La dignità della persona umana secondo Aristotele e S. Tommaso
L'essenza nella metafisica di Aristotele e San Tommaso. La struttura ontologica di sostanza e accidenti. La persona come "sostanza individuale di natura razionale". La dignità della persona.
(Una sintesi ragionata ad uso degli studenti liceali).
Compito della Metafisica è riflettere su l'essere in quanto essere, ovvero ricercare i principi e le cause dell'essere in quanto tale (1). Sebbene secondo Aristotele non si possa parlare dell'essere in maniera assoluta, come faceva Parmenide, perché il termine "essere" ha molti significati diversi (2), è comunque possibile rintracciare dietro questa molteplicità un unico principio. Tale principio corrisponde al concetto di "sostanza" (ousia): essa è l'essere per eccellenza in quanto essa sola, tra tutte le categorie, può sussistere separatamente (3).
I modi in cui si può intendere la "sostanza" sono riconducibili a tre fondamentali. Tra questi, il primo che prenderemo in considerazione è "to ti èn èinai" ("quod quid erat esse") vale a dire "ciò che l'essere era" (4), dove la ripetizione del verbo essere evidenzia il fatto che nella sostanza si conserva l'essenza stessa dell'essere, ovvero ciò che rende quell'essere determinato proprio ciò che è e non qualcos'altro. In questo senso, come lo stesso Aristotele precisa nel libro VII della Metafisica, la sostanza è anche "aitia" (causa) e "archè" (principio) dell'essere (5), perché è ciò che non è riducibile ai suoi componenti, ma è la loro unità indissolubile.
La formula aristotelica evidenzia quindi il fatto che nell'essere, in ogni essere, v'è qualcosa che rimane necessariamente immutato. In altri termini, che un'essenza immutabile determina la natura di ogni essere particolare e, al tempo stesso, fa in modo che quell'essere esista. Pertanto, si può intendere la sostanza sia come "essere dell'essenza" che, viceversa, come "essenza dell'essere": in quest'ultima accezione essa costituisce la causa della determinatezza necessaria dell'essere (ad esempio, l'uomo è necessariamente determinato come "animale bipede") mentre nel primo significato essa è causa non solo di tale determinatezza, ma anche dell'esistenza di ogni singolo uomo. In questo senso, si può dire che la sostanza sia costituita da una sorta di essenza necessaria, ovvero sia caratterizzata da quel nucleo essenziale che, oltre a determinare il soggetto in questione, e pertanto a distinguerlo da altri, ne causa l'esistenza concreta.
Un secondo modo d'intendere la sostanza - e forse quello più letterale - consiste nel concepirla come "ypokeimenon". Ciò che Aristotele chiama "ypokeimenon" viene comunemente tradotto con "sostanza prima" o "soggetto" (6) e designa ogni entità individuale, vale a dire ogni "subiectum", come ciò che sta alla base di ogni tipo di predicazione. Ad esso necessariamente si riferiscono le sostanze seconde e terze, vale a dire le specie e i generi più ampi in cui quell'individuo è un componente. A differenza dei termini che designano queste ultime quelli che si riferiscono a "sostanze prime" possono, in una proposizione, occupare solo la posizione del soggetto, e non quella del predicato, poiché un individuo non può evidentemente includere in sé altri individui, come invece è possibile per le classi.
Infine, un terzo modo in cui può essere concepita la "sostanza" è come "sinolon", che invece significa unione, e in particolare quella tra la materia e la forma. Il fatto che materia e forma siano necessariamente unite in ogni individuo rende appropriato l'uso del termine "sostanza" anche per tradurre questo concetto, sebbene la sua etimologia sia senz'altro diversa. Per Aristotele infatti la sostanzialità è propria di enti individuali e ogni individuo risulta composto di materia e forma, dove la prima di queste è necessariamente diversa da soggetto a soggetto, mentre la seconda può essere comune.
Col termine "forma" (eidos, morfè) Aristotele intende riferirsi non solo alla forma geometrica, ma anche alla forma logica, a quella per cui un cane è proprio un cane, cioè possiede le qualità "essenziali" del cane e non quelle di un altro animale. La stessa forma può infatti essere congiunta a materie diverse, mentre non può accadere il contrario, cioè che la stessa materia possa - nello stesso tempo - avere diverse forme. Per rendersene conto basti pensare che l'acqua contenuta in un bicchiere non può avere simultaneamente una forma cilindrica e una cubica, mentre la stessa forma cilindrica può costituire nello stesso tempo la forma di diverse dosi d'acqua.
