Due diverse interpretazioni della relatività ristretta
La velocità della luce è finita, ma poiché è la velocità massima possibile, si comporta come una velocità infinita. Questo implica che non è più valida la legge della trasformazione classica, galileiana, e che diventa valida la legge della trasformazione di Lorentz. Infatti, come sostengono Einstein e Infeld, “il numero esprimente la velocità della luce figura esplicitamente nella trasformazione di Lorentz, e vi assume la veste di caso limite, come la velocità infinita nella meccanica classica”.[1]
Ciò dipende dal fatto che la velocità della luce, oltre ad essere finita, ha la peculiare caratteristica di non poter essere superata. Come precisa Einstein: "nella teoria della relatività la velocità c ha il carattere di una velocità limite che non può essere né raggiunta né superata da alcun corpo reale". [2] Ciò la rende molto diversa da qualsiasi altra velocità v, tanto più quanto questa è inferiore a c. Einstein e Infeld notano anche come, "dalla trasformazione di Lorentz scende che un regolo si ridurrebbe a nulla se la sua velocità potesse eguagliare quella della luce. Parimenti, un orologio in moto, purché buono rallenta il proprio ritmo in confronto agli orologi davanti ai quali sfila lungo l'asta [3] e si fermerebbe del tutto qualora la sua velocità eguagliasse quella della luce".[4] Ciò è coerente con il considerare c come una velocità che "si comporta" come una velocità infinità nella meccanica classica. Cosa accadrebbe infatti se nella fisica newtoniana si potesse percorrere un qualsiasi spazio in un tempo zero? La velocità risulterebbe infinita. E se si potesse percorrere uno spazio infinito in un dato tempo? La velocità risulterebbe ugualmente infinita.
Secondo la teoria della “relatività ristretta”, in un sistema di riferimento (= SR) che si sposta con una velocità prossima a quella della luce, un orologio tenderà a rallentare il proprio ritmo e un regolo rigido ad accorciare la sua lunghezza. Una velocità infinita comporta infatti il poter percorrere un qualsiasi spazio finito in un tempo zero, o uno spazio infinito in un qualsiasi tempo dato. Se lo spazio e il tempo fossero due dimensioni separate e assolute - come nella fisica galileina e newtoniana - e la prima o la seconda fossero finite, la seconda o la prima dovrebbero tendere ad annullarsi. Ma data la costanza della velocità della luce, ovvero il fatto che questa sia non superabile, man mano che ci avvicina alla velocità della luce, poiché non si può percorrere più spazio nella stessa unità di tempo – come accade nella fisica classica – allora bisogna che il tempo si dilati, oppure che lo spazio si comprima, ovvero che il tempo tenda a divenire infinitamente lento, o che lo spazio tenda a diventare infinitamente piccolo. Se la teoria della relatività ristretta non fosse vera, sia lo spazio sia il tempo potrebbero, alternativamente, scomparire. E’ solo perché entrambi possono infinitizzarsi – cioè dilatarsi internamente, suddividendosi infinitamente – che possono evitare di scomparire alternativamente. In altre parole: o entrambi tendono a zero, o uno dei due è destinato ad annullarsi. Per questo Einstein e Infeld scrivono quanto abbiamo già ricordato, e cioè che “dalla trasformazione di Lorentz scende che un regolo si ridurrebbe a nulla se la sua velocità potesse eguagliare quella della luce. Parimenti, un orologio in moto, purché ‘buono’ rallenta il proprio ritmo in confronto agli orologi davanti ai quali sfila lungo l’asta e si fermerebbe del tutto qualora la sua velocità eguagliasse quella della luce”.[5]
Ma torniamo alla domanda a cui, in questo momento della nostra argomentazione, è necessario cercare di fornire una risposta: in che senso l’orologio dovrebbe rallentare e il regolo accorciarsi? Cioè, perché dovrebbero verificarsi entrambi i fenomeni? Potremmo rispondere, concisamente, come segue: perché né lo spazio né il tempo, intese come dimensioni separate e assolute, esistono; ciò che esiste è solo lo spazio-tempo. Già, ma perché? Perché tenendo fermo un tempo dato, o una spazio dato, considerandoli cioè come realtà assolute, l’altra dimensione – ovvero lo spazio se tengo fermo il tempo, o il tempo se tengo fermo lo spazio – dovrebbe ridursi a zero, cioè scomparire, il che sembra inconcepibile. Secondo la teoria della relatività ristretta, invece, dilatandosi il tempo e contraendosi lo spazio, lo spazio-tempo può modificarsi indefinitamente, cioè lo spazio-tempo può conservarsi accorciandosi indefinitamente il primo e dilatandosi indefinitamente il secondo.
