La scuola e l'educazione alla saggezza di vivere

   Suonano ancora oggi attuali le parole di Guido Calogero sulle finalità della scuola e dell’educazione: “Proprio in quanto il tempo in cui semplicemente si vivrà sarà più lungo del tempo in cui si produrrà, l’educazione alla saggezza del vivere dovrà prevalere sempre più rispetto all’addestramento alla tecnica del produrre”. La scuola sembra essersi dimenticata del significato di quest’indicazione preziosa e proprio mentre si preoccupa sempre più di formare nuovi tecnici pronti a inserirsi nel mondo del lavoro, dà sempre più importanza a delle nozioni formali e sempre meno ad aspetti sostanziali per un’ipotetica educazione alla “saggezza di vivere”.

   Questo fenomeno appare particolarmente evidente se ci si sofferma su come viene insegnata la letteratura. Oggi si tende infatti a dare “un po’ troppa importanza alla forma dei testi che si leggono – a pezzettini – e un po’ troppo poca al loro contenuto”. Questa sproporzione dipende - secondo Claudio Giunta, docente di letteratura italiana all’università di Trento e uno dei massimi studiosi di scuola e di didattica oggi in Italia - “da due ragioni principali. Da una parte, nel corso dei decenni ha finito per depositarsi nelle scuole una versione estremizzata di quella che possiamo chiamare l’idea universitaria di letteratura: l’idea cioè che la letteratura sia un ‘problema’ (il problema dei «Canti» di Leopardi, le problematiche del Decadentismo eccetera), e che questo problema vada risolto come si risolvono i problemi: attraverso l’analisi (dei Canti di Leopardi, delle poesie di D’Annunzio)”.

   A poco a poco, cioè, si è diffusa l’idea che sia possibile decifrare lo specifico letterario solo utilizzando metodi che consentano di decodificare le opere, liberandole così dal rischio di poter essere lette in maniera ingenua. L’ingenuità è infatti, secondo quest’approccio accademico, ovvero per l’idea universitaria di letteratura, “il più grave dei peccati”. Al posto di pericolose e fuorvianti letture ingenue certa cultura universitaria, almeno fino a non molto tempo fa, metteva di solito “dei protocolli, delle procedure d’analisi”, e soprattutto “un metalinguaggio, un gergo adatto a dar conto della corretta applicazione di queste procedure d’analisi. Appropriatosi del gergo, applicati correttamente i metodi (detti anche ‘metodologie’)”, lo studente poteva ritenere d’aver “risolto il problema della letteratura”.

   Ora, quest’impostazione critica, che è nata qualche decennio fa nelle università, costituisce lì sempre meno un riferimento indispensabile. Oggi chi si occupa di letteratura a livello universitario sa ormai fare a meno di grafici e freccine, così come “non si mette a glossare in classe la teoria delle funzioni del linguaggio di Jakobson o la semantica strutturale di Greimas, e nemmeno l’avviamento all’analisi del testo letterario di Segre.” Tuttavia, e qui sta l’aspetto più paradossale, pare che proprio “questa idea universitaria della letteratura, che l’università nel frattempo ha lasciato cadere, abbia ancora un’influenza cospicua sul modo in cui si studia la letteratura nelle scuole”.

 

   Oggi, per esempio, ci sono molti studenti che sanno perfettamente “in quale cerchio e in quale bolgia stanno gli incontinenti, solo che non hanno idea di cosa voglia dire ‘incontinenti’. Tutto questo non è sbagliato in sé: che male c’è a sapere cos’è un’anadiplosi, o in quale girone infernale sta Ulisse? Ma diventa sbagliato se mette nella testa degli studenti la convinzione che i romanzi, i saggi, le poesie (soprattutto le poesie!) non siano dei messaggi che qualcuno ci ha spedito anni o secoli fa, messaggi che vanno ascoltati, compresi, giudicati, apprezzati per la loro bellezza o verità, ma degli strani, minacciosi marchingegni di cui importa soprattutto smontare gli ingranaggi per vedere come sono fatti dentro”.

