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Conversazioni d'amore in una stanza vuota
Era mai stato felice Evgenij Petrovič? Sì, lo era stato molto, ma da tempo non lo era più. Da quando la donna che aveva amato era scomparsa lui si aggirava nella sua vita senza una meta e la successione metodica delle sue giornate pareva sospesa sopra la membrana sottile di un senso arcano, su una superficie piatta e scivolosa dove non c’era più spazio per alcuna percezione piena della propria esistenza.
Il protagonista di questo lungo racconto, o breve romanzo, di Nina Berberova - la scrittrice russa nata San Pietroburgo nel 1901 e morta a Filadelfia, negli Stati uniti, nel 1993 – è una persona a tratti spaesata, incapace di cambiare, di vivere come gli altri, e in cerca di un centro per la propria anima. Per emigrare da Parigi negli Stati Uniti cerca di vendere due orecchini, ma una delle due perle è intaccata da un “male nero” che ne abbatte drasticamente il valore. Per racimolare il denaro necessario per partire decide allora di condivide la stanza che ha in affitto con Alja Ivanova, una ragazza che balla all’Empire.
Il viso di Alja “formava un ovale perfetto e il collo risultava un po’ troppo lungo”; aveva capelli lisci e orecchie strette, un colorito piuttosto pallido, che emanava una certa purezza. Gli occhi e il sorriso non erano mai ambigui e tutto il suo essere “comunicava limpidezza”. Anche il suo corpo, in cui ogni muscolo era ben allenato a causa del suo lavoro, assomigliava al suo viso: “era puro, lindo e vagamente etereo”, e quando il suo profilo era chinato sulla pagina di un libro, mentre con la lunga mano magra si ravviava i capelli, la sua presenza nella stanza dove convivevano lo rendeva stranamente felice.
Quando Evgenij Petrovič finalmente fu in grado di acquistare il biglietto per l’America lei gli chiese se non avesse voglia invece di restare. Quella di Alja fu una sommessa dichiarazione d’amore, che lui non potè assecondare. Il suo impegno errabondo con se stesso lo condusse a New York, dove strinse un rapporto d’amicizia con la figlia di Lev L’vovič Kaljagin, la persona presso cui trovò lavoro come segretario-factotum. Anche questa nuova amicizia nacque da conversazioni senza tempo nei bar: con Alja erano stati quelli di Parigi, ora sono quelli di New York.
Ljudmila L’vovna trovava che la felicità non fosse lo scopo ultimo della vita e l’espressione dura e tagliente del suo viso confermava questa sua convinzione. Durante uno dei primi dialoghi con Evgenij Petrovič ebbe però l’impressione che non avesse un volto comune. Quando glielo disse erano seduti in bar e lui rimase stupito, tanto che rovesciò inavvertitamente il bicchiere sul tavolino. Quindi ritenne opportuno parlarle del suo amico Družin, che era impossibile guardare senza mettersi a ridere. Avendo capito che avrebbe potuto far ridere anche lei aggiunse che Družin assomigliava a un cavallo. Non solo, amava solo persone che somigliavano ai cavalli, e per trovare persone del genere sognava di fondare la società segreta dei volti equini.
Ljudmila rise di gusto, ma poi tornò a farsi taciturna e rimasero a lungo in silenzio. Dopo un po’, a poco a poco, però i suoi lineamenti tornarono ad addolcirsi, come se in lei ci fosse stato un radicale mutamento. Incominciò ad avere una visione dell’universo e della storia meno aspra, tanto da immaginare che la teoria, in voga in un passato non troppo remoto, secondo cui in paradiso ci si annoia mortalmente, mentre gli uomini più interessanti stanno all’inferno, fosse sbagliata: “in paradiso Socrate conversa con Omero e tutti li possono ascoltare, all’inferno invece non c’è nient’altro che una noiosa burocrazia e degli impiegati ripugnanti”.
Evgenij e Ljudmila continuano a parlare, di tutto e di nulla; lo fanno sempre più spesso, con un’impressione avvolgente di leggerezza. Così almeno pare ascoltando i loro dialoghi, che sono poi la brezza fresca che percorre tutto il romanzo. La scoperta che è possibile comunicare lo attraversa, lasciandoli talora increduli e ancora più spaesati. Parlano di città, in particolare di quella cui lui sembra destinato, Chicago. Lei non c’è mai stata e non riesce a immaginarsela. Lui le dice che Družin gli ha scritto da lì e che quindi potrebbe parlargliene. Ebbene, Chicago sembra uscita da un’incisione del Piranesi, ma non il Piranesi dei musei, bensì da quello, suo discendente o sosia, e nostro contemporaneo, che ama lavorare l’acciaio.