Ma perché, quando si spostano ad una velocità prossima a quella della luce, un regolo rigido si accorcia e il tempo del suo orologio si dilata?
Per rispondere a questa domanda, bisogna considerare i due ordini di valori “costanti” che fanno da sfondo alla teoria della relatività ristretta: quelli a riposo (massa, spazio, tempo con la velocità del proprio SR) e la velocità della luce. Due velocità relative sono identiche, se prescindiamo dal loro rapporto con la velocità della luce, e all’interno dello stesso sistema inerziale, come ha mostrato già Galileo, tutto si comporta come in quiete. Ma se teniamo conto del rapporto con la velocità della luce, ciascuna di queste velocità, tra loro relative, sarà più o meno vicina a c. Essa finisce così col costituire un termine di raffronto tra le due velocità relative. Non a caso, il fattore Gamma muta col mutare della relazione v/c; poiché c è costante, muta col mutare di v. Il che significa che, col mutare di v, mutano anche lo spazio e il tempo di ogni SR. Un problema da chiarire allora potrebbe essere il seguente: mutano anche lo spazio e il tempo di ciò che si muove solidarmente con ciascun SR?
Ci sono due risposte ipoteticamente possibili: 1) No, non mutano, a meno che ciò che si muove solidarmente con SR non coincida con tutto lo SR nel suo complesso (cioè con la nave galileiana). Il tempo degli aerei che è stato misurato mentre viaggiavano intorno alla terra era realmente diverso dal tempo a terra, perché la velocità degli aerei era più vicina a quella della luce. Ma il tempo degli esseri umani a bordo degli aerei (il loro battito cardiaco) è stato a sua volta diverso? In base a quest’ipotesi non dovrebbe esserlo; 2) Si, mutano, e quindi muta anche il ritmo del battito cardiaco degli uomini a bordo dell’aereo, e l’unico motivo per cui questa differenza non è stata rilevata è che la velocità degli aerei era ancora troppo bassa. Mutano perché non solo gli aerei, ma anche i singoli esseri umani a bordo possono esseri intesi come un SR (basta far sparire l’aereo), e poiché tale SR si sposta ad una velocità che è più vicina a quella della luce rispetto a quanto non lo sia quella della terra il loro spazio-tempo deve essere diverso.
Ma nella prima ipotesi non si considera che ogni elemento che si sposta solidarmente può essere inteso come un SR, e quindi la seconda dovrebbe essere quella giusta. Infatti, se così non fosse i passeggeri potrebbero vedere, per esempio, l’orologio dell’aereo che segna un tempo diverso dal loro, rendendosi così conto di essere in moto
In base alla prima ipotesi interpretativa, sappiamo che il ritmo del battito cardiaco degli uomini a bordo non dovrebbe mutare in relazione al sistema inerziale locale in cui si muovono, e ciò perché il loro tempo muta insieme e nello stesso modo di quello del loro sistema di riferimento. La teoria della relatività ristretta concorderebbe con la relatività galileiana. Se fosse vera la seconda ipotesi interpretativa, invece, la prima ipotesi – ancora valida nella relatività galileiana – dovrebbe essere smentita alla luce della relatività ristretta einsteiniana e quindi essere smentita da esperienze concernenti corpi che si muovono a velocità prossime a quella della luce.
Ora, il dilemma potrebbe essere riformulato come segue: le velocità osservabili reciprocamente da due sistemi inerziali sono identiche, e identici dovrebbero essere anche i loro tempi e spazi relativi. Poiché non esistono sistemi di riferimento privilegiati, dovrebbero sussistere almeno due misure di tali velocità, spazi e tempi; ma poiché i sistemi inerziali sono infiniti, tali misurazioni dovrebbero essere infinite. In altri termini: ogni sistema di riferimento si muoverebbe ad una velocità qualsiasi, il suo spazio e il suo tempo dovrebbero poter godere di tutte le proprietà di cui godono spazio e tempo per ogni velocità compresa tra 0 e c.