Il termine "ousia" è invece più generico e sta ad indicare l'ente in quanto ente. Quando Aristotele si pone il problema di definirlo esattamente - nel libro zeta della "Metafisica" - egli, dopo aver riepilogato le osservazioni sulla sostanza già avanzate negli scritti di logica e di fisica, sembra questa volta privilegiare l'aspetto formale della sostanza rispetto a quello materiale e ritenere sostanza il principio attivo in virtù del quale ogni ente individuale è un determinato "questo" (tòde ti). Per spiegare il suo punto di vista Aristotele ricorre ad una similitudine grammaticale con la quale pare persino anticipare la scoperta fondamentale della psicologia della "Gestalt": se noi prendiamo una sillaba, ad esempio "BA", essa non equivale semplicemente a B+A, perché quando le lettere sono separate esse rimangono mentre la sillaba viene meno. E' quindi la forma a garantire la loro unità: essa determina infatti l'esistenza sia di quella sillaba che di ogni altra sostanza individuale.
Per Aristotele la sostanza viene prima di ogni altra categoria, giacché essa è prima sia rispetto alla realtà che rispetto alla conoscenza. E' prima per quanto concerne la "ratio essendi" perché nulla potrebbe esistere, nessuna qualità positiva o negativa, se non vi fosse una sostanza - ovvero un ente, individuale unione di una materia e di una forma - che faccia a tali qualità da supporto. Ed essa è prima per la "ratio conoscendi" in quanto ogni genere superiore - ciò che Aristotele chiama sostanze seconde o terze - necessariamente risulta composto da sostanze prime, ovvero da unità concrete, ed è con l'approccio a tali unità che il processo conoscitivo ha inizio mediante l'esperienza sensibile. "Ratio conoscendi" e "ratio essendi" vengono cosi a coincidere nella sostanza prima.
Dunque, al contrario di quello che pensava Platone, secondo Aristotele le cose sensibili non sono riconoscibili per la loro corrispondenza a dei modelli ideali, ma perché dotate di un'essenza necessaria interna che ne causa sia l'esistenza che la specifica determinatezza.
Venendo ora al problema della determinazione concettuale della sostanza, e quindi al tentativo di conoscerne e imbrigliarne la forma logica, questa può essere individuata correttamente mediante una definizione che sappia isolarne i componenti essenziali. Tuttavia, ciò che Aristotele chiama "definizione" è solo il risultato della combinazione di due tipi di predicati tra i quattro che prende in considerazione.
Il primo - o l'ultimo, se ne valutiamo la distanza dall'essenza del "definiendum" - è l'accidente, il "symbebekos". L'avere una coda gialla è per un cane del tutto accidentale e per niente essenziale, nel senso che potrebbe averla anche di un altro colore e nulla muterebbe rispetto alla sua essenza di cane, né per questo cesserebbe di esistere. Il secondo è il "genere" (gènos), cioè la classe di cui quell'individuo - o "sostanza prima" - fa parte, come per esempio l'essere animale per l'uomo. Il terzo è il "proprio" (idion), cioè quanto è in grado di differenziare quel tipo d'individuo da ogni altra tipologia, come per esempio, sempre per l'uomo, il saper ridere. Infine abbiamo la "definizione" (horismòs), che risulta dalla sovrapposizione del "genere prossimo" alla "differenza specifica", vale a dire quella differenza che, nell'ambito di un determinato genere, ci consente d'individuare la specie cui l'individuo in questione appartiene necessariamente, come per l'uomo l'essere "razionale".
Un problema che alcuni studiosi della logica aristotelica si sono posti è stato quello di capire cosa diversifica il "proprio" dalla "differenza specifica", visto che entrambi sembrano in grado d'isolare una sottoclasse di appartenenza. Stando ai testi aristotelici, l'unico discrimine chiaro è che mentre il "proprio" (nel nostro esempio "che ride") non costituisce una caratteristica essenziale per l'umanità, e non rientra pertanto in "ciò che l'essere era", non ne costituisce cioè una causa o un principio, al contrario la "differenza specifica", l'essere "razionale" appunto, costituisce una qualità assolutamente necessaria e irrinunciabile dell'essenza stessa.