   Alla luce di tali discutibili impostazioni didattiche, anche il cosiddetto close reading, tanto predicato agli adolescenti, finisce così “per diventare un’istigazione al parlare a vanvera. Obbligati non a leggere ma ad analizzare, non ad analizzare ma ad analizzare in profondità i brani antologici, gli studenti vengono presi da una foga interpretativa che ricorda un po’ quella dei critici strutturalisti più ingenui e spiritati”.

   Categorie di dubbia utilità e provenienti da zone nemmeno tanto alte della storia della critica possono così divenire paradigmi irrinunciabili, veri e propri rivelatori d’essenze letterarie. Sebbene, per esempio, Giacomo Leopardi non abbia mai davvero utilizzato espressioni come “pessimismo storico” o “pessimismo cosmico”, non solo non c’è manuale di letteratura che non ne parli, ma la maggior parte vi impernia la propria analisi critica. Eppure, il responsabile del conio di tali categorie semplificative fu uno studioso di un secolo fa, Bonaventura Zumbini, che parlò “nei suoi Studi sul Leopardi (1902-1904), di ‘pessimismo storico’ leopardiano, distinguendolo da un successivo atteggiamento che egli stesso chiamò ‘pessimismo cosmico’. Naturalmente, le etichette contano poco, nella ricostruzione del pensiero di un autore, e soprattutto di un autore tanto complesso come Leopardi. Ma queste due etichette hanno avuto fortuna, nella storia della critica, e sono servite a fissare, in maniera certamente troppo schematica, la trasformazione a cui va incontro la visione della vita di Leopardi poco dopo i vent’anni”.

    Schematizzare, analizzare, parafrasare: questo significa ancora oggi, per lo più, fare letteratura a scuola, ma questo accadeva in effetti anche al tempo in cui Claudio Giunta frequentava il liceo classico, dato che dichiara di non avere un buon ricordo delle decine di canti che era costretto a parafrasare: “la letteratura che m’interessava – scrive - era quella che leggevo per conto mio a casa, al pomeriggio: per lo più romanzi moderni. Ci vogliono tutte e due le cose, si dirà, ed è senz’altro vero. Ma il fatto è che molti dei miei compagni di liceo con quella seconda letteratura non sono entrati mai in contatto se non, di sfuggita, alla fine dell’ultimo anno, quando tutto viene versato in fretta nell’imbuto che porta al nefasto esame di maturità”.

   Alla fine quest’impostazione didattica - che quasi in nessun conto tiene i libri che uno studente può imparare ad amare e che sarebbero in grado di trasmettergli il dolce e duraturo piacere della lettura, uno dei pochi che potrebbe davvero aiutarlo a sviluppare quella che Calogero chiamava la “saggezza di vivere” - produce molto fumo e poco arrosto: induce cioè molti studenti a parlare in modo ridondante della forma di ciò che hanno poco apprezzato e compreso, educa a una visione parcellizzata del testo piuttosto che a una globale e perspicua, ma soprattutto non sviluppa le capacità degli studenti di esprimere in maniera chiara e a loro stessi intellegibile ciò che un’opera letteraria ha loro comunicato.  

   L’esempio più eloquente è forse costituito dall’esame di Stato, dove, nel primo scritto, i maturandi riescono in genere a scrivere male per voler scrivere bene. La maggior parte non usano infatti il linguaggio che userebbero per far capire a qualcuno ciò che davvero pensano di un testo, cosa esso gli ha trasmesso, cosa li ha colpiti e coinvolti, magari anche a costo di usare un linguaggio poco colto o tecnicamente generico, ma tendono invece a usare il linguaggio “di qualcuno superficialmente colto che cerca di mostrarsi più colto di quello che è. E perché questo sforzo? Perché quest’idea sbagliata dello ‘scrivere bene’?”.

   Forse perché il tipo di scrittura cui si cerca d’indurre gli studenti è spesso completamente separato dal modo concreto con cui avrebbero espresso le loro opinioni e osservazioni se fossero stati educati a farlo. Ciò che ne risulta è un modo di scrivere artificioso e spesso improprio: “s’intende che scrivere come si parla non va bene. Ma non va bene neppure scrivere come se scrivere volesse dire indossare l’abito della domenica”.

 

Claudio Giunta, E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell'istruzione umanistica, Il Mulino, Bologna, 2017.