Si pensa meglio da soli o in compagnia?
Due interviste parallele aiutano a sciogliere l’interrogativo.
Qualche anno fa, nel numero 92 della rivista Philosophie,venne pubblicato il resoconto di un dibattito intorno alla natura del pensiero filosofico: se esso sia essenzialmente solitario oppure se nasca nel dialogo e nel confronto delle idee, sviluppandosi solo in una dimensione sociale e collettiva. I curatori dell’intervista, Michel Eltchaninof e Martin Legros, si ponevano la seguente domanda: “si pensa meglio da soli o in tanti?” (Pense-t-on mieux seul…ou à plusiers?).
Il metodo che adottarono per cercare una risposta è in piena sintonia con il tema: a Jean Luc Marion, professore della Sorbona e all’Università di Chigago, e sostenitore, seppur con vari distinguo, della prima tesi, venne proposta un’intervista “in solitario”, mentre Cédric Villani (direttore dell’Istituto Henry-Poincaré e professore all’Università di Lione), Karol Beffa (compositore e cattedratico al Collège de France), Vincent Descombes (direttore della scuola di studi di scienze sociali) e Barbara Cassin (filosofa e filologa) furono riuniti intorno a un tavolo per dare vita a un confronto diretto e a un momento di “pensiero collettivo”.
Nella discussione a quattro voci che ne è nacque Vincent Descombes prospettò distinzioni utili a chiarire meglio il significato dell’espressione à plusiers, precisando che le si potevano attribuire due significati molto differenti: “collettivo” o “socialmente costruito”. Se il pensiero scientifico procede ormai quasi sempre per via “collettiva”, attraverso lo sviluppo di programmi di ricerca che prevedono la partecipazione di più ricercatori, il pensiero filosofico pare invece conservare al suo interno, nelle sue dinamiche e nella sua genesi, anse e fasi non assimilabili a nulla di collettivo. Del resto, se non fosse così, ciò comporterebbe la sua adesione a un programma preordinato e condiviso, adesione che è il contrario della stessa disposizione filosofica a pensare.
Anche il pensiero filosofico rimane comunque qualcosa di socialmente costruito, perché non può prescindere dall’appoggiarsi a una lingua, dal fare riferimento a diversi sistemi categoriali già operativi e alla loro genesi storica, nonché dal confrontarsi con le prospettive teoriche dei suoi interlocutori. Citando Thomas Reid, lo stesso Descombes ricordava poi che esistono delle “operazioni solitarie dello spirito” e “delle operazioni sociali dello spirito”, ed è in effetti a questa seconda distinzione che sarebbe opportuno ricondurre la discussione, perché il pensiero filosofico è sempre stato, quando degno di nota, costituito dall’intreccio e dall’alternanza quasi contrappuntistica di questi due momenti.
Dopo Socrate, che ha mostrato a tutti la struttura essenzialmente dialogica, e quindi sociale, del pensiero in quanto prodotto dall’azione del logos, non è forse più lecito dubitare che una tale dimensione gli sia coessenziale, ma ciò non significa che essa non venga integrata da momenti ideativi che possono scaturire solo dal lavoro solitario della coscienza, dalla sua capacità individuale d’<<intenzionare>> fenomeni e contenuti originali, così da incidere sullo stesso linguaggio e sul sistema categoriale che costituisce di volta in volta lo sfondo attivo di qualsiasi dialogo.
Proprio questa sua vocazione solitaria comporta dei rischi ineludibili e fecondi. Secondo Jean Luc Marion il pensiero umano, almeno in una dimensione filosofica, non può fare a meno di assumersi una responsabilità in prima persona e di correre il rischio, ad ogni suo passo fenomenologico, “d’esplodere in pieno volo”. Il pensare in tanti, il pensiero collettivo, costituiscono mere illusioni, e “illusioni pericolose. Si può, certo, dibattere e discutere, ma non produrre dei pensieri in tanti. Deleuze aveva ragione: un filosofo non dialoga mai, in un certo senso. Andiamo anzi oltre: in tanti, di fatto, non si pensa più, perché si comincia a dare troppe cose per scontate, senza rimettere niente in causa”.
