Il lettore, il narrare e gli elenchi del telefono
Lo scrittore svizzero Peter Bichsel abitò a Bergen, nelle immediate vicinanze di Francoforte, dopo aver ricevuto il premio “Stadtschreiber von Bergen”. Quando si riceveva questo premio era infatti consuetudine risiedere per un anno in città a spese della comunità, assumendo una funzione pubblica di scrittore. Il lettore, il narrare, raccoglie proprio cinque lezioni tenute da Bichsel nel gennaio e febbraio del 1982, quando abitava a Bergen, nella vicina università di Francoforte.
La convinzione che emerge nell’arco di tutto questo piccolo libro è che la letteratura nasca soltanto nella letteratura, “dove non esistono iniziatori, ma soltanto imitatori che riflettono. E non è la realtà ad essere imitata, bensì la situazione del narrare”. La letteratura è cioè per Bichsel qualcosa di diverso dalla vita ed entrambe non necessariamente hanno bisogno l’una dell’altra, o almeno non ne hanno bisogno in modo simmetrico e proporzionale.
A questo proposito l’autore riporta un suo incontro con un vecchio saggio della tribù degli Houssa, nel Sahara, il quale era solito raccontare storie per impedire a sé e agli altri di parlare: “raccontare storie per non dover parlare: anche questa – secondo Bishsel - può essere una delle ragioni dell’esistenza della letteratura”, che “non è la vita. Si può vivere senza letteratura. La letteratura è qualcosa di accessorio. Nella letteratura la lingua assume un’altra funzione che nel parlare. La letteratura può scaturire dall’assenza di parola”.
La lettura è poi cosa ancora diversa dalla letteratura, e non dovrebbero essere confuse. La prima può essere infatti considerata un’esigenza quasi fisiologica, e persino corporea. Ogni vero lettore è dipendente dalla lettura non meno di quanto un alcolista, un fumatore o un tossicodipendente può esserlo dalle rispettive sostanze cui è dedito. La dipendenza del lettore non è però relativa ai temi o ai contenuti di ciò che legge, ma alla stessa narrazione. I veri lettori hanno bisogno di leggere e tendono a provare gratitudine e pietà per gli autori che gli consentono di farlo con piacere.
Come i loro autori, anche i lettori hanno un rapporto particolare col tempo, che non è determinato dal contenuto, ma dallo stesso narrare. Dato che ogni narrazione ha un suo tempo, e “ciò che ha un suo tempo è un simbolo della finitudine e della nostra conseguente tristezza”, può capitare che un lettore provi affetto, un sentimento d’amicizia o d’amore per uno scrittore, tanto da volerlo andare a trovare sulla sua tomba.
Mentre cercava di togliere della neve dalla tomba di James Joyce, a Zurigo, dov’è sepolto, a Bichsel capitò di ferirsi al dito di una mano urtando contro lo spigolo tagliente di una scritta in metallo. Quella scritta era proprio il nome di James Joyce, e ripensando a quel momento Bichsel, anche grazie a qualche goccia di sangue, si rese conto in modo chiaro di quanto fosse strano il dispiacere e la pietà che i lettori possono provare per gli scrittori, e nel caso di Joyce così strano da riuscire a trasformare ai suoi occhi “il testardo irlandese in un mite classico”.
Insieme a Joyce, anche Joseph Conrad era stato uno degli scrittori più amati da Bichsel, che fin da bambino aveva avuto dei problemi con gli autori di libri per l’infanzia. Per lui erano sempre troppo ingenui e “agivano come se fossero responsabili delle ingiustizie che colpivano i loro eroi. Mi arrabbiavo – racconta - quando l’eroe veniva incolpato ingiustamente, perché sapevo che l’autore lo sapeva anche lui. Malgrado questo non si dava da fare per aiutarlo, o peggio ancora: in tali situazioni l’autore era spesso assente e piantava in asso me e il suo eroe. Anche Joseph Conrad abbandona senza pietà i suoi personaggi al loro destino, e come lettore ho dovuto pian piano abituarmici. Ma a differenza di altri autori, al momento della catastrofe Conrad era presente, non mi lasciava solo con la vittima”.
La lettura ha il grande merito, secondo Bishsel, di rendere la nostra vita sopportabile: “la nostra vita – dice - diventa sensata se la possiamo raccontare”. Ma questo non dipende dai contenuti, dalle avventure, dai fatti narrati, ma dal modo di narrarli. Quando Joseph Conrad racconta delle storie d’avventura “il lettore scopre che per l’autore non si tratta semplicemente di dare un contenuto, ma anche di riflettere sul narrare e sul metodo del narrare. È il contrario di ciò che fanno gli autori della letteratura di consumo, che ingannano i loro lettori offrendo soltanto contenuti. Da loro il lettore impara soltanto ad ascoltare, e nulla sul narrare perché, di regola, non vi si riflette affatto. La sensazione di vuoto che abbiamo dopo aver letto un romanzo giallo scadente deriva dal fatto che, con la soluzione del caso, tutto scompare, non rimane più niente. Non echeggia nessun tono narrativo”, proprio quello che potrebbe invece risultare prezioso per consentire al lettore di raccontarsi un giorno la propria vita, che è sempre più simile a quella che s’incontra nelle storie narrate piuttosto che a quella che s’incontra nella Storia.
