Lo sguardo e la prospettiva
Nelle domeniche di bel tempo, nelle città che si affacciano sul mare, lungo i viali ad esso prospicienti, ci sono di solito molte persone a passeggiare, bambini che corrono in bilico sui pattini, gente in bicicletta che ogni tanto getta un’occhiata verso l’orizzonte, anziane coppie, amici, fidanzati o sposi, che conversano su una panchina. Sono davvero tante le persone a cui piace passeggiare, o stare, davanti al mare, averlo davanti agli occhi, magari anche per guardarlo solo di tanto in tanto. Forse perché il mare allude all’idea di uno spazio eterno, ma anche alla morte, ad una dissolvenza indefinita in quello stesso spazio smisurato. Eppure il mare disegna per noi anche un orizzonte certo, con il suo profilo lievemente arcuato, equanime, lineare. Prospetta un cerchio di cui occupiamo inevitabilmente il centro, un punto fatale dal quale è impossibile non avere una prospettiva sulla totalità di quanto ci circonda, sul tutto di cui non siamo una parte qualsiasi, ma proprio quella da cui il tutto prende forma e può assumere un senso, anche uno qualsiasi, ma pur sempre un senso. Il mare ci riconosce quali animali prospettici, e quindi immersi in una prospettiva che è per forza di cose limitata, ma che accenna anche a un cosmo illimitato. Ci sa orientare in una maniera paradossale - quelli che si sono persi in mezzo al mare lo sanno bene: siamo al centro di qualcosa che non assomiglia più a nulla, al centro di un vuoto, ma di un vuoto equilibrato, costituito dall’unica linea equidistante dell’orizzonte. Siamo, in altre parole, ridotti a un puro orizzonte, appena increspato qua e là da qualche onda, che accenna all’esistenza, forse alla nostra, perché in fondo di questa non abbiamo – in quei momenti, quando siamo persi in mezzo al mare - nessun’altra testimonianza. L’orizzonte a cui ci introduce il mare ci ricorda quindi che siamo una prospettiva, ma una prospettiva globale, che nulla tralascia, costituita da ogni traiettoria o raggio che dal centro si dirige verso un punto qualsiasi di un limite ipotetico.
Questo libro trae spunto, in un certo senso, dalla nostalgia del mare, dalla nostalgia della totalità cui il mare allude, ma anche dalla nostalgia dell’indefinito e della conservazione, dal desiderio di lasciar sfumare senza veder morire. Esso è però anche debitore al piacere che si può provare nell’orientarsi, nel riscoprirsi centro della propria vita, sebbene si tratti di un centro per tutti gli altri versi trascurabile e a suo modo defilato.
Più precisamente, questo libro è originato, in primo luogo, da un sottile e vago dispiacere: quello di non riuscire mai abbastanza bene a trasformare una molteplicità di orizzonti diversi in uno complessivo ed unitario; e poi da una convinzione, da un’idea semplice quanto difficilmente dimostrabile, ovvero dalla persuasione che, per quanto siano diversi i modi in cui possiamo vedere il mondo e noi stessi, se quei modi mettono in luce un aspetto vero di un oggetto, o di un problema, o di un concetto, essi risulteranno anche non contraddittori e compatibili, armonizzabili all’interno di una prospettiva, o di una teoria che li abbraccia e li salva in una sintesi ulteriore.
L’esempio di cui si serve Ortega y Gasset per illustrare questa concezione della verità è altrettanto semplice: se osserviamo un’arancia da diversi punti di vista, la verità di ciascuno di essi non escluderà la verità degli altri, ma tutti saranno confermati da un’esperienza, in questo caso visiva. L’arancia è, visivamente, l’insieme di tutti i punti di vista da cui è possibile osservarla.
Questa concezione della verità non è innocua e ha probabilmente molti detrattori e molti estimatori. Tra questi ultimi, per esempio, potremmo annoverare quei fisici che hanno cercato o cercano ancora di arrivare ad una teoria unificata; ma tra i suoi estimatori ci piace annoverare anche tutti coloro che, in maniera più o meno consapevole, serbano una qualche gratitudine per ogni idea, teoria, concezione del mondo da cui si sono sentiti arricchiti in un certo momento della loro vita, tanto che soltanto con un certo rammarico, quando è il caso, sono poi ruisciti a prenderne le distanze.
