Borges e la superstizione dello stile
Qualche anno fa, in Spagna, i giurati del Premio Bartolomé March a la Crítica selezionarono per la pubblicazione in volume alcuni saggi che, per ragioni diverse, potevano essere considerati esemplari (AAVV, Críticas ejemplares, Bitzoc, Palma de Mallorca, 1986).
Tra i loro autori spiccano, insieme a molti altri, i nomi di Marcel Proust, Julien Gracq, George Steiner, Edmund Wilson, Giorgio Manganelli e di Jorge Luis Borges. Il breve scritto prescelto dall’opera di quest’ultimo è introdotto nel volume da Fernando Savater, che ne riassume brevemente il senso in maniera efficace: “il suo breve commento sopra – o, meglio, contro – la superstizione etica del lettore è una succinta propedeutica preventiva per evitare questa mistica delle pagina perfetta, in cui ogni vocabolo è inamovibile e lo stato d’animo globale superfluo o intercambiabile”.
Il saggio in questione s’intitola infatti La supersticiosa ética del lector (“La superstiziosa etica del lettore”) e venne pubblicato per la prima volta a Buenos Aires, nella rivista Discusión, nel 1957. Ad esso si confà specialmente l’aggettivo esemplare per la portata delle sue conseguenze e la linearità della sua esposizione.
Borges vi sostiene che la condizione indigente della nostra epoca ha creato una “superstizione dello stile”, ovvero la credenza che il valore di un’opera letteraria consista soprattutto nelle tecniquerías (il termine è di Miguel de Unamuno) che lo caratterizzano e che dovrebbero denotare l’abilità dello scrittore, quali la sua capacità di fare uso di paragoni e figure retoriche, di creare effetti musicali e una sintassi elaborata e originale. Questa superstizione alimenta un fraintendimento essenziale della letteratura, delle sue prerogative e delle sue finalità. Coloro che credono in questa superstizione non sono tanto interessati all’efficacia di un’opera nel suo complesso, ma sono soprattutto attratti dall’esame della disposizione delle sue parti, tanto da poter non trovare un capolavoro all’altezza della sua fama quando gli artifizi tecnici ricorrenti nel suo stile non soddisfino un certo grado di deliberata complessità, o non sfoggino una <<tecnica>> che sia in grado di solleticare le corde intellettuali di un qualche ipotetico cultore della bella forma letteraria, ovvero di chi sia portato a subordinare l'emozione all'etica, a qualche “etichetta indiscussa" che sappia emblematicamente testimoniare il rispetto di una sorta di vagheggiato <<imperativo categorico>> cui la forma letteraria dovrebbe sempre attenersi.
Così, per esempio, una parte della critica spagnola ha potuto ritenere che persino il valore letterario del Quijote risulti menomato dallo stile narrativo adottato. In un certo senso, questa osservazione potrebbe risultare pertinente se si dovesse usare come parametro fondamentale per la sua valutazione estetica l’importanza che Cervantes attribuiva allo <<stile>>. “In verità – scrive Borges - basta esaminare un solo paragrafo del Quijote per accorgersi che Cervantes non era un cultore dello stile (per lo meno nell’accezione acustico-decorativa della parola) e che lo interessavano così tanto i destini del Quijote e di Sancho da non lasciarsi distrarre dalla sua propria voce”.
Il fatto che Gracián e Quevedo quasi non sembrino accorgersi dello spessore reale di quest’opera è forse una ulteriore conseguenza di questa superstizione, ma ancora più significativo è il giudizio espresso a riguardo da Leopoldo Lugones: “Lo stile è la debolezza di Cervantes, e i difetti causati dalla sua influenza sono stati gravi. Povertà di colori, insicurezza della struttura, paragrafi erranti che non si accodano con il finale, disperdendosi in interminabili circonvoluzioni”, ma anche ripetizioni e mancanza di proporzioni sarebbero solo alcuni dei difetti stilistici che possono essergli imputati.
Non meno severo il giudizio di Groussac: “se si devono dire le cose come stanno, dovremo confessare che una buona metà dell’opera ha una forma molle e disallineata, il qual fatto giustifica l’epiteto di <<umile idioma>> che i rivali di Cervantes le attribuivano. E con questo non mi riferisco soltanto alle improprietà verbali, alle intollerabili ripetizioni o giochi di parole o ai frammenti di pesante magniloquenza che ci travolgono, ma alla consistenza della sua solitamente debole prosa".