L'uomo è quindi "animale razionale" e tale definizione coglie la sua essenza necessaria, ciò che lo rende quello che è determinando al tempo stesso l'esistenza di ogni singolo uomo, giacché ogni singolo uomo, per esistere, ha pur sempre bisogno di essere proprio un uomo, cioè un "animale razionale", e non potrebbe esistere prescindendo da tale determinatezza.
Una conseguenza rilevante del considerare la sostanza come "sinolon" di materia e forma consiste poi nel fatto che in questo modo essa è soggetta al divenire e al tempo, cosa che altrimenti non accadrebbe. Infatti, se la materia non avesse una forma determinata e esistesse solo in potenza, non sarebbe soggetta al divenire, perché diviene solo ciò che è in atto.
Potremmo però chiederci, a questo punto, cosa spinga Aristotele a ritenere che solo la sostanza esista autonomamente, perché in effetti, in un certo senso, ossia "in potenza", materia e forma esistono anche separatamente. Per esempio, se un fabbro costruisce una sfera di bronzo, egli non crea dal nulla né la materia del bronzo né la forma sferica, giacché queste gli preesistono entrambe, ma esse preesistono alla loro unione determinata solo "in potenza", mentre soltanto in una sfera determinata, in questa o quella sfera, esse esistono "in atto".
Dunque, poiché Aristotele identifica la materia con la potenza (dynamis) e la forma con l'atto (enérgheia), e d'altra parte solo ciò che è "in atto" è soggetto al divenire, bisogna concluderne che nella filosofia aristotelica solo la sostanza - intesa sia come essenza che come soggetto e sinolo - è causa sia dell'essere che del divenire.
La potenza è in generale la possibilità di produrre un mutamento o di subirlo: essa è attiva quando consiste nella capacità di produrre un mutamento in sé o in altro (come, per esempio, nel fuoco la potenza di riscaldare); mentre è passiva in quanto è capace di subire un mutamento (ad esempio, per il legno la capacità d'infiammarsi). La potenza passiva è propria della materia, mentre la potenza attiva è propria del principio d'azione, ovvero della causa efficiente, uno dei quattro tipi di cause che Aristotele distingue nei suoi libri sulla fisica.
L'atto è invece l'esistenza stessa dell'oggetto. Esso sta alla potenza così come il costruire al saper costruire, o il guardare al poter vedere. L'atto è prima della potenza, sia rispetto al tempo che rispetto alla sostanza. Rispetto al tempo perché, sebbene il seme venga prima della pianta, non c'è seme se prima non c'è una pianta in atto. In altre parole, per Aristotele la gallina viene prima dell'uovo, così come l'adulto viene prima del bambino, perché la sostanza di ogni ente s'identifica con la sua forma compiuta, e questo è anche il motivo per cui l'atto precede la potenza non solo rispetto al tempo, ma anche rispetto alla sostanza stessa.
Riformulando adesso il dubbio che ci eravamo posti in precedenza, potremmo chiederci: se la forma e la materia della sfera preesistono all'azione del fabbro, come può Aristotele identificare solo la materia con la potenza? Non è forse una forma triangolare anch'essa solo in potenza prima di essere congiunta a qualche materia?
Aristotele in effetti sostiene che la materia può essere concepita come pura potenza, o "materia prima", cioè assolutamente priva di forma, se intendiamo questo concetto come limite negativo, ovvero in maniera astratta. Ma ciò che si chiama comunemente materia, cioè la materia che possiamo reperire nella realtà, ha anch'essa una forma determinata, una qualche forma in atto. Ad esempio, elementi diversi come il fuoco, l'acqua o il rame, così come li troviamo in natura, hanno sempre una determinata forma, e non sono pertanto pura materia, materia in potenza.
Ma se Aristotele ammette l'esistenza di una materia prima, puramente in potenza, come nozione limite, non ammette tuttavia quella di una forma pura. Una simile asimmetria tra le proprietà dei due costituenti del "sinolon" dipende forse dal fatto che a suo avviso la forma, per essere tale - per esempio un triangolo per essere un triangolo - ha bisogno di essere in atto, perché, se non lo fosse, non sarebbe nemmeno una forma triangolare, mentre del rame potrebbe essere rame anche avendo una forma indefinita, ancora in potenza e in divenire. In altre parole, poiché il passaggio all'atto è caratterizzato dall'assumere una forma, visto che la forma - per essere tale - deve essere necessariamente gia formata, essa può essere solo in atto; cosa che invece non può dirsi della materia, la quale può essere - senza mutare - prima solo in potenza, e successivamente in atto.