È questo tipo di lettori a cui il libro è soprattutto rivolto: a lettori che, se anche non sono assidui frequentatori della filosofia, sono soliti provare questa sorta di gratitudine per qualsiasi teoria, narrazione o esperienza che abbia arricchito la loro capacità di comprendere il mondo circostante, se stessi e la loro relazione con gli altri, tanto da non rassegnarsi ad abbandonare facilmente qualsiasi idea o teoria verso le quali possano sentirsi a vario titolo debitori. In particolare, quindi, il libro è dedicato a tutti coloro che provano un certo dispiacere nel disfarsi di un’idea o di una teoria quando queste contrastino con altre idee o teorie all’apparenza incompatibili con la prima e che si facciano per altri aspetti preferire. Nel tentativo di non rimanere sospesi in un guado, all’interno di una prospettiva teorica composita e incoerente, in quella situazione di dubbio e di relativa ignoranza che ha accompagnato la filosofia fin quasi dai suoi primi passi, si può essere infatti tentati di “liquidare”, o di non riconoscere più le ragioni, di quelle teorie in cui abbiamo tuttavia scorto un elemento di verità.
La convinzione, non si sa per il momento quanto giustificata, che si erge a protezione di questo dispiacere e da cui questo scritto prende le mosse è che la verità sia una prospettiva, che l’anima sia anch’essa una sorta di prospettiva e che ciascuno viva sempre all’interno di una prospettiva. A prescindere dalla sua validità, questa convinzione lascia comunque aperto un problema cruciale, che è il seguente: è sufficiente il trovarsi dentro una prospettiva che riteniamo per noi la migliore sotto il profilo conoscitivo, per ritenere che lo sia anche sotto il profilo etico od estetico, e che quindi lo sia anche rispetto alla nostra vita, al sentimento vitale che inevitabilmente l’accompagna?
In altri termini: può una prospettiva teorica che consideriamo efficace per quanto concerne la nostra capacità di comprendere ciò che ci proponiamo di comprendere, essere anche capace di trasformarsi in uno sguardo duraturo sulla vita stessa, in un orizzonte di senso in cui possiamo riconoscerci? Sarà capace di trasformarsi in un modo di sentire che avvertiamo come autentico, in una visione organica del mondo, di se stessi e dei propri rapporti con gli altri tale da farci avvertire la nostra vita come degna di essere vissuta e da consegnarci in qualche modo una promessa di felicità?
Queste domande sono tutte ricollegabili ad un’altra, che resta loro sottesa: per quale motivo le nostre visioni del mondo e le nostre teorie conoscitive possono a volte risultare prive di effetti significativi sul nostro modo di percepire la nostra stessa vita, ovvero incapaci d’incidere in maniera rilevante sui nostri stati d’animo e i nostri comportamenti?
Questo problema era stato già al centro di un nostro saggio del 1991 - I pensieri sordi e l’inconscio - che cercava di tracciarne in breve la storia. Nel libro che qui presentiamo – libro nel senso più ampio possibile in cui questo termine possa essere inteso, ovvero come un oggetto fisico che nasce per essere letto – l’esame di questo problema costituirà invece solo uno dei temi sollevati e discussi ed esso verrà ripreso in una maniera meno storico-genetica e più theoretica, ovvero cercando di chiarire come, nel passaggio dall’adozione di una prospettiva teorica al suo “farsi sguardo”, vi sia una difficoltà cruciale e ricorrente, difficoltà che può trovare una formulazione approssimativa nelle domande poco sopra enunciate.
La risposta che grosso modo ad esse verrà fornita prenderà le mosse da una seconda, e per ora ultima, convinzione, che scaturisce direttamente dalla prima: l’esigenza, che ciascuno può provare, di abbandonare o di modificare una visione del mondo e di se stesso per individuare quella che potrebbe condurlo verso una vita più piena e felice, e che può trovare nel passaggio da una prospettiva e al suo farsi sguardo l’ostacolo più significativo e determinante, può trovare altresì nello sviluppo positivo di tale passaggio anche la soluzione che le compete.
Che la conoscenza della verità in quanto tale non fornisca alcun aiuto decisivo per il conseguimento di una vita più piena o felice era stato già notato ed evidenziato, tra gli altri, e ancorché in modi e con accentuazioni diverse, dai grandi tragici greci, da Platone, Aristotele, Spinoza, Leibniz, Kant, Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche. Tale difficoltà, ci ha però suggerito di esaminare il rapporto che sussiste tra la conoscenza della verità e quella esigenza di una vita autentica che a sua volta può manifestarsi in una parola piena, e che deve sempre fare i conti con il tipo di conoscenza a cui ciascuno ha avuto accesso, ovvero con quelle teorie che, più o meno consapevolmente ed esplicitamente, egli usa per interpretare il mondo e se stesso.