In quest’ipotesi, la loro velocità dovrebbe quindi corrispondere ad una misura assolutamente relativa e convenzionale: a seconda di quale sistema di riferimento scegliamo per misurarla, essa muterebbe, tanto che il rapporto v/c potrebbe assumere qualsiasi valore. L’unico valore che rimarrebbe costante in quest’ipotesi sarebbe il tempo proprio di ciò che si trova all’interno di ogni sistema di riferimento in oggetto.
In base alla seconda ipotesi, invece, il valore costante non può essere questo (che tuttavia rimarrebbe tale per velocità molto inferiori a quelle della luce): secondo questa ipotesi chi si muove con il suo sistema di riferimento risente con esso del mutato rapporto che intercorre tra la loro velocità e quella della luce, che costituirebbe in questo senso l’unico riferimento assoluto, cioè identico per tutti i sistemi di riferimento. Mentre secondo la prima ipotesi le conseguenze collimerebbero con quelle deducibili dalla relatività galileiana, (i viaggiatori-osservatori a bordo di una navicella spaziale che si muove ad una velocità prossima a quella della luce continuerebbero a muoversi e a invecchiare all’interno come le farfalle nella nave galileiana) per la seconda ipotesi le conseguenze sarebbero affatto diverse. I viaggiatori-osservatori invecchierebbero più lentamente, perché il tempo – sia il loro proprio che quello del loro sistema di riferimento – scorrerebbe più lentamente.
Il paradosso dei tre gemelli
Secondo un'argomentazione ormai "classica", il paradosso dei gemelli può essere evitato tenendo conto che non si tratta di sistemi inerziali. Ma, visto che si tratta di un esperimento ideale, perché non proporlo in modo da ovviare a questa difficoltà? Ad esempio: supponiamo che i gemelli siano tre (invece di due): Aldo, Giovanni e Giacomo. Aldo e Giovanni sono in quiete rispetto al sistema di riferimento di Giacomo. Quest’ultimo si sposta su una navicella ad una velocità prossima a quella della luce. Aldo e Giovanni sono distanti 10 anni luce. Nel tempo t0, Giacomo (che ha raggiunto una velocità costante un istante infinitesimale prima) incontra Aldo (che da un istante infinitesimale prima si trova in quiete rispetto a Giacomo, esattamente come Giovanni) e i due sono coetanei (e lo sono anche con Giovanni). Quando però Giacomo raggiunge Giovanni lo trova molto più vecchio di lui. D’altra parte, anche a Giovanni Giacomo pare più invecchiato di lui. Il paradosso, quindi, continuerebbe a sussistere. Giovanni vedrebbe passare Giacomo e gli parrebbe più vecchio, e viceversa. Data la reciprocità del fenomeno, in questo caso, il paradosso non sarebbe effettivo?
In realtà, il motivo per cui non c’è il paradosso (nella sua forma classica, con soli due gemelli) è che per entrambi i gemelli c’è una velocità assoluta: quella della luce. Entrambi i gemelli invecchiano, ma ognuno in un modo diverso. Se andassero alla velocità della luce entrambi, non invecchierebbe nessuno dei due, perché a tale velocità si percorre un qualsiasi spazio finito in un tempo zero (così come si percorre uno spazio infinito in un tempo dato qualsiasi). Più la loro velocità è distante da quella della luce (cioè, necessariamente, inferiore) più rapidamente invecchiano. Uno può invecchiare più rapidamente dell’altro solo nella misura in cui la sua velocità è più distante (cioè inferiore) rispetto a quella della luce. I problemi di ordine biologico che si possono porre partendo da questo presupposto sono dunque fuori luogo (come: cosa succederebbe se il battito cardiaco procedesse moto più lentamente?), perché gli esseri viventi che noi conosciamo (e che con un esperimento mentale possiamo immaginare di veder viaggiare a velocità prossime a quella della luce) possono esistere solo in un tempo e in uno spazio molto diversi (cioè più contratto il primo, più dilatato il secondo) rispetto a quelli possibile a velocità prossime a quelle della luce. Quindi morirebbero? Sì, probabilmente morirebbero.