Non è senza ironia che Borges commenta: “immagino che queste stesse osservazioni saranno altrettanto giustiziere nel caso di Dostoevskji o di Montaigne o di Samuel Butler”. Ma una simile “vanità dello stile” si salda secondo Borges a un’altra ancor più patetica vanità: quella della perfezione. Non v’è infatti “scrittore di versi, per casuale e insignificante che sia, che non abbia cercato di realizzare il suo sonetto perfetto, ovvero il minuscolo monumento in grado di custodire la sua possibile immortalità”.
Questa ricerca della pagina stilisticamente perfetta dipende dall’ignoranza del principio che dovrebbe realmente presiedere alla formazione di un’opera letteraria. Borges lo riassume come segue: "tutto quello che occorre all'autore, in ciò che andrà scrivendo, è il gusto di rappresentare le cose; più questo sarà perfetto, e migliore risulterà ciò che ha scritto." Un’ipotetica <<pagina perfetta>> è quella “in cui nessuna parola può essere alterata senza danno”; ma proprio per questo essa risulta essere, di fatto, “la più precaria di tutte”, perché “i mutamenti del linguaggio cancellano i sensi secondari e le sfumature”, così da fondarla su “valori delicati” ed effimeri. Viceversa, “la pagina che ha vocazione di immortalità può attraversare il fuoco dei refusi, delle versioni approssimative, delle letture distratte, delle incomprensioni, senza lasciare l'anima nella prova."
La miglior smentita di questa superstizione è ben riconoscibile nel fatto che il Quijote è stato apprezzato o amato da molti lettori e notevoli scrittori che hanno potuto leggerlo solo in traduzione. Il suo destino e il suo successo - come del resto quelli di tutti i capolavori della storia letteraria mondiale, dall’Iliade a Guerra e pace - non poterono quindi essere fondati, come certa critica si ostina ossessivamente a sostenere, sulle superstizioni smascherate da Borges, né sminuiti da queste, perché quei lettori non erano in grado di apprezzare gli effetti delle eventuali prelibatezze stilistiche della versione originale né i suoi ipotetici difetti formali.
Il trionfo della <<superstizione dello stile>> costituisce anche la spiegazione delle odierne predilezioni per l’enfasi, per l’elezione di “parole definitive”, di parole cioè che “postulano sapienze divinatorie o angeliche o decisioni di una più che umana fermezza”. Gli scrittori che fanno un uso diffuso di tali termini - "come unico, mai, sempre, tutto, perfezione, rifinito – non si rendono conto che dire qualcosa un po' troppo è tanto inabile quanto non dirlo interamente, e che la sbadata generalizzazione e intensificazione non è che una povertà, e che così la sente il lettore."
Dopo la pubblicazione del saggio di Borges il successo della <<superstizione dello stile>> è continuato imperterrito, inducendo a dimenticare che la <<tecnica>> può essere concepita come un fattore separato e nel contempo decisivo solo quando non si ha nulla di rilevante da dire; e che, più in generale, l’uso enfatico ed imprudente di ogni lingua può provocare soltanto una sua svalutazione.
Naturalmente, anche lo stile dello scrittore e poeta argentino è a sua volta esemplare, unico e determinante nel contesto della sua opera, ma se ha potuto rivelarsi tale è proprio in quanto non è stato mai concepito come ostentazione d'abilità o ricercatezza formale e non è mai stato considerato come il dogma d'una superstizione estetizzante.
Borges conclude dunque il suo breve scritto con questa riflessione per certi versi inquietante: “Ignoro se la musica sappia disperare della musica, e il marmo del marmo; ma la letteratura è l'arte che sa profetizzare quel tempo in cui sarà ammutolita, e accanirsi sulla propria virtù, innamorarsi della propria dissoluzione e corteggiare la propria fine”.
Queste considerazioni finali hanno un sapore particolarmente attuale, perché l’odierno panorama letterario sembra sempre più fondato sulla superstizione di cui Borges ci ha parlato, al punto che coloro i quali si ostinino, da buoni lettori, a condividere il discreto monito contenuto nel presente saggio possono correre il rischio di percepirsi come <<epigoni>> di una civiltà letteraria ormai perduta.