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L'estetica del brutto
di Gaia Gavish
L’estetica è la scienza della conoscenza sensibile, la quale cerca di definire cosa è il bello e come esso si differenzia dal brutto. La disciplina estetica utilizza il termine brutto solo come la negazione del bello, ovvero il luogo in cui manca la bellezza. Il brutto può essere considerato, nell’antichità, come il non-essere, come ciò che non si può definire, proprio perché non è (se l’esistenza è positiva, allora è buona e, di conseguenza, è bella). Il brutto, dunque, non può esistere, perché è il negativo del bello; e proprio perché noi conosciamo il bello possiamo conoscere anche il bene; la kalokagathia è la bellezza morale saldamente unita al nostro bisogno del bello, necessario per comportarci e vivere in modo migliore.
Il brutto è diventato una vera e propria caratteristica dell’estetica solo con la nascita di quest’ultima. Addentrandosi nei sentimenti umani i filosofi finirono col collocare i sentimenti negativi in un luogo loro assegnato, ma questi sentimenti negativi non sono ancora identificati con il brutto. I sentimenti, visti ancora in maniera negativa, non dovevano essere sperimentati realmente, ma solo attraverso l’arte e il teatro, così da mascherare la realtà di codesti sentimenti e, nel tempo stesso, sperimentarli nel modo adeguato.
Il brutto configura una svalutazione estetica, mentre il bello manifesta l’estetica per sé. I due opposti raffigurano, in un senso, il giusto e lo sbagliato, il bene e il male. Il bene da un lato è assoluto e radicale, è profondo e, in un certo senso, tangibile, perché lo sentiamo anche quando non lo vediamo, perché è sempre presente; il male, dall’altro, non è tangibile, non potrà mai essere radicale, il male può essere solo estremo, non ha nessuna profondità e, inoltre, è il limite del pensiero, è banale. Allora vuol dire che il brutto non esiste? È banale? O che forse esiste solo come funzione al bello?
“Male: quando siamo in suo potere non viene percepito come male, ma come necessità, o addirittura un dovere.” (Simone Weil)
Il brutto diviene un carattere indispensabile dell’estetica solo all’alba dell’epoca moderna. Esso nasce come vera e propria caratteristica dell’arte con il romanticismo, il quale segna la scissione tra il mondo antico e quello moderno. Secondo Hegel, l’arte cristiano-romantica rappresenta la trascendenza dello spirito e quindi non ha più come oggetto il bello materiale, ma quello spirituale: il bello rappresentato da uno spirito può essere presente in qualsiasi forma materiale che, di per sé, può essere considerata non-bella, e quindi brutta.
Questa concezione si sviluppa per la necessità di rappresentare non solo il sublime, ma per dare nuove forme alle rappresentazioni religiose: una necessità nata con l’età industriale, dove la divinità cristiana non mette più la stessa paura di un tempo e non provoca stupore, dove la natura onnipotente non trova più il suo posto in un tempo governato dall’uomo e dalle macchine industriali
Non si rappresentava più né la bellezza dell’uomo-dio, né l’armonia naturale che governa l’universo: l’arte ha il compito di suscitare sentimenti che sconvolgono, sentimenti di pietà e terrore – come ne La poetica Aristotele aveva spiegato – ma ora per manifestare la grandezza del Cristo e la divinità della natura.
“Chi penserebbe a Dio se non ci fosse il male nel mondo?” (Simone Weil).
In una società dove l’uomo si trova in mezzo al conflitto tra la natura e l’industrializzazione, tra la tradizione antica della razionalità e la nuova conoscenza dell’uomo, non più come un dio-uomo, ma come un essere in evoluzione, governato dai sentimenti, l’unica verità data all’uomo è la sua natura duplice, intelligente e animale in un unico corpo. Secondo Victor Hugo, l’essere umano è raffigurato come un’anima imprigionata in corpo mostruoso, egli è un angelo e una bestia: questa forma di uomo-mostro diviene così un principio cosmico della società contemporanea, un principio con cui la natura stessa si realizza, attraverso la continua metamorfosi delle sue creature viventi, rivelando la propria anomalia. Come caratteristica estetica, il mostruoso si trasforma poi nel grottesco, il quale diventa il mezzo per cogliere il reale, non più come un’ombra dell’ideale, ma piuttosto come tutte le nostre esperienze, sia quelle positive sia quelle negative; esso, dunque, diventa reale come tale, nella sua complessità.