Ma si potrebbe chiedere: come arrivano i gemelli nella posizione iniziale in cui si calcolano i tempi nel nostro esperimento ideale? Cioè in che modo i gemelli dovrebbero essere “scaraventati” nella situazione in cui l’esperimento ha inizio? Si potrebbe però replicare: siamo sicuri che si tratti di un’obiezione pertinente? Se ci poniamo questo interrogativo, non potremmo chiederci anche come, nell’esempio classico, i due gemelli avrebbero potuto essere accelerati ad una velocità prossima a quella della luce? In fondo, anche in questo “caso immaginario”, o “esperimento ideale”, i tre gemelli dovrebbero arrivare in qualche modo nelle rispettive situazioni, e vi possono giungere solo attraverso delle accelerazioni o delle decelerazioni, per poi procedere a velocità costante. E’ davvero importante capire quanto rapide queste dovrebbero essere accelerazioni per non incidere in maniera rilevante sul caso teorico proposto? Supponiamo che i tre gemelli siano tre cloni umani fatti nascere nel tempo t,0 nei rispettivi sistemi di riferimento da scienziati volonterosi in essi operanti: forse l’esperimento mentale sarebbe in questo modo più verosimile? In ogni caso, la sostanza non sarebbe diversa: in questo caso l’obiezione dell’accelerazione non sarebbe più valida e il paradosso continuerebbe a sussistere.
Sebbene il paradosso originale sia stato proposto per gettare discredito sulla teoria della relatività, credo tuttavia che alla RR non possa derivarne alcun discredito. Il sistema di riferimento che può considerarsi “privilegiato” per tutti e tre è un sistema di riferimento ideale che si sposti alla velocità della luce, e rispetto al quale il gemello viaggiatore è più giovane dei due che si muovono più lentamente rispetto a c.
Il tempo dei muoni
Stando al suo tempo “proprio”, un muone dovrebbe essere in grado di percorrere, in tutta la sua esistenza, circa 659 metri; stando al tempo misurato sulla terra mentre precipita verso di essa è invece in grado di percorrere 10,4 km. Il fatto che i muoni riescano effettivamente a giungere sulla terra cosa vuol dire? Supponiamo che al posto del muone ci sia un essere vivente con le stesse caratteristiche (tempo e velocità) del muone: tale essere arriverebbe vivo sulla terra (mentre per il suo tempo proprio dovrebbe essere già morto)? Se al posto della terra vi fosse un altro SR (e di osservazione) qualsiasi, accadrebbe lo stesso, perché per la RR non esistono SR privilegiati. Quindi, lo spostarsi verso un certo punto ad una velocità prossima a quella della luce allungherebbe davvero la vita?
Credo che questa considerazione sia connessa con quest’altra: dall’insieme dei due postulati della relatività ristretta (1: il principio di relatività, 2: la costanza della velocità della luce) discende che un riferimento assoluto esiste, e questo è proprio “la costanza della velocità della luce”. Il che implica che esistono dei tempi e delle misure obiettive: quelle calcolate alle diverse velocità in rapporto con quelle della luce. Lo stesso vale per l’esistenza dei muoni e degli esseri viventi, a qualsiasi velocità si spostino e in rapporto a qualsiasi osservatore collocato in qualsiasi altro sistema inerziale. Ognuno di loro ha un tempo (od è in un tempo) assoluto: quello “correlato” alla velocità della luce. Se infatti i muoni arrivano sulla terra, piuttosto che fare solo 659 metri, significa che il loro tempo era quello che gli consentiva di percorrere la distanza che li separava dalla terra. Insomma, mentre il loro tempo “proprio” è relativo (dipende cioè dal sistema inerziale in cui si trovano), il loro tempo assoluto è solo quello calcolabile rispetto alla velocità della luce.
Il che porta a chiedersi: se un mutamento del tempo di un essere vivente che si sposta ad una velocità prossima a quella della luce comporta un rallentamento del battito del suo cuore, questo cosa significa? Forse che i ritmi biologici di quell’essere vivente sono realmente rallentati? E questo fenomeno cosa significherebbe dal punto di vista biologico?
Che si sono contemporaneamente alterate delle leggi biologiche?
