Un cuore pieno di simboli... nel diario d'un istante
È la purezza del dolore che genera la poesia. Nessuna poesia potrebbe aver mai avuto luogo senza l’ombra del dolore necessario a far risuonare l’eco delle sue parole. E la morte, si sa, è maestra nel generare dolore. La principale, e l’ultima, che non lascia spazio a ulteriori infingimenti, non a menzogne o a diatribe.
La morte è sempre la morte di qualcun altro, come dice Heidegger, e quindi noi siamo condannati a poterne fare esperienza solo per interposta persona, ma in qualche caso la morte di un’altra persona può essere tanto devastante da trasfigurare completamente il senso della nostra presenza del mondo, oppure da renderlo ancor più riconoscibile e nitido, come prima, forse, non era mai stato possibile coglierlo. Nella misura in cui ci siamo rapportati al mondo e agli altri in modo trasparente, l’unica morte che ci è concesso di vivere può purificare e rendere limpido ogni sentimento che durante la vita precedente sia rimasto, anche solo in parte, sospeso o indecifrato.
Ma la morte è anche apparenza, mancanza di sostanza, non essere per eccellenza. Una metamorfosi sommessa, un dileguarsi nel nulla per farsi eterni, per trovare nel nulla la propria consistenza definitiva. Come scrive Fernando Pessoa in una poesia, è un momentaneo sottrarsi allo sguardo, un divenire invisibili per un tempo imprecisato: “La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio”.
Il legame dell’amore con la morte è forse, tra tutti, il più classico sotto il profilo letterario e il più indissolubile sotto quello psicologico. Nella morte l’amore trova da sempre, nella vita come nella letteratura, la sua forma di eternità. Su questo tema la letteratura non può da tempo cercar di produrre più nulla d’originale, cosa che del resto non è mai stata necessaria a nessun autentico scrittore o poeta.
Questo legame perdura ineludibile da secoli, intatto dagli albori della coscienza umana e della sua vocazione all’espressione e a all’arte. È un legame che non si stanca, e che non potrà mai stancare, che ci è rivelato in tutta la sua forza da certi luminosi, quanto purtroppo rari, rapporti d’amore, coniugali o amicali.
A ben vedere, tuttavia, si tratta di un legame in cui il padrone finale non è la morte; anzi, forse è l’unico caso in cui non si riveli come la padrona assoluta. Come scrive infatti Macedonio Fernández, l’amico e forse principale ispiratore di Borges, in una piccola poesia che s’intitola Credevo io: “Non a tutto arriva amore, perché non può / rompere il ramo con cui la morte tocca. / Ancor meno può la morte / se nel cuore dell’amore / la sua paura muore. / Ancor meno può la morte, / perché la sua paura non può / entrare nel petto dov’è amore. / Che la morte governa la vita; l’amore la morte.”
La morte governa, regola (rige), domina, controlla, incombe sulla vita, ma l’amore non è da meno con la morte, anzi, in un certo senso nel suo vuoto dilaga, ha il sopravvento su tutto, si trasfigura in un sentimento panico e non meno pervasivo del dolore che può accompagnarlo e continuare a nutrirlo.
A condurci per mano, in maniera incalzante e discreta, dentro questo legame tanto assoluto è Carlo Lapucci - saggista, scrittore, poeta, studioso di proverbi, costumi e leggende popolari - con il suo libro di versi Diario d’un istante, dedicato alla moglie, recentemente scomparsa, Anna Maria Antoni, che è stata botanica, pittrice e coautrice col marito di diversi volumi tra cui, l’ultimo, sulla simbologia delle piante.
“Ricordi Anna – dice, scrivendo, Carlo Lapucci alla moglie - Giovani, guardavamo un bambino mandare le sue barchette nella corrente del Magnone: gioiva seguendo i tragitti, i destini, le partenze trepide e incerte, l’inquieto affidarsi alla prima debole corrente, l’entrare nel vortice delirante e rapinoso dei flutti, sparendo e affiorando continuamente dalle acque finché, prese nel grande gorgo della rapida, non si perdevano nell’illeggibile geroglifico delle onde da cui il riverbero del sole non ci lasciava veder ritornare più nulla”.
Ora tutto è cambiato, senza che sia cambiato nulla: gli oggetti più familiari della casa si sono accorti in qualche modo della tua assenza, ma senza averle creduto. Nemmeno il gatto sembra voler credere ad una forma tanto sbalorditiva di mancanza, e chiude gli occhi quando vede passare per le stanze, con aria spaesata e lenta, il suo padrone rimasto solitario. Lei non c’è. Tu non ci sei: ora “restano nella casa le tue tracce, / segni dolci dei tuoi passi nel mondo, / ciuffetti di vita rimasti impigliati / come lana candida d’un agnello / svanito lieve per il sentiero / d’erbe e di spine degli anni”. Anch’io, dice il poeta e coniuge, “devo dire qua e là che sei morta, / ma solo tu ed io sappiamo / che non è vero”.
