decadenti di questo nuovo contesto spirituale ed estetico - nell’orizzonte di quel nichilismo diffuso che dopo Nietzsche ha trovato una spalla ideale nelle suggestioni di onnipotenza che il progresso scientifico ha saputo indurre sin nelle pieghe più intime dell’esistenza umana – sono ben percepibili nell’alveo del crescente disagio psicologico e morale che caratterizza i nostri tempi. Come ha posto in evidenza Umberto Galimberti in un suo saggio recente, anche il ricorso sempre più frequente all’uso di droghe da parte specialmente delle giovani generazioni rivela un malessere riconducibile all’azione di un nichilismo latente, che costituisce ormai “l’ospite inquietante”, o “il convitato di pietra”, che ha saputo installarsi nel cuore della nostra società.
L’avvento del nichilismo non è certo imputabile solo alla perdita di una dimensione trascendente, e probabilmente il recupero di una simile dimensione non sarebbe sufficiente per scongiurarne le conseguenze in una dimensione sociale. Queste sono tangibili e ormai tanto consolidate nella vita reale che sarebbe forse necessaria una vera e propria rivoluzione culturale per scardinarne la presa sulle visioni del mondo più diffuse. Certo è che gli effetti dell’avvento del nichilismo possono essere riscontrati anche nella storia dell’arte e dell’estetica e con questo suo saggio Lapucci ce ne ha mostrati in maniera chiara e organica alcuni tra i più significativi. Essi costituiscono il segnale di una situazione nuova, che si è andata sempre più affermando nell’epoca moderna, ma che si è poi sviluppata anche in quella contemporanea e post-moderna: “l’elemento più vistoso” che caratterizza tale situazione è “il fatto che l’individuo si trova sempre più devitalizzato da un’aridità progressiva. Il distacco dal divino, dopo l’ebbrezza rinascimentale data dal riversarsi nel godimento delle cose, ha generato un senso d’estraneità al mondo. Le filosofie, dall’idealismo all’esistenzialismo, non sanno più come collegare la vita umana, la coscienza alla realtà universale; fino alle semplici cose, fino al terrore che tutto possa essere illusione, un’allucinazione, un inganno, un gioco terribile che non ha significato” (p. 222).


Carlo Lapucci, Estetica e Trascendenza, Edizioni Cantagalli, Siena, 2011.