Hume e Rousseau, ovvero Atene e Sparta

   L’ultimo saggio di Lorenzo Infantino (Cercatori di libertà, Rubbettino Editore) prende spunto dalla convinzione che una civiltà non sia in grado di prevedere il proprio progresso. Questa circostanza dovrebbe indurci a una maggiore modestia e a una più cauta fiducia nelle leggi della storia.  Si tratta a ben vedere di una concezione antistoricista già enucleata in modo articolato da Karl Popper, ma che Infantino sviluppa attraverso un percorso critico originale e ricco di spunti utili per approfondimenti ulteriori. Particolarmente interessante è la prima parte del saggio, che è caratterizzata da un confronto tra la visione politica di Hume e quella di Rousseau, con una dettagliata ricostruzione storica della loro relazione umana e culturale.  

   Fu per prima Mme de Boufflers a chiedere a Hume di ospitare Rousseau in Inghilterra, anche per evitargli d’incorrere negli effetti di un mandato di cattura spiccato a suo carico dopo che l’Émile era stato condannato al rogo. Raggiunto da un messo che lo avvertiva del suo imminente arresto, Rousseau si vestì di fretta e dopo aver pensato in un primo momento di rifugiarsi a Ginevra ci ripensò e decise di recarsi in Inghilterra da Hume. Ma alcuni mesi dopo, in seguito ad una burla che urtò la sua suscettibilità, i loro rapporti iniziarono a deteriorarsi progressivamente, così da portare meglio alla luce anche le profonde differenze tra le loro concezioni filosofiche e politiche.

   Quanto arriverà a pensare Hume di Rousseau “non è diverso da quello che pensavano gli Enciclopedisti. Già in una lettera inviata a Mme de Boufflers il 23 gennaio del 1763, lo scozzese aveva affermato: ‘ci sono ragioni per sospettare che egli scelga i suoi temi, più che per convinzione, per il piacere di mostrare la sua inventiva e sorprendere il lettore con i suoi paradossi’ ”.

   Prima di Hume, già Voltaire si era espresso criticamente nei confronti del pensatore ginevrino, senza fargliene mistero. Come ricorda ancora Infantino, dopo aver avuto una copia del Discours sur l’inégalité parmi les hommes, Voltaire “aveva scritto a Rousseau (30 agosto 1755): ‘Ho ricevuto, signore, il vostro nuovo libro contro il genere umano, vi ringrazio […]. Non è stata mai spesa tanta ingegnosità per renderci simili alle bestie. Quando si legge la vostra opera, viene voglia di camminare a quattro zampe’. Voltaire aveva poi aggiunto: ‘Tuttavia, poiché è da più di sessant’anni che ho perduto tale abitudine, sento che mi è impossibile riacquistarla’; e ancora: ‘Non posso più imbarcarmi per andare a trovare i selvaggi del Canada’, perché le ‘malattie a cui sono condannato m’impongono di avere disponibile un medico dell’Europa […], mi limito a essere un tranquillo selvaggio, nella solitudine che ho scelto vicino alla vostra patria’ ”.

   La fine ironia di Voltaire può aiutare a comprendere meglio anche quell’irriducibile contrapposizione tra Hume e Rousseau che coinvolge molti grandi temi della riflessione filosofica illuminista, come lo stato di natura, il contratto originario, la proprietà privata, la natura del denaro o delle arti. Hume rifiutava “l’idea di un inizio della società” e non esitava “a considerare lo stato di natura ‘come una semplice finzione, non diversa dall’età dell’oro inventata dai poeti’ ”.  Ma non solo: era anche convinto che le regole della morale non fossero “conclusioni della nostra ragione” e che quindi non ci fosse “una scienza del Bene e del Male”; il che è, secondo Infantino, “l’acquisizione che sta alla base della libertà di coscienza”.   

   A differenza di Hume, Rousseau ha inseguito l’illusione che la volontà del singolo potesse essere annullata in un “punto di vista privilegiato sul mondo”. Poi, quando si rese conto di avere imboccato una via senza uscita riconobbe che per rendere efficace e reale un simile punto di vista ci sarebbe voluta “un’intelligenza superiore” in grado di comprendere tutte le passioni degli uomini senza provarne alcuna. Pur non avendo alcun rapporto con la nostra natura, avrebbe dovuto conoscerla a fondo ed essere in grado di conseguire la propria felicità indipendentemente da noi, ma avendo al tempo stesso seriamente a cuore la nostra. In pratica, ammise che ci sarebbero voluti degli Dei “per dare leggi agli uomini”, il che in effetti costituisce – come rileva Infantino – “la solenne dichiarazione del suo fallimento: perché l’onniscienza non è una prerogativa umana”.

 

   Ma le differenze tra Hume e Rousseau sono così numerose che sarebbe difficile qui riassumerle tutte. Limitandoci alle più importanti, si può per esempio aggiungere che per Hume la proprietà privata discende dalla “condizione di scarsità a cui soggiace l’uomo” e che il diritto “serve per delimitare i confini fra le azioni, cioè per regolare il conflitto sociale”. Hume ha inoltre mostrato i vantaggi della cooperazione volontaria e ha visto nella moneta l’indispensabile strumento della vita aperta allo scambio, riconoscendo che, “in tempi in cui l’operosità e le arti fioriscono, gli uomini sono costantemente occupati e godono del premio tanto dell’occupazione quanto di quei piaceri che sono il frutto del loro lavoro”.