Qualcuno potrebbe obiettare che non si pensa da soli perché ci si rivolge sempre a delle persone da cui ci si attende qualche risposta, “ma questo è vero solo in un secondo tempo. Non c’è comunità di pensieri se non ci sono dei pensieri che non sono comuni”, e il rischio in cui incorre il pensiero è quello di svilupparsi su questo secondo livello senza aver percorso e sondato in maniera creativa il primo, quello in cui ci si assume la piena responsabilità di ogni scelta lessicale e concettuale, quella in cui l’intenzione fenomenologica può dare origine a contenuti e significati in grado di mettere in discussione stereotipi più o meno profondamente radicati nella comunità e nelle prospettive teoriche più diffuse.
Un esempio ispirato al cinema può forse servire a illustrare meglio le differenze cui Marion fa riferimento: per un attore, e in particolare per un attore cinematografico ripreso in primo piano, non è difficile piangere quando la sceneggiatura lo richiede: ci sono vari espedienti per farlo in maniera abbastanza convincente. Come spiegò bene Nikita Mikhalkov durante un corso di regia tenuto a Roma una trentina d’anni fa, la cosa veramente difficile è il far nascere la lacrima in maniera naturale. Il momento in cui la lacrima nasce è quello in cui un attore può rivelare d’essere pienamente il suo personaggio.
Analogamente, il pensiero, quando acceda a una dimensione filosofica, non può limitarsi a rielaborare o sviluppare pensieri già iniziati da altri, svolgendo in questo modo il ruolo che può avergli assegnato una “sceneggiatura” complessiva e in buona parte preordinata, assimilandosi così a ciò che Heidegger definiva “pensiero calcolante”, perché il pensiero è essenzialmente individuale ed è condannato a rinascere ad ogni passo per il semplice fatto che è costretto a farlo dalle stesse impasse in cui viene ineluttabilmente a trovarsi. Esso è capace di rigenerarsi ogni volta dalle sue scorie e dalla sua ombra e a rinascere sempre attingendo ad un humus per lo più insondabile, a un dolore e a un’esperienza unici e irriducibili.
La priorità dell’Io come unica vera fonte di conoscenza deriva secondo Marion da “una situazione dialogica con un altro che può ingannarmi, che forse non dice la verità, che forse non esiste nemmeno. Ma la possibilità di questo altro minimale è sufficiente per sviluppare una struttura dialogica”, nella quale il “Je pense” costituisce la prima conoscenza e il riferimento ultimo. Non tuttavia in ordine temporale: esso non viene prima di un simile ineludibile tragitto dialogico, ma è piuttosto destinato a scandirne ogni passo producendo solo successivamente quelle evidenze o quei dubbi ulteriori che del pensiero filosofico costituiscono la trina sottile. “La prima certezza – dice Marion – giunge seconda”, perché l’io (moi) che sono scaturisce sempre da un dialogo più originario, che “passa all’esterno della differenza tra vero e falso, tra essere e non essere”, e nel quale il momento fondante dal punto di vista conoscitivo non è il primo sotto il profilo temporale, ma è destinato a intervenire, in un certo senso, sempre in seconda battuta. E in questo non può essere immune da un’autoreferenzialità di fondo, la quale implica a sua volta la percezione di un pericolo essenziale: quello di scoprirsi senza fondamenti in pieno volo, preso nelle vertigini di qualche contraddizione irriducibile. Il pensare filosoficamente è infatti un’esperienza pericolosa, sospesa sopra il filo di una libertà assoluta quanto priva di fondamenti: “Dire Je pense non è una dichiarazione di potere. Pensare consiste nell’assumersi ogni volta il rischio solitario di farsi esplodere in volo. Ma è il prezzo per lanciare la sua cifra specifica, per lanciare se-stesso”.