Essere un altro, nei sogni di altri
Nell’introduzione a Lo specchio che fugge, il volume di racconti di Giovanni Papini pubblicato in traduzione italiana ne La biblioteca di Babele, la storica collana di Franco Maria Ricci curata dallo stesso Borges, quest’ultimo spiega le ragioni della sua ammirazione per uno degli autori che, insieme a Dante e a Croce, lo indusse a imparare l’italiano e che oggi è spesso relegato, anche in molti manuali liceali, entro desolanti spazi marginali.
“A somiglianza di Poe, che senza dubbio fu uno dei suoi maestri, Giovanni Papini non vuole che i suoi racconti fantastici appaiano reali. Il lettore sente dall’inizio l’irrealtà dell’ambito di ciascuno. Ho citato Poe; – continua Borges – potremmo aggiungere che questa tradizione è quella dei romantici tedeschi e delle Mille e una Notte. Questa convinzione di irrealtà corrisponde a ciò che sappiamo del suo destino, sempre insidiato dall’agguato dell’incubo, che inesorabilmente lo accerchiò negli ultimi anni”.
La silloge di racconti in oggetto inizia con Due immagini in una vasca, in cui un uomo si specchia nel riflesso acqueo della sua immagine di sette anni prima. Dopo aver constatato che soltanto l’impossibile diviene reale, dato che solo l’impossibile condivide col reale una dimensione assoluta, prenderà atto che dalla convivenza con quel se stesso anteriore scaturirono per lui alcuni giorni d’impreveduta gioia, che poi, a poco a poco, si trasformò tuttavia in insofferenza e disprezzo.
Nel secondo racconto, Una storia completamente assurda, un uomo trova per caso nel libro scritto da un altro, a lui in precedenza ignoto, il resoconto esatto della sua vita, presentata come fosse una storia immaginaria, storia che il suo inopinato protagonista in carne ed ossa confesserà poi all’autore di trovare “stupida, noiosa, incoerente e abominevole”.
In Una morte mentale si teorizza invece la libera scelta del lento suicidio quotidiano e si allude a quella morte per inedia che ha caratterizzato la vita di molti mistici, al suicidio ascetico, all’estinzione non violenta di quella volontà di vivere di cui parlano il buddismo e Schopenhauer, perché soltanto chi vive nel cono di luce che la morte proietta sulla vita potrà assaporarla pienamente.
In un modo “intimo, nuovo e triste” L’ultima visita del gentiluomo malato rappresenta invece per Borges “il secolare sospetto che il mondo – e nel mondo, noi – altro non sia che i sogni di un sognatore segreto”. Vi si narra di qualcuno che esiste solo in quanto viene sognato da qualcun altro e che cesserà di esistere al suo risveglio. Questo padrone addormentato della vita di un altro può viverla tutta anche in un’ora soltanto, non ha paura di nulla e conduce incessantemente colui che viene sognato tra incubi popolati da mostri, da gnomi e fantasmi che non riescono però ad avere il sopravvento sulla sciocca monotonia del sogno che lo avvolge.
In Non voglio essere quello che sono questa monotonia si trasforma nel disgusto e nella nausea di se stessi, nel desiderio di sloggiare dal proprio corpo per trasformarsi in un altro dotato di un altro spirito: non si tratta dunque del desiderio di “non essere”, ma proprio di “essere un altro”, o almeno d’imparare a soggiornare sulla soglia della propria anima senza temere l’oscurità che c’è fuori. Secondo Borges, Non voglio essere quello che sono costituisce “l’espressione perfetta di un anelito che tutti gli uomini hanno sentito” e che nessuno ha mai scritto.
Chi sei è il racconto di una repentina invisibilità, del mancato riconoscimento, da parte di un’intera comunità di amici e conoscenti, di un protagonista che, non ricevendo più da loro alcuna lettera o notizia, ha l’impressione d’essere divenuto inesistente per qualche colpa oscura a lui ignota. Solo dopo aver sperimentato questa condizione parossistica e del tutto nuova avrà finalmente accesso a se stesso e potrà instaurare con le persone a lui care relazioni autentiche.
Ne Il mendicante di anime il protagonista narratore si cimenta nell’impresa di raccontare una vita perfettamente normale. Cerca quindi una persona che ne abbia una del genere e dopo averla individuata induce colui che aveva avuto in effetti, almeno fino a quel momento, una vita priva di qualsivoglia nota di rilievo a raccontargliela, per scoprire alla fine che l’unica avventura di una così sbiadita esistenza era costituita proprio dall’incontro col suo narratore.