   Ebbene, spiega Infantino, “nulla di tutto ciò si trova in Rousseau. Sulla proprietà privata, il suo giudizio sembra altalenare: nel Discours sur l’inégalité, viene condannata, perché ritenuta la causa del conflitto sociale, anziché l’indispensabile strumento per la sua regolazione; nel Discours sur l’économie politique e nel Contrat social, viene accettata; nel Projet de constitution pour la Corse viene rigidamente circoscritta”.

   In realtà, “il modello di società a cui Rousseau rimase sempre fedele è quello del collettivismo spartano: nel Discours sur les sciences et les arts definì Sparta una ‘repubblica di semidei più che di uomini’; nel Discours sur l’inégalité respinse la possibilità di riaggiustare ‘continuamente’ le cose e affermò l’esigenza di riplasmare l’esistente, facendo ‘piazza pulita, scartando tutti i vecchi residui, come fatto da Licurgo a Sparta, per poter poi costruire un buon edificio’. Il modello spartano è reiteratamente proposto nell’improvvida Lettre a M. d’Alembert; Sparta è presente nel Contrat social; è il punto di riferimento nel Projet de constitution pour la Corse, dove vengono addirittura proposte l’autarchia e l’abolizione del denaro, nonché il calcolo in natura; e Sparta ricompare nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne, testo in cui si rammenta che ‘Licurgo, per sradicare la cupidigia […], non ha eliminato le monete, ma le ha fatte di ferro’ ”.

   L’adozione di Sparta come proprio modello sociale e il rifiuto del denaro, che è il mezzo della libertà di scelta individuale, indicano chiaramente l’ideale politico di Rousseau. Del resto, ciò che scrive contro la scienza, le arti, il teatro, le città e il lusso costituisce un indizio eloquente della sua concezione poco liberale della società. Le divergenze teoriche tra lui e Hume non si limitano quindi ad aspetti occasionali o marginali della loro relazione in principio amichevole. Per esempio, “Hume pensava che l’Inghilterra godesse, ‘se non del migliore sistema di governo, perlomeno del più completo sistema di libertà mai visto e conosciuto dal genere umano’. E, richiamando l’esperienza del terrore vissuta durante la Rivoluzione puritana, era dell’idea che il ‘governo popolare’ avrebbe sradicato ogni forma di libertà, perché avrebbe mandato in pezzi la costituzione e assunto un potere illimitato e vessatorio”. Rousseau era invece di tutt’altro avviso e pensava che il popolo avesse solo l’illusione di essere libero; per lui i deputati del popolo non potevano essere realmente i suoi rappresentanti, ed era convinto che il popolo non avesse mai avuto propri rappresentanti né nelle antiche repubbliche né nelle monarchie.

   Benjamin Constant confermerà poi le riserve di Hume sul concetto di sovranità popolare quale viene concepito da Rousseau, sostenendo che non appena la sovranità deve fare uso del potere “l’azione posta in essere nel nome di tutti è necessariamente, ci piaccia o no, l’azione di un singolo individuo o di pochi individui, accade cioè che, nel sottomettersi a tutti […], ciascuno si sottomette a coloro che agiscono nel nome di tutti”.

   Anche sotto questo profilo, Constant può essere considerato un degno erede sia del filosofo scozzese che della migliore tradizione illuminista francese. Come infatti osserva Ernst Cassirer, “là dove Voltaire, d’Alembert, Diderot vedevano semplici difetti della società, semplici errori della sua organizzazione, che si sarebbero dovuti man mano correggere, Rousseau vedeva piuttosto la colpa della società”. Coerentemente con questa convinzione, deduceva quindi che fosse legittimo “raderla al suolo e riedificarla dal nulla. Essa è nata da un patto fraudolento, mediante il quale il ‘ricco’ ha realizzato il ‘progetto più meditato che lo spirito umano abbia mai formulato: utilizzare a proprio vantaggio le forze di coloro che l’attaccavano, fare degli avversari i suoi difensori, ispirare loro altri princìpi e dar loro altre istituzioni, che gli fossero tanto favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario’. Occorre perciò un nuovo ‘patto sociale’, che cancelli quello esistente. La promessa rousseauoiana è una forma di associazione che con tutta la forza comune difenda e protegga la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ciascuno, unendosi a tutti, obbedisca […] soltanto a se stesso’ ”.

   Ciò è secondo Infantino quanto Rousseau ha promesso: “ma l’obiettivo che intendeva conseguire era ben altro: munire la ‘volontà generale’, che in definitiva coincide poi con la volontà di chi si trova al potere, di una ‘forza reale superiore all’azione di ogni volontà particolare’: perché, ‘se le leggi delle nazioni potessero avere, come quelle della natura, un’inflessibilità che mai nessuna forza umana potesse vincere, la dipendenza dagli uomini ridiventerebbe allora quella dalle cose’. È in questo modo che Rousseau si prefiggeva di edificare il ‘regno della virtù’. Sparta era semplicemente una società collettivistica. Ma il collettivismo ‘giustificato’ dall’idea della redenzione dal male produce, come abbiamo tristemente sperimentato, il terrore totalitario. Caratteristica di ogni forma di totalitarismo è promettere machiavellicamente la soluzione dei ‘problemi maledetti’ della condizione umana. E tuttavia ciò a cui realmente punta o che, in ogni caso, realizza è la più violenta e onnipervasiva repressione della libertà individuale di scelta”.

 

Lorenzo Infantino, Cercatori di libertà, Rubbettino Editore.