Ma la caratteristica forse più originale (ammesso che ve ne sia una) di questo saggio non consiste semplicemente nel tentativo di approfondire la relazione tra la verità e tale pienezza di vita, quanto piuttosto nel considerarla a partire dall'esame della concezione prospettivistica della verità: quello che infatti si cercherà qui di mostrare è che proprio nel passaggio dalla verità, così concepita, allo sguardo, si può realizzare quel modo di sentire e concepire insieme la propria esistenza e quella del mondo, con le sue leggi da decifrare, che può a sua volta farci comprendere e percepire la verità in un modo che sia rilevante non soltanto sotto il profilo conoscitivo, ma anche in una dimensione esistenziale, etica ed estetica.
La principale difficoltà che abbiamo dovuto affrontare è dipesa dal fatto che il termine sguardo - la prima delle due parole contenute nel titolo - ha nella storia della filosofia (ma anche dell’arte e della psicologia) un significato piuttosto vario e indefinito. L’esame di tale significato, quale emerge da opere molto diverse in un periodo di tempo assai ampio, risulterà pertanto piuttosto fluido e oscillante tra i vari usi che di tale termine sono stati fatti. Tuttavia, proprio da tale varietà e ricchezza di analisi e posizioni sono scaturiti lo stimolo e il nutrimento necessari per la nascita e la genesi di questo lavoro.
Nella storia dell’arte, invece, la nozione di prospettiva risulta essere più univocamente intesa, ma ciò non ha impedito che sorgessero opinioni piuttosto diverse circa la valutazione complessiva del suo ruolo e del suo rilievo nella storia dell’estetica. Sarà dunque facendo riferimento ai principali tipi di valutazione critica che sono emersi e alle loro differenze che avvieremo l’esame delle implicazioni di volta in volta assunte da questo termine.
Ancora diverso è poi il destino della nozione di prospettiva in ambito filosofico: gli autori che per primi hanno proposto una concezione prospettivistica della conoscenza – tra i quali spiccano innanzi tutto i nomi di Leibniz, Nietzsche e Ortega y Gasset – usavano tale termine secondo accezioni tra loro diverse, ma anche oggi le teorie che, in maniera più o meno esplicita, si richiamano a questa concezione presentano tra loro notevoli differenze.
Alla luce di queste delucidazioni preliminari, e sperando di aver dato almeno un’idea approssimativa dell’argomento di questo libro, ci preme ora fornire qualche indicazione sommaria anche sulla sua articolazione interna. Dopo l’introduzione, nella quale verrà grosso modo definito il campo dell’indagine, nella prima parte ci soffermeremo prevalentemente sulla “metafora dello specchio” e sul concetto di verità inteso come “corrispondenza speculare”: ciò al fine d’introdurre l’analisi dell’interpretazione prospettivistica della verità quale è reperibile nell’opera di Ortega y Gasset, che costituirà un punto di riferimento fondamentale lungo l’arco di tutto il saggio.
Nella seconda parte ci soffermeremo invece, in maniera più dettagliata, sul dibattito sorto intorno alla concezione “corrispondentistica” della verità, con l’intento di mostrare come sia questa concezione sia alcune delle critiche che ad essa sono state mosse siano superabili e integrabili nell’ambito della teoria “prospettivistica” della verità quale emerge dall’opera di Ortega.
Nella terza parte, ci occuperemo poi del rapporto che la prospettiva intrattiene con lo sguardo. Sebbene, come si è accennato, quest’ultima nozione non emerga in maniera univoca e precisa dalla storia delle filosofia o dell’arte, si cercherà in questa parte di cogliere un elemento unificante nell’uso, in verità piuttosto disomogeneo, che di questo termine è stato fatto, o almeno di proporne uno, e ciò nel convincimento che l’idea che ne potrà emergere rappresenti un tipo di esperienza essenzialmente correlata e complementare a quella connessa con ciò che Ortega definisce come prospettiva.
Nella parte quarta, infine, verrà approfondito il concetto di essere quale emerge da alcune opere di Martin Heidegger raffrontandolo con alcune considerazioni, anche in forma poetica, tratte dall’opera di Fernando Pessoa, e poi con altre di Maria Zambrano concernenti il rapporto che ciascuno può intrattenere con quei momenti aurorali della vita cosciente che possono - per un’anima resa silenziosa dalla capacità di introiettare la quiete assoluta delle cose, come per esempio di quelle raffigurate in una “natura morta” - favorire e rendere più fluida e dialettica la relazione dello sguardo con la prospettiva. Proprio dall’esame della relazione dell’essere con lo sguardo e la prospettiva, crediamo infatti che possa scaturire una rivisitazione originale del suo significato e delle sue implicazioni sotto il profilo metafisico, estetico e psicologico.