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La poetica di Aristotele, il teatro dell'assurdo e il mito di Sisifo
di Gaia Gavish
La poetica di Aristotele è tra gli scritti più significativi per lo studio non solo del teatro e della letteratura in generale, ma anche per la conoscenza del comportamento umano e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale. In quest’opera Aristotele distingue le finalità dell’estetica e quelle della morale. L’arte, e in particolare quella teatrale, rappresenta le azioni umane attraverso l’imitazione (mimesis) del verosimile, che non coincide con il vero, ma con ciò che potrebbe risultare vero, con ciò che risulta credibile come tale.
L’azione è per lui la capacità di sviluppare le possibilità dell’agire umano, possibilità intese come nostre potenzialità. Aristotele fu il primo a pensare in termini di metafisica vera e propria: ogni essere è composto da due proprietà principali, quali la materia e la forma, che unite trasformano l’essere in un sinolo. Per compiere il nostro fine (ovvero la massima espressione della forma) occorre la mutazione del proprio essere: la trasformazione dell’essere è, in altri termini, il passaggio dalla potenza, che è la possibilità vera e propria, all’atto, e cioè la realizzazione della potenza dell’essere. Le possibilità di trasformazioni sono innumerevoli, ogni potenza a sua volta ha la capacità di trasformarsi, passando all’atto, in un’altra potenza.
Sia nella Poetica che nella Metafisica lo stesso soggetto prende forma nell’essere umano, ma in due modi diversi. La poetica rappresenta ciò che la metafisica investiga: il passaggio dell’individuo dalla potenza all’atto. Ogni essere umano intraprende infatti un processo di trasformazione e questo mutamento vale non solo per i personaggi della tragedia, ma anche per gli spettatori, che intraprendono un processo di metamorfosi attraverso la pietà e il terrore.
Il concetto di trasformazione appare già con Eraclito, secondo il quale senza la lotta costante tra gli opposti, non esisterebbe l’armonia e di conseguenza il bello. L’unità, secondo Eraclito, è l’opposizione e la lotta degli opposti, ed è solo grazie a questo che l’armonia prevale, non può esistere l’uno senza l’altro.
Per capire lo spirito tragico aristotelico occorre contestualizzare la nozione di tragedia. Nell’antica Grecia, governata idealmente da dei e divinità, Dionisio era il dio della tragedia e del teatro. Secondo Nietzsche, prima della tragedia l’arte e la percezione del mondo erano totalmente apollinee e solo nella musica dionisio trovava il suo posto. Nonostante la separazione iniziale di questi due elementi, l’unione della dialettica apollinea insieme alla musica dionisiaca creano la tragedia.
Lo spirito apollineo e lo spirito dionisiaco, due opposti che si completano a vicenda, sono la personificazione dell’ordine e del caos: è solo con la volontà ordinaria di Apollo che possiamo sopportare la ferocia di Dionisio. Non possiamo percepire l’ordine senza il caos; possiamo sopportare la cruda verità del sentimento solo con la logica e la razionalità, ed è la nostra tragedia non essere in grado di raggiungere a questo equilibrio.
La tensione tra queste due forze muta continuamente, anche in relazione al tempo; la tragedia è un dipinto fluido, che si muove e si trasforma in ogni momento: le azioni trasmutano la realtà. In un dipinto le azioni sono statiche e solo con l’avvento delle opere dell’arte astratta, come quelle ad esempio di Mark Rothko, le azioni atemporali si trasformeranno in azioni temporali, le quali potranno interagire con lo spettatore.
Attraverso la pietà e il terrore gli spettatori della tragedia intraprendono un processo di trasformazione della loro potenzialità. La tragedia è in costante ricerca di quelli che sono i limiti di ciò che è umano: limiti intesi non come confini dell’esistenza umana di per sé, ma di ciò che si può definire umano.
Perché mi posso riconoscere come un essere umano? La risposta è: perché un essere umano è un essere razionale che ha capacità di formulare frasi logiche e coerenti. Ma la nozione del linguaggio è una nozione completamente sociale: non avremmo la necessità di parlare se non fossimo in una società, e l’essere umano è, come afferma Aristotele, un “animale sociale”; però è anche vero che, all’interno della società, l’uomo ha la possibilità di compiere azioni disumane. Senza la società, dunque, l’uomo non avrebbe il principio di moralità o, per così dire, umanità. Solo allora con la collettività, formata da altri esseri umani, posso identificarmi come uomo.
