E il mare diventò tranquillissimo e buono, come l’anima di un cigno

L'ultima rassegna di vite insolite ed esemplari di Geminello Alvi

 

   Geminello Alvi è un economista cordiale, incline a un eloquio poco accademico, ad un tempo rigoroso e informale, dialogico e costruttivo. Ciò nonostante, in un’intervista di circa un anno fa, si è espresso criticamente verso alcuni mostri sacri del nostro panorama culturale, aggiungendo che il più scarso dei poeti di mezzo secolo fa sarebbe stato un gigante al giorno d’oggi. Studioso dell’Apocalisse, un libro interminabile che sta continuando a leggere, ma su cui non pensa che scriverà mai niente, è giunto a pensare che stiamo creando una società di vigliacchi e di gente senza onore, e che, in particolare, l’Italia è ormai un paese vuoto di valori.

   La perentorietà di simili dichiarazioni non deve aver giovato alla sua reputazione in certi ambienti che contano, dov’era del resto già da prima assai precaria. Per di più, si è anche espresso in maniera poco lusinghiera sul capitalismo, assimilandolo a una visione del mondo ormai senza cervello, oltre che senza cuore. In questo modo, con poche battute irriverenti, è riuscito a scontentare tutti in un colpo solo, e cioè in una sola intervista, aiutandoci a capire perché sia così poco presente nei talk show televisivi.

   Eppure, dicevamo, Geminello Alvi ha tutta l’aria di essere, oltre che una persona schietta, anche una persona cordiale. Lo si capisce, oltre che da come parla, anche da come scrive. Di certo, l’eccentricità di alcuni aspetti della sua personalità non ha un’origine artificiosa, non è né un vezzo né una maniera d’essere costruita, ma sembra piuttosto derivare da una spiccata sintonia con il carattere di altre personalità eccentriche che ha ben compreso, ammirato o amato.

 

   Oltre ai molti libri di economia in cui avanza tesi poco convenzionali e proposte coraggiose, ne ha infatti scritti anche due di “ritratti”. In Eccentrici – che costituisce un po’ il proseguo di Uomini del Novecento (1995), e di cui vorremmo qui proporre la lettura a chi non l’avesse prima d’ora mai intrapresa   – Alvi riesce a cogliere, con una prosa elegante, scarna e chiara, l’indole di ciascuno dei personaggi che propone, le fatalità arcane annidate in qualche tratto dei loro volti o nei loro gesti più abituali, i tesori e le sventure segrete delle loro esistenze.

   Pur solitamente impegnato a cercare di risolvere alcuni problemi cruciali della società economica contemporanea, Alvi ha il sapore di un classico della letteratura: l’oggettività del suo stile non gli impedisce di far avvertire la sua simpatia per le disgrazie e le imprevedibili vocazioni dei suoi prescelti personaggi, alcuni famosi ed altri meno, altri ancora piuttosto ignoti ai più. Leggendo questo libro denso, spesso divertente, si fa la scoperta delle loro morti esemplari e solitarie, cruente o placide, appostate al termine delle loro vite insolite.

   Alcuni di questi ritratti sono impareggiabili: quello di Oliver Hardy, per esempio: se Stanlio era “innocente, fiducioso e maldestro”, Oliver fu “il suo maestro enfatico d’inconcludenze”. Quando, nel 1956, gli venne ordinata una cura dimagrante, arrivò a perdere cinquanta chili, tanto che, “senza più doppio mento” e “con le orecchie spioventi”, finì con l’assomigliare a Stanlio. Quasi a sigillare il tragicomico paradosso, Oliver “morì d’infarto, per eccessivo dimagrimento, il 7 agosto del 1957, alle sette”.

   Non meno toccante è il ritratto del Collodi, fuori dall’arte Carlo Lorenzini, che ebbe “il privilegio d’essere consolato della morte di sua madre Angiolina da lei stessa” prima che morisse, che ebbe la sorte di fumare “sigarette antiasmatiche giocando a quadrigliati” e d’intenerirsi per burattini e ciuchini ammaestrati. Scrisse Pinocchio, e tanto basta: sulla sua vita “<<a poco a poco il cielo si rasserenò, e il sole diventò tranquillissimo e buono>>”.

   E poi ancora, saltando di palo in frasca, quello di Yves Klein, che dipingeva pigmenti puri, soprattutto blu, come il cielo di Gagarin e di Modugno; o quello di Buster Keaton, che scoprì che “non v’era nulla da ridere e non rise”, perché ci vuole un notevole senso dell’umorismo per non mettersi a ridere quando ce ne sarebbero ottime ragioni. Nonostante i repentini trionfi cinematografici, Buster “conobbe la fortuna nove mesi soltanto” e “ritornò senza soldi all’infanzia”. Chiamato da Beckett a recitare nel suo corto “Film”, non doveva sapere quanto in esso la sua presenza e la sua azione fossero destinate a significare, affinché dal suo volto meglio si sprigionasse il senso dell’inanità del tutto e quel terrore attonito degli specchi su cui poi anche Borges imbastì molti dei suoi racconti.

   E poi ancora l’atroce morte autoimposta di Salgari, che “Yanez non avrebbe chiamato suicidio, bensì furia di selvaggio rituale”; o la flebile vita di Hans Christian Andersen. Mrs Browning, poetessa inglese, così lo descrisse dopo una sua visita: “<<ha baciato la mia mano e sembrava nella verve giusta per abbracciarmi. È molto schietto e infantile. Il mio Pen, dodicenne, dice che è brutto come il brutto anatroccolo, ma la sua anima è divenuta quella di un cigno>>”.

   Tra i commenti riportati da altri (e ancora a proposito di dodicenni) fa sorridere anche quello di Jean Renoir, il regista de La grande illusione, a proposito di Erich Von Stroheim, il famoso collega attore che vi recitava: “<<mi pare inutile insistere sulla sua ingenuità. Il personaggio ideale che egli si sforzava di imitare avrebbe potuto essere il frutto dell’immaginazione di un ragazzino di dodici anni>>”. Il grande attore e regista, pur essendo universalmente riconosciuto come un prototipo del tipo militare germanico, pare non conoscesse bene il tedesco. I due litigarono per una sciocchezza: secondo Von Stroheim le prostitute messe in scena non erano “di tipo evidentemente viennese”. Si riappacificarono però quasi subito, perché Renoir gli confessò apertamente la sua ammirazione, sostenendo che avrebbe preferito rinunciare alla regia del film piuttosto che litigare ancora con lui.

   Trattandosi del libro di un economista, non poteva tuttavia mancare un qualche riferimento al denaro. Il ritratto di James Stewart ne fornisce all’autore l’occasione: ne La vita è meravigliosa, di Frank Capra, il personaggio di George Bailey, impersonato da Stewart, dovette fare una scoperta premonitrice: che “il denaro è ben speso se rende gli uomini liberi e altruisti, altrimenti genera solo il male. Regola sana, che dà la quiete, e viene invece obliata da quasi tutti. Adesso si pensa che accumulare il denaro vinca ogni paura. Quando è vero il contrario. Più s’accumula il denaro, meno basta, più aumenta la non quiete”.

 

Geminello Alvi, Eccentrici, Adelphi, Milano, 2015.