Al termine della sua descrizione Ljudmila gli dice, dopo aver tagliato una pera col coltello e mentre ne offre a lui un pezzetto con la forchetta, che secondo lei la sua Chicago non esiste affatto. Le pare, dalle sue parole, una città terribile e gigantesca, che non avrebbero mai visto, sebbene in un certo senso fosse come se già ci vivessero. Evgenij Petrovič obietta che questo vale per lei, e che lui invece l’avrebbe vista.
Dopo essere rimasti per un po’ in silenzio, lei ne dedusse, voltandosi verso un grande specchio azzurro appeso alla parete, che forse il suo non era un naso abbastanza equino. “Ha notato che le donne invecchiando cominciano a somigliare a dei pesci, a degli uccelli, o a dei cagnolini ammaestrati? Credo che tra una ventina d’anni apparterrò alla terza categoria”. Pronunciò queste parole dopo aver cambiato radicalmente espressione; Ljudmila non rideva più, ma poi all’improvviso aggiunse: “se avessi un volto equino mi porterebbe con sé?”.
Evgenij non la portò con sé e andò effettivamente a Chicago da solo, ma ripensò spesso a lei. Gli tornò in mente quello che gli aveva detto una sera, e cioè che prima o poi avrebbero scoperto che le stelle sono molto più vicine di quanto non si creda. In quel momento erano sdraiati sulla sabbia e Ljudmila teneva la mano appoggiata sulla sua. Ripensò a una frase del suo ex marito, secondo il quale la sua vita sembrava azionata giorno e notte da un minuscolo meccanismo di precisione. Allora ritrasse la mano e si girò all’improvviso su un fianco.
Dopo qualche istante, mentre era ancora voltata, gli disse che ogni istante passato a parlare con lui le sembrava prezioso, che da quando lo frequentava non si sentiva perduta, confusa, insicura, e che era felice. Evgenij rispose che era stato sposato, per quindici anni, e che anche lui era stato felice. Ljudmila si sentì dapprima ingannata, ma poi gli chiese di sposarla, perché lui non aveva paura di nessuno, nemmeno di lei, ed era libero e sincero. Per questo lo avrebbe sposato.
A Chicago Evgenij Petrovič cercò di guarire dal suo male nero, ma senza riuscirvi. Il luminoso volto di Alja continuava talora ad accompagnarlo e immaginava che Ljudmila L’vovna stesse conversando in paradiso con Omero. Lui andava in giro per le strade vivendo in luoghi che gli rimanevano estranei. Era diventato uno specchio che non rifletteva più nulla. Era stato felice quando sua moglie gli stava accanto e la musica e il cielo stellato gli giungevano filtrati attraverso la sua persona. Oggi gli sembrava di non avere le risorse necessaria per riparare la perdita o accettare la sventura, per sfruttare con talento la catastrofe.
Prima che quel palazzo crollasse loro addosso, dopo aver fatto tremare lo scantinato in cui si trovavano, avevano vissuto una delle notti più felici e terribili della loro vita. Le lacrime che scivolavano dalle palpebre di sua moglie mentre la teneva tra le braccia erano lacrime di gioia. Poi iniziarono a cadere dei pezzi d’intonaco e sotto il suo peso protettivo lei non si muoveva più, taceva, e “un sottile rivolo di sangue le cominciò a colare lentamente dal piccolo orecchio rotondo”.
Da quel giorno per lui erano passati milioni di anni. Sopra la sua testa ora turbinava un cielo grigio e cupo: Chicago non corrispondeva esattamente a ciò che si aspettava. Ma in fondo aveva ancora un po’ di tempo per vivere, e dal momento che anche i morti resusciteranno, perché non sarebbe potuto resuscitare anche lui che era ancora vivo?
A Parigi Alja lo aveva pregato di farle sapere della sua nuova sistemazione e Ljudmila L’vovna gli aveva chiesto di raccontarle di Chicago e di Družin: ma sicuramente ormai aveva capito che la sua esistenza era stata solo un’invenzione di chi è solito partire alla ventura, senza né mete né indirizzi, di uno che è abituato a vivere in posti pieni di gente come in stanze vuote, dislocate in imprecisati deserti, di chi ha bisogno di qualche finzione letteraria per non sentire l’alito del nulla, per essere altrove e farsi rapire via dalla vita.
Nina Berberova, Il male nero, trad. it. di Gabriele Mazzitelli, TEA editore, 1992 (su licenza di Guanda editore, Parma, 1990).