In altri termini: se immaginiamo che qualsiasi corpo ponderabile si muova lungo una corda tesa (una retta o una geodetica, a seconda che vogliamo ragionare in termini di relatività ristretta o generale) lo spazio-tempo di questa retta o geodetica non può che essere compreso tra la velocità della luce e la velocità che il corpo ha rispetto a quella della luce. Sarà dunque da questa relazione che dipenderanno il suo tempo e il suo spazio (lo spazio che occupa in direzione della sua meta). Tale “quantità”, sarà relativa solo nel senso che sarà frutto di una relazione, ma sarà di fatto assoluta. “Di fatto”, così come di fatto i muoni arrivano sulla terra.
Per la RR, la velocità ha un significato solo relativamente a un osservatore, non essendoci una quiete assoluta rispetto cui misurare un moto assoluto. Eppure, una quiete assoluta è sempre possibile all’interno di un sistema di riferimento: il tempo proprio è infatti quello misurato dall’osservatore nel proprio sistema di riferimento, in cui l’orologio è in quiete.
In base a questo tempo proprio un essere umano vive circa 80 anni. Ma questo dovrebbe avvenire all’interno di ogni SR, per cui il tempo medio della vita umana sarebbe di circa 80 anni in ogni SR. Tuttavia, poiché per la RR non esistono sistemi di riferimento privilegiati, si potrebbe sostenere che il tempo della vita umana può essere calcolato in maniera altrettanto legittima in un qualsiasi numero di anni: basta trovare il sistema di riferimento adeguato per ogni scorrere del tempo, il punto di riferimento giusto da cui osservarlo. Tutta la questione, si risolverebbe allora in una mera questione di misurazione relativa ai vari SR, per cui la vita umana durerebbe – considerando tutti gli SR ugualmente legittimi per stabilire tale durata – un qualsiasi numero di anni. Il tempo proprio, tuttavia, sarebbe, per ogni SR, sempre di 80 anni. Ma in questo caso, non costituirebbe una sorta di valore assoluto, o di durata assoluta, ovvero indipendente da qualsiasi SR? Ma se esiste un tale tempo proprio (e nel senso suddetto “assoluto”) per la vita umana in tutti gli SR, ci deve essere anche un modo per misurarlo che non sia relativo solo ad un SR particolare, o a molti, come riferimento per la misurazione. Quale potrebbe essere? Credo che potrebbe essere solo la velocità della luce. Solo rispetto alla velocità della luce può essere stabilito un tempo proprio per la vita umana in qualsiasi SR. Ma da ciò consegue che tale tempo dovrebbe mutare quando muti la sua relazione con la velocità della luce, ovvero quando l’ente in questione muti, all’unisono con il suo SR, la propria velocità in rapporto a quella della luce. In questo senso, il tempo dei muoni, così come il tempo di ciascun essere vivente, avrebbe un tempo proprio che risentirebbe della velocità del suo SR in rapporto a quella della luce.
Quindi, il tempo proprio di un muone (o di un essere vivente) che si muova più o meno rapidamente rispetto alla velocità della luce dovrebbe essere diverso, a prescindere da tutti i possibili punti di osservazione del suo movimento e del suo orologio. Ci sarebbe un unico riferimento fondamentale: quello della velocità della luce, e in base a questo si dovrebbero determinare e misurare i tempi propri in ogni SR.
Un essere umano, tuttavia, continua a vivere 80 anni: perché? Perché forse è fatto per vivere in quel tempo proprio (come il muone nel suo), altrimenti muore. Ma allora perché se si modifica la velocità del muone questo sussiste più a lungo? Forse perché sopporta il mutamento del suo tempo proprio? Forse un essere vivente non sarebbe in grado di sopportarlo? Forse ogni essere vivente è adatto a vivere solo in un certo tempo proprio, pur disponendo anche lui (come il muone) di una certa tolleranza al mutamento? Ma questa è un’altra storia, che aprirebbe un nuovo ordine di riflessioni.
[1] A. Einstein e L. Infeld, L’evoluzione della fisica, trad. it. Torino 1948, ed. cit. 1965, p. 200.
[2] A. Einstein, La relatività, trad. it. Boringhieri, Torino, 1976, p. 73.
[3] Qui i coautori si riferiscono all'esempio che hanno appena illustrato.
[4] A. Einstein e L. Infeld, L'evoluzione della fisica, cit., p. 199.
[5] Ibidem.