Qualcuno si offre di vivere al posto di qualcun altro anche ne Il suicida sostituito: in particolare, si offre di uccidersi al suo posto. Un’esistenza insignificante avrebbe dovuto indurre infatti chi riceve l’offerta a togliersi la vita da lungo tempo, ma non avendo il coraggio di farlo, per scuotere quell’anima sterile dal suo torpore un fedele amico deluso, che aveva sempre riposto in lui la sua fiducia e la sua stima, gli propone di suicidarsi in sua vece, confidando così di poterlo restituire al suo destino.
Lo scambio di vita, o almeno di qualche giorno di vita tra esseri umani diversi costituisce il tema centrale anche ne Il giorno non restituito: qualcuno ha una figlia malata e cerca di comprare per lei qualche giorno di gioventù e di forza da chi ne ha da vendere. La scelta ricade su una principessa giovane e bella, che riceve la seguente proposta: “se volete darmi uno dei vostri anni ve lo renderò a poco a poco, giorno per giorno, avanti che finisca la vostra vita. Quando avrete compiti ventidue anni invece di passare al ventitreesimo vi troverete più vecchia di un anno ed entrerete nel ventiquattresimo. Voi siete ancora molto giovane e non vi accorgerete quasi del salto, ma io vi renderò fino all’ultimo i trecentossantacinque giorni, a due o tre per volta e quando sarete vecchia potrete riavere a vostra volontà delle ore di autentica giovinezza, dei ritorni improvvisi di salute e bellezza”. Alla fine, il debito contratto dal protagonista non sarà saldato completamente per un solo giorno, e con una giustificazione tutto sommato plausibile.
I paradossi temporali che animano le prospettive filosofiche di cui i protagonisti di queste brevi storie sono più o meno esplicitamente portatori costituiscono anche alcune delle ipotesi fantastiche o metafisiche ricorrenti nell’opera di Borges, che non a caso considerava la filosofia un ramo della letteratura fantastica e il dialogo col doppio, col nulla e col tempo una delle principali vocazioni di entrambe. Nel penultimo racconto del volume il tema del tempo appare di nuovo in primo piano e con esso il mito faustiano di un attimo di vita piena che sia in grado di dare un senso a tutta un’esistenza.
Immaginate degli uomini colti di sorpresa dalla morte, ma ancora in piena coscienza un istante dopo: forse qualcuno sarà lieto che proprio in quell’istante il destino lo abbia reso immobile? “Credete voi che per uno solo di questi uomini fosse quello il momento di Faust, il momento bello che vorremmo fermare, fissare e conservare per l’eternità?” Ne Lo specchio che fugge – il breve racconto che dà il titolo al volume - la questione centrale viene proposta in questi termini, e la risposta non è confortante: “Voi non credete certamente questo, non potete credere questo”.
Ogni uomo vive infatti proiettato nel futuro dalle sue speranze e dalle sue illusioni: “tutta la sua vita è fatta di sogni, d’ideali, di progetti, di aspettative” e se ad un tratto gli si dicesse che deve morire tutto ciò che ha fatto perderebbe ogni gusto e ogni colore. Ogni vita non è che il sacrificio di un tempo presente ad un tempo futuro e quando il futuro scompare dall’orizzonte anche il presente perde il suo senso, perché cessa di essere anche l’inizio di un avvenire. Allora si scopre che “tutto il valore dell’oggi era nel domani e il domani valeva soltanto per un altro domani”, e così fino all’ultimo oggi, all’oggi definitivo. La vita allora si prospetta - scrive Borges - come “una insoddisfatta e infinita serie di vigilie”, concezione questa che era stata diversamente declinata anche da qualche illustre poeta o scrittore antecedente, a iniziare da Leopardi.
I racconti contenuti in questo libro sembrano dunque intrattenere un gioco angoscioso e sorprendente col tempo: come scrive ancora Borges, sembrano provenire “da un’epoca in cui l’uomo si reclinava sulla sua malinconia e i suoi crepuscoli”. Questi non sono oggi scomparsi, forse non lo saranno mai, “anche se l’arte li veste con costumi diversi”, e nutrono da sempre un genere di letteratura poco loquace, che sa far affiorare in modo limpido e perentorio i nodi fondamentali dell’esistenza. È quanto accade ancora oggi con uno scrittore “immeritatamente dimenticato” come Papini.