“Basta che ti chieda un nulla / - aggiunge Lapucci in un’altra poesia - e tu dal nulla me lo porgi, / cara, / ancora più vicina d’una volta. / Gli avrai messo a soqquadro il Paradiso / per darmi di là sempre la mano. / Forse non ricordava, quella notte / che il suo manto passò / come il vento d’ottobre sulla ghianda, / che tu non hai misura nell’amore”.
E poi l’incontrarla di nuovo in sogno, come se fosse lì accanto, appena tornata, per l’essersi stufata di quell’assenza, prolungata e poco giustificata: “La prima volta che alla tua ora / non mi hai svegliato / è la prima notte che ti ho sognato: / sei entrata silenziosa / per non svegliarmi come sempre facevi. / Sei apparsa sulla porta / con la giacca dal bordo blu, / le chiavi in mano, la borsa col foulard / e una busta, sorridevi come quando l’avevi fatta grossa. / - Anna, t’ho detto, / già non ci sono più i tuoi vestiti, / ma ne faremo di più belli… / - Ma cosa vuoi che sia? / - Da dove vieni? / - Alla fine ho detto basta e son venuta via”.
Anna Maria Antoni amava in particolare dipingere fiori e alcuni suoi quadri fanno nel libro da contrappunto ai versi del marito, che quindi spiega come sia stato “con uno sguardo verso la vita e la sua affermazione, piuttosto che verso la perdita e la fine, che si è composto questo libro a quattro mani”. Perché “altro non resta al naufrago / nel carcere dell’isola perduta / che riempire vecchie bottiglie di parole / e vederle andare sui flutti della notte, / senza speranza, né disperazione.”
Ci sono echi di vari nostri grandi poeti, nei versi di Lapucci, e in particolare ci sembra di scorgerne di Giorgio Caproni, per l’unione salda di sobrietà linguistica e forza espressiva. Ma alla fine di questo piccolo quanto prezioso volume di versi vengono forse in mente anche le parole di una delle più belle canzoni di Francesco Guccini, Incontro, nei suoi versi finali: “siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, e il cuore di simboli pieno”. Nel caso di questo Diario d’un istante, sebbene il cuore sia davvero pieno di simboli, lo sguardo della moglie amata resta invece sospeso in quello del marito, e le frasi non sono vuote, ma limpidamente evocative. In questo senso, potremmo anche dire, come Juan Ramón Jimènez ne Il viaggio definitivo, che siamo tutto ciò che continuerà a far risuonare il nostro sguardo sulle cose, la sua erratica nostalgia della vita:
“E me ne andrò. E resteranno gli uccelli / a cantare: /e resterà l'orto, col suo albero verde / e col suo pozzo bianco. / Ogni sera il cielo sarà azzurro e placido: / e suoneranno, come questa sera, / le campane del campanile. / Moriranno quelli che m'amarono, / e la gente si rinnoverà ogni anno: / e in quell'angolo del mio orto fiorito e incalcinato / il mio spirito errerà, nostalgico... / E me ne andrò: e sarò solo, senza focolare, senza albero / verde, senza pozzo bianco, senza cielo azzurro e placido.../ E resteranno gli uccelli a cantare.”
Quel che resta è un cuore pieno di simboli, pieno delle parole che riempiono bottiglie destinate a perdersi nei flutti della notte. È un orto, un pozzo bianco, il suono delle campane di un campanile, è insomma tutto quanto resta solo nel cuore a scandire, a setacciare il ricordo, è l’intarsio che disegna una cicatrice dolorosa nella memoria, e poi la guarisce, istante dopo istante, avendone meticolosa cura.
Alla fine, non si capisce se ciò che resta sia l’orto col suo pozzo bianco, se siano loro a sopravvivere a chi li amava e a perpetuarne lo sguardo, o viceversa, se sia lo sguardo di chi non è più, la sua permanenza nell’anima di chi ancora vive, a sostenere quelle cose, a dar loro ancora vita, quell’alone di senso e quel potere evocativo che continuano a possedere e trasmettere. Ma forse non si può sapere: ce lo fa capire bene un’altra poesia di Jimènez, Soavità: “Sostiene la foglia secca / la luce che l'incanta, / o la luce /la foglia incantata?”.
C. Lapucci, Diario di un istante, Le Sàmare editrice, Firenze, 2019.