Comunque sia, lasciandoci ora alle spalle questo problema - che meriterebbe una trattazione senz'altro più ampia di quella che possiamo qui dedicargli - conviene tentare di riassumere le linee salienti della metafisica aristotelica che abbiamo esaminato fino a questo punto: la sostanza, in quanto unità concreta e individuale di materia e forma, è secondo Aristotele alla base dell'essere così come del divenire. Essa consiste di un'essenza necessaria che è ad un tempo causa dell'essere e della sua determinatezza specifica, e tale essenza può essere individuata mediante una definizione, che a sua volta consiste nell'unione del "genere prossimo con "la differenza specifica".
Al contrario di quanto pensa Platone, per Aristotele la realtà è nella sostanza individuale concreta, nell'unione di forma e materia. L'essere aristotelico è infatti uno e ha la sua verità nella sostanza, con la conseguenza che per lui non è concepibile una distinzione tra il mondo delle idee o l'essere divino da una parte e l'essere delle cose dall'altra.
Nonostante il grande impegno di Alberto Magno e San Tommaso per recuperare nei suoi aspetti principali la tradizione del pensiero aristotelico, su questo punto bisogna registrare una differenza non riducibile. Per Tommaso infatti l'essere non è uno: il creatore è separato dalla creatura, perché le determinazioni di quest'ultima sono finite, mentre quelle di Dio sono infinite. Il termine "essere", riferito a Dio, ha per Tommaso un significato diverso da quello che assume quando viene riferito alle creature, perché in queste l'essenza non coincide con l'esistenza, mentre in Dio esistenza ed essenza sono la stessa cosa. Anzi, si può dire che il termine "esistenza" vale propriamente solo per gli esseri finiti: è applicato anche a Dio, ma impropriamente: Dio è, non esiste come gli esseri finiti e contingenti, perché "ex-sistere" significa essere dipendente da altro, cosa che certo non può dirsi di Dio (7).
Un'altra importante differenza tra la metafisica di Aristotele e quella di Tommaso la si può già rintracciare nel "De ente et essentia", che può essere considerato il suo primo scritto metafisico e "quasi il suo discorso sul metodo" (8). In questo saggio d'esordio Tommaso sostiene che non solo la materia e la forma, ma anche l'essenza e l'esistenza stanno tra loro nel rapporto di potenza e atto. Secondo lui infatti l'essenza - che egli chiama "quidditas" - si ricollega direttamente al "quod quid erat esse" di cui parla Aristotele nel VII libro della Metafisica e in quanto unità sostanziale non comprende solo la forma, ma anche la materia. Ciò emerge del resto con evidenza anche dall'esame della definizione, dato che dire dell'uomo che è un "animale razionale", per esempio, comporta sia un riferimento alla forma che un riferimento alla materia.
Dall'essenza così intesa Tommaso distingue poi l'esistenza delle cose stesse: noi possiamo infatti intendere benissimo quale sia l'essenza dell'uomo o della Fenice senza che vi siano né l'uomo né la Fenice. L'essenza (unione di materia e forma) ed esistenza sono quindi tra loro separabili e stanno l'una a l'altra così come la potenza aristotelica sta all'atto: l'essenza è la potenza rispetto all'esistenza e l'esistenza è l'atto rispetto a l'essenza; e la loro unione, cioè il passaggio dalla potenza all'atto, richiede l'intervento creativo di Dio, perché solo in Dio essenza ed esistenza coincidono.
Con questa radicale riforma della metafisica aristotelica Tommaso fa sì che la stessa costituzione delle sostanze finite esiga la creazione divina. Mentre Aristotele riteneva che ovunque ci fosse forma là c'era anche realtà in atto, e che perciò la forma fosse di per sé indistruttibile e ingenerabile, e quindi necessaria ed eterna come Dio stesso, la riforma tomistica muta radicalmente la metafisica aristotelica trasformandola da considerazione dell'essere necessario in considerazione dell'essere creato.
