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Le città vivono nello sguardo dei poeti
Una decina di anni fa, in un piccolo libro discreto e prezioso, Piera Mattei indagò ed espose il rapporto privilegiato che i poeti hanno con le città. Ciò che i poeti vi vedono, ciò che a volte in esse scorgono appena, quanto sanno cogliere con il loro sguardo, può addirittura indurre a sospettare che solo a loro sia concesso di avvertirne l’indole, l’umore e il respiro segreto.
Le città sono per i poeti muse ispiratrici, luoghi simbolici dell’anima, spazi circoscritti che alludono a quello complessivo in cui ogni vita si svolge necessariamente. In altre parole, sono per i poeti entità dotate di vita propria, di una luce con cui ci si può trovare o meno in sintonia: sono angoli in cui ci si può sentire ad un tempo protetti e precari, spaesati o accolti all’interno di un ordine che ha talora l’aspetto di uno spazio concluso ritagliato all’interno di un vortice incomprensibile.
In quel breve saggio, I poeti e le città, Piera Mattei si soffermava sulla relazione che alcuni poeti avevano avuto in particolare con Roma, che forse più di ogni altra è idonea a rappresentarle tutte per la sua capacità di far provare a chi la abita il senso “di appartenenza al luogo”. Dal soggiorno romano di Ingeborg Bachmann in via Giulia – che, come ricorda Giorgio Agamben, attribuiva a Roma il merito di averle insegnato a “darsi tempo, a guardare e ad ascoltare”, tanto da considerarla tra le metropoli “l’ultima in cui si possa avere un sentimento di patria interiore” - attraverso quelli di Palazzeschi, di Rilke, di Keats e Shelley, dell’Alfieri e di Metastasio, il libro si snoda attraverso considerazioni e aneddoti intrecciati in modo tale da rendere percettibili sia le atmosfere dei luoghi sia alcuni tratti delle poetiche dei loro illustri ospiti, ma anche le relazioni che tali poetiche hanno instaurato con le loro vite da “cittadini” romani.
Talora l’autrice si sofferma sui riverberi prodotti dai soggiorni antecedenti di alcuni poeti su quelli di altri successivi. Quando per esempio il Tasso si farà condurre al “munistero di S. Onofrio” - non solo per poter godere dell’aria salubre del luogo, ma soprattutto per iniziare dal quel luogo eminente, attraverso la conversazione con i suoi “divoti padri”, la sua “conversazione in cielo” - lascerà una testimonianza del suo rapporto con la città tutta che risulterà preziosa e cara per Leopardi, al quale capiterà spesso di commuoversi presso la tomba del poeta meditando sulla di lui infelicità e sul contrasto di questa con la bellezza del luogo.
Il ricordo commosso del Tasso da parte di Leopardi ci consente di comprendere meglio come questa città – che nell’Apocalisse è paragonata, con un’immagine per altri versi attuale, ad una “meretrice che cavalca la bestia vermiglia delle sette teste (i suoi sette colli) e ha in mano la coppa colma delle sue nequizie” – sia anche il luogo privilegiato in cui s’intrecciano memorie di poeti diversi, talora saldandosi o fondendosi in una sola variegata scia.
Le altre città menzionate dal libro – la New York di Withman, la Trieste di Joyce e Svevo, la Madrid e la “collina dei pioppi” di Lorca, Bunũel e Dalì, sembrano alla fine anch’esse eco e risonanze particolari dell’attitudine di Roma a trasfigurarsi in un luogo dell’anima: luogo in cui si riannoda incessantemente un discorso fatto di memorie diverse, in una ridda di voci, di luci, di ombre e di specchi che lascia trapelare la vocazione più autentica di ogni città. Il fatto che spesso i loro abitanti attuali mostrino di trascurare la memoria stessa di chi vi ha soggiornato restandone affascinato e commosso, rendendole così più compiutamente ciò che sono, e che quelli stessi abitanti omettano talora anche una piccola lapide in ricordo di una residenza che pur ha lasciato una traccia significativa nella loro storia, alla fine testimonia della disposizione ottusa e distratta dei nostri tempi verso quanto ci circonda e a suo modo ci accoglie.
Per chi sentisse però il bisogno di tener viva l’immagine di scorci e di strade, di piazze, parchi e palazzi, o delle umili dimore e dei cortili delle città che ha amato, anche questa triste forma d’oblio potrebbe suonare invece come una provocazione, come un invito ulteriore a sfogliare il palinsesto delle presenze sovrapposte che ancora vi risuonano. Sarà forse proprio riscoprendo il piacere di farci in questo modo visitatori e cittadini più attenti, in grado di conversare con lo sguardo di chi prima ha apprezzato le atmosfere e gli incanti segreti delle città che ci sono più care, che queste potranno rimanere scrigni vivi di memorie anche per le generazioni future.
Piera Mattei, I poeti e la città, Il Bisonte editore, Firenze, 2009.