Nelle prime infatti ha un senso, mentre nella seconda ne è priva. E tuttavia scrivere non è l’unico modo per raccontare storie. Anche un mendicante, per esempio, un venditore ambulante di fiori, ama raccontarne: “il mendicante ha un’idea dell’esistenza del narrare, dell’esistenza della letteratura. Le persone che vendono i fiori di sera, nei ristoranti, non vendono soltanto bei fiori. Nessuno li compra dicendosi: ‘Ah sì, ho assolutamente bisogno di fiori, così posso risparmiarmi la strada per andare dal fioraio’. Nei ristoranti i venditori di fiori cercano di vendere anche forme esteriori di storie”.
Analogamente, “il giovanotto che vuole comprare un’Honda, non la compra per avere un mezzo di trasporto, ma per avere un mezzo per produrre storie”. Che un mezzo simile sia poi utile o inutile, è un’altra questione, ma non dovremmo trascurare quanto traspare da simili scelte e circostanze, dai gesti degli uomini intenti a vendere un fiore o comprare una moto: nei loro volti “non sono scritte soltanto le storie vissute, ma molto di più, e più chiaramente, le storie che vorrebbero produrre” per dar un senso alla loro vita.
Di questo senso esistono spiegazioni religiose e spiegazioni filosofiche, ma anche la letteratura è in grado di fornirne di convincenti, tanto che Bichsel arriva a sostenere che noi esistiamo in quanto possiamo raccontare la vita, la nostra e quella degli altri; e sebbene le storie non servano a salvarcela, possono però renderla sopportabile.
In un altro suo libro, Questo mondo di plastica, Bichsel racconta tra l’altro che anche suo nonno amava raccontare storie. Le raccontava in quelle serate noiose e interminabili in cui aveva a disposizione lunghi intervalli di tempo che consentivano alle idee di scaturire spontaneamente dalla noia: “io ho delle idee – scrive commentando questo suo ricordo del nonno - solo quando mi annoio, quando riesco ad annoiarmi per un bel po’ e se i bei racconti iniziano spesso con la frase ‘c’era una volta’ è perché tra ciò che è accaduto e il racconto vero e proprio deve passare del tempo, il tempo della noia”.
La noia è molto importante perché possano formarsi dei veri lettori: questi sono in genere molto rari, anche perché a scuola non s’impara a leggere libri interi. Il leggere infatti comporta una buona dose di follia, proprio come avere fede, e la scuola evita di educare a coltivare la propria follia, ma tende anzi a redarguire chi si abbandona alla lettura come a una follia, punendo gli errori di ortografia e associando la lettura all’idea di premi e di punteggi.
A questo riguardo, Bichsel ricorda un episodio significativo che gli capitò a Karlsruhe, dove aveva tenuto una lettura per bambini, che alla fine gli avevano fatto delle domande scritte su dei fogliettini. Quanto tempo impiega per scrivere un racconto? Come fa a scegliere i nomi? Quanti libri ha scritto? Le domande erano grosso modo di questo tipo, e non erano né stupide né banali. Le domande non lo sono mai, solo alcune risposte lo sono. Il foglietto che però gli consegnò una bambina di nome di Anna era diverso dagli altri: aveva tirato delle righe tutte storte e poi, “a fatica, ci aveva scritto sopra delle lettere; nessuna domanda, solo un augurio: ‘Resta sempre alegro, Tua Anna’”.
Commentando quest’episodio, Bichsel dichiara di essere rimasto sempre molto affezionato a quella lettera “l” rimasta da sola nella parola “alegro”, e fa capire che il raddoppiarla gli sarebbe parso un atto triste e insensato. Era sempre stato poco interessato all’ortografia, alle nuove regole come alle vecchie: “se mi fosse interessata l’ortografia, - dice - non avrei mai scritto. È fatta apposta per impedire a me e ad Anna di scrivere (anche se io ho continuato). Adesso l’ortografia è più semplice ma è diventata una legge. Chi d’ora in poi sbaglia a scrivere, contravviene ai trattati di Stato; non è demenziale?”.
L’indirizzare l’attenzione dei giovani studenti sull’ortografia, sulle regole per scrivere in modo corretto, secondo Bichsel, che ha fatto a lungo l’insegnante, non ne fa né dei lettori né delle persone che amano scrivere, per cui queste due esperienze così significative rischiano di non poter costituire un ingrediente importante delle loro vite. Paradossalmente, è più probabile che diventi un vero lettore un pazzo piuttosto che un bravo studente, perché il pazzo legge senza secondi fini, per il puro piacere di leggere, mentre il bravo studente viene educato a leggere per prendere dei voti o far vedere che è bravo.
E a questo proposito, cioè per far capire come invece la lettura sia una passione assoluta, autonoma, che non dipende né dal desiderio d’apprendere né da quello di vivere avventure, né tanto meno da quello d’imparare a scrivere senza errori di ortografia o dal saper riconoscere delle strutture narrative, racconta una storiella, una specie di barzelletta: quella dell’uomo in un manicomio che “al suo amico consiglia di continuo libri e, ogni volta che quello gliene restituisce uno, vuole sapere se gli è piaciuto; l’altro risponde: ‘sì, bello, anche se ci sono un po’ troppi nomi e un po’ poche azioni. E lui gli suggerisce di leggere il volume 12, che è ancora più bello”. A questo punto però arriva il direttore, che vedendo i libri così commenta la scena: “ah, voi due, sempre a rubare le guide del telefono”.
Peter Bichsel, Il lettore, il narrare, trad. it. Marcos y Marcos editore, Milano, 1985.
Peter Bichsel, Questo mondo di plastica, trad. it. Marcos y Marcos editore, Milano, 1999.