Sotto il profilo gnoseologico, invece, il principio aristotelico che "ogni conoscenza comincia dai sensi" viene utilizzato da Tommaso per limitare la capacità e le pretese della ragione. La ragione umana può elevarsi a Dio solo partendo dalle cose sensibili, attraverso la conoscenza delle creature, e sebbene il pensiero conoscitivo umano sia radicalmente eterogeneo rispetto a quello divino - perché mentre il primo procede parte dopo parte, il secondo intende tutto simultaneamente con un atto perfetto dell'intelligenza - il percorso più sicuro di cui la ragione umana dispone per avvicinarsi a Dio è quello d'intraprendere il percorso a ritroso che dalla conoscenza delle sostanze individuali risale al loro creatore.
In Dio non coincidono però solo essenza ed esistenza, ma anche l'intendere e l'essere, per cui, posto che all'intendere sia congiunta la volontà creativa, solo Dio può, intendendo l'essere, crearlo; e poiché l'anima umana non è parte della sostanza divina, ma è prodotta da Dio per creazione (9), si può dire che essa viene creata con un semplice atto dell'intelligenza di Dio unito alla sua volontà creatrice.
Ora, se per avvicinarci razionalmente alla conoscenza di Dio è utile la conoscenza delle sue creature, massimamente lo è la conoscenza dell'uomo, la cui anima intellettiva è per San Tommaso immateriale e immortale (10). Per questo, conoscere l'uomo significa conoscere un ente unico in tutto il creato (11), perché esso rappresenta l'unità sostanziale di elementi fisici, finiti e creaturali e di altri non fisici e non mortali che all'umanità sono stati rivelati da Dio "per viam fidei".
Scrive a questo proposito J. A. Weisheipl: "Appartiene alla natura propria dell'anima, secondo Tommaso, di animare il corpo; anche quando essa viene separata dalla materia in seguito alla morte, la sua natura è ancora quella d'informare la materia cui è collegata". Ciò dipende dal fatto che l'anima intellettiva umana "occupa una posizione unica in tutta la creazione: essa è nello stesso tempo la forma sostanziale per la quale l'uomo è razionale ed è un "hoc aliquid" immateriale, al cui 'esse' partecipa anche il corpo. A causa della sua immaterialità, poiché non è composta di materia e forma, essa non è corruttibile" (12). Per questo motivo, la stessa dignità della persona umana può essere riconosciuta solo partendo dal riconoscimento e dal rispetto di entrambi questi aspetti, nonché dalla consapevolezza dell'unità sostanziale, in ogni persona, di anima e corpo, di forma e materia, unità indissolubile in vita, ma di cui resta una traccia anche dopo la morte, e sulla quale secondo Tommaso può essere utile riflettere anche per spiegare la compresenza nell'uomo del desiderio di conoscere Dio e, nel contempo, la sua debolezza razionale nei riguardi di tale compito.
Note
1) Aristotele: "Metafisica", VI, 1, 1026 a, 30-32; trad. it. Torino 1974, p. 346: "Se non ci fosse una qualche altra sostanza, oltre a quelle che sono costituite naturalmente, la fisica sarebbe la scienza prima; ma, se c'è una qualche sostanza immobile la scienza che precede la fisica, costituisce la filosofia prima, è universale proprio perché è prima, e sarebbe suo compito speculare intorno all'essere in quanto è, alla sua essenza e alle sue proprietà che appartengono a esso in quanto è".
Cfr. Aldo Masullo: "Metafisica", Milano, 1980; p. 68.
2) Aristotele: op. cit. ibidem.
3) Aldo Masullo, op. cit. p. 71.
4) Cfr. Nicola Abbagnano: "Storia della Filosofia"; Torino, 1993; ed. cit. 1995; vol. I, p. 161.
5) Ibidem.
6) In particolare vedasi la traduzione ad opera di Giorgio Colli de "l'Organon" aristotelico; in "Opere", a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari 1973.
7) Cfr. Aldo Masullo: "Metafisica", op. cit. p. 111.
8) Nicola Abbagnano, op. cit. vol. II p. 300.
9) Tommaso d'Aquino: "Summa contra Gentiles", l. II, capp. LXXXV e LXXXVII; trad. it. Torino, 1992 (prima ed. 1975) pp. 496 e segg. e 502 e segg.
10) Tommaso d'Aquino: "Summa contra Gentiles", l. II, cap. L; op. cit. pp. 376 e segg.
11) Tommaso d'Aquino: "Summa contra Gentiles", op. cit., l. II, cap. XC, pp. 515 e segg.
12) J. A. Weisheipl: "Tommaso d'Aquino: vita, pensiero ed opere"; trad. it. Milano, 1994 (prima ed. 1988), pp. 256-257.