Il grottesco, a sua volta, trasforma l’arte, permettendole di rafforzare il suo legame con la realtà e di assumere la dimensione della libertà. Nel grottesco il genio artistico può infatti manifestarsi completamente per ricercare ciò che è intimamente vero. Il brutto, il grottesco, divengono allora, con il bello, autentiche manifestazioni della verità: sia di quella assoluta che di quella relativa. Cosa è il bello, se non il vero assoluto, ciò che è per noi irraggiungibile, qualcosa che è talmente lontano della nostra conoscenza che solo attraverso le piccole verità, relative, ma assolute nella loro dimensione, che si manifestano nel brutto, possiamo avvicinare e conoscere?
Un secolo dopo la pubblicazione dell’Estetica di Baumgarten, il filosofo tedesco Karl Rosenkranz pubblica il suo libro L’Estetica del brutto. Secondo Rosenkranz, il brutto è un elemento essenziale per l’opera d’arte; un’opera d’arte è tanto più bella quanto maggiore è la sua negatività, ovvero il brutto presente in essa. Simile al male, il brutto è un concetto relativo, ed è comprensibile solo in rapporto a un altro concetto, che è il bello.
Per Rosenkranz il brutto esiste solo perché è la negazione di qualcosa; se non ci fosse la bellezza, il brutto non sarebbe esistito. Solo dopo la sconfitta del brutto il bello può essere tale: senza la lotta continua di questi due opposti l’opera d’arte non può esistere. È da questo che nasce l’armonia cosmica: secondo Rosenkranz, come per Eraclito, il cosmo è infatti governato dalla lotta degli opposti. Senza lo scontro di essi l’universo non ci sarebbe affatto. Noi conosciamo il bene solo perché conosciamo la realtà del male e lo stesso è per tutti gli opposti complementari: come non apprezzeremmo mai la primavera senza aver passato l’inverno, e la vita non sarebbe così affascinante senza la paura dalla morte, così il bello non sarebbe il bello senza il brutto.
Nell’età contemporanea, il bello non ha più posto, lo abbiamo sostituito con la novità, con l’originale; al giorno d’oggi non abbiamo più tempo di riflette sul bello ideale e armonico degli antichi, non abbiamo più bisogno di una calma armonia, ciò che vogliamo è l’interessante, l’intenso, in una parola, la modernità. Il brutto, tuttavia, non è né un sinonimo di modernità né di industrializzazione, questi due termini sono conseguenze dell’epoca in cui viviamo: il brutto è invece sinonimo di crudeltà.
In un certo senso abbiamo ancora bisogno della tragedia aristotelica, della catharsis suscitata dalla pietà e dal terrore; eppure, nello stesso tempo, questi due sentimenti non sono sufficienti per l’epoca moderna. La società moderna è segnata da due guerre mondiali, guerre caratterizzate da una potenza e da una crudeltà mai vissute prima nella storia umana. La tragedia aristotelica non basta più, proprio perché lo scenario è cambiato: l’esistenza stessa è diventata qualcosa di precario e fragile, generazioni intere sono state massacrate, e coloro che sono sopravvissuti hanno sentito l’alito della morte nella propria carne. La catharsis non ha più posto nel teatro, il quale si è trasformato nel teatro esistenziale, narratore dell’assurdo, dove l’esistenza (che non è più la vita) dei personaggi non ha più significato, dove è diventata assurda. La catharsis, allora, trova il suo mezzo nell’arte, un’arte che però non ha più il bisogno della bellezza, ma del brutto come fine, perché, in un’epoca di guerra e di morte, cercare il bello è considerato un’azione vile e crudele.
“Perché il bello è solo l’inizio del tremendo, che sopportiamo appena, e il bello lo ammiriamo così perché incurante disdegna di distruggerci. Ogni angelo è tremendo.” (Rainer Maria Rilke)