Il compito della tragedia è d’individuare i limiti dell’umano, di sviluppare la nostra capacità di giudicare cosa è morale, di valutare dei sentimenti che vengono suscitati attraverso la pietà e il terrore. Ma lo scopo della tragedia non si conclude facendoci provare la pietà e il terrore: la vera sostanza della tragedia è la catharsis. Alla fine della tragedia non sentiamo la desolazione proprio perché ciò che è perduto è anche trovato; in altri termini, quando la tragedia è finita, dopo il colpo di scena finale, siamo sereni, non abbiamo più quei sentimenti negativi, proprio perché li abbiamo purificati attraverso la catharsis.
La catharsis, a sua volta, è possibile solo grazie alla distanza presente nel teatro. La distanza è ciò che mantiene il senso del reale in un luogo dove il reale e la finzione si mescolano: il teatro è il momento in cui tutto è possibile. La distanza, in un certo senso, è l’unico luogo in cui la catharsis può purificare gli spettatori ed è la consapevolezza dell’imitazione che mette in luce la distanza.
Il concetto della distanza è presente in ogni forma di arti liberali. Senza di essa non avremmo la capacità di valutare un’opera d’arte e non potremmo distinguere realtà e finzione. La distanza mette in luce il ruolo dello spettatore, ovvero il suo compito da testimone. L’imitazione (mimesis), secondo Aristotele è la vera conoscenza del mondo. La tendenza ad imitare è spontanea fin dall’infanzia e attraverso l’imitazione si formano le prime conoscenze. La mimesis è una rappresentazione della natura e ogni forma artistica è un’imitazione: per Aristotele la mimesis trova il suo vero fondamento nell’imitazione dell’azione; come dice Amleto: “[…] allo scopo del teatro;
il cui fine, da quando è nato ad oggi,
è di regger lo specchio alla natura, […]” (“…to hold, as ‘twere, the mirror up to nature…”).
Il compito della tragedia è, dunque, di contemplare la condizione umana e di trovare il valore della vita dell’uomo; ma l’uomo “tragico” di Aristotele non è l’uomo singolo: l’uomo tragico è un eroe, qualcuno dotato di somma virtù, quasi senza difetti. Non esiste una persona umana senza un difetto, un uomo cosiddetto “perfetto”, con tutte le virtù, è inconcepibile. Il Teatro dell’Assurdo cerca di rappresentare proprio questa condizione.
Il Teatro dell’Assurdo contraddice tutta la Poetica di Aristotele: non segue linee di guida, non ha una trama e i personaggi non hanno nessun carattere, si confondano tra loro (il miglior esempio è lo spettacolo di Tom Stoppard: “Rosenkranz e Guildenstern sono morti”, dove i protagonisti non riescono a capire chi è l’uno e chi è l’altro). Le conseguenze di questo teatro bizzarro è la mancanza di un riconoscimento emotivo e l’inabilità di identificarsi con i personaggi, che invece è fondamentale nella tragedia classica; pur creandosi una distanza tra lo spettatore e il personaggio che è la stessa distanza di cui ci parla Aristotele.
Nonostante la mancanza di elementi tragici delineati da Aristotele il Teatro dell’Assurdo non può essere assimilato a un teatro anti-tragico; gli autori di quest’ultimo cercano di essere la contraddizione della separazione tra il tragico e il comico, una separazione che si trova nell’Umorismo. Il comico genera immediatamente la risata perché mostra la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere; l’umorismo, invece, è una riflessione che genera una sorta di compassione. Nell’umorismo si trova il senso comune della fragilità umana, o, come scrive Luigi Pirandello, “L’umorismo è l’attitudine che coglie la frattura tra realtà e apparenza, per cogliere il sentimento del contrario”.
Il personaggio tragico più adatto a formare un legame tra il teatro aristotelico e quello assurdo è, secondo me, Sisifo, che era un personaggio tragico, l’unico che è riuscito a ingannare gli dei, non una volta, ma due. La sua punizione fu di dover trasportare sulla china di un monte un enorme masso che, una volta giunto in cima, sarebbe caduto a valle, per l’eternità. Sisifo, secondo Albert Camus, è l’eroe assurdo ideale, e la sua punizione è una rappresentazione della condizione umana: Sisifo deve lottare senza speranza, infinitamente; ma se egli accetta la sua condizione, la sua vita assurda, allora può trovare la felicità: “Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.”
Il Teatro dell’Assurdo e quello Aristotelico formano due lati della stessa moneta, rappresentano due diverse realtà, separate dal tempo e dallo spazio, che però cercano di trovare il senso dell’esistenza umana. Sia l’opera della Poetica che l’opera dell’Assurdo sono nella ricerca costante di cosa è umano, di come possiamo essere persone migliori di ciò che siamo e di cosa è un’opera d’arte. Rappresentano due diversi modi di vedere la nostra esistenza attraverso la distanza, perché “la distanza è l’anima della bellezza”.