Meglio stare nella sala vicino al fuoco
Cosa può cercare il cuore nobile e stanco di una scrittrice? Forse null’altro che cuori altrettanto nobili, ma con le antenne ben pronte per captare la risonanza più limpida della sua anima. A questo in fondo servono gli amici e non a caso vorremmo che il loro ascolto e le loro parole ci accompagnassero ancora nella sera della vita. Marta Maria Pezzoli, detta Mattia, era una giovane studentessa universitaria che fu per un certo periodo amica di Anna Maria Ortese e che condivideva con lei la devozione per Catherine Mansfield. Timida e introversa, dopo gli studi universitari Mattia si orientò - come scrive il nipote Stefano Pezzoli nella breve nota biografica che chiude questo volume epistolare - “anziché verso l’insegnamento, verso l’appartato mondo della conservazione dei libri”.
Il libro in questione (Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia, Adelphi editore, Milano, 2023) raccoglie lettere scritte dall’Ortese dal maggio del 1940 al Luglio 1943. Si tratta di lettere per lo più intime, che non recano grandi tracce di quel disgraziato periodo bellico, e dalle quali emerge una sorta di autoritratto spirituale della scrittrice. Seppur manifestando umori diversi, in alcune di esse l’Ortese accenna al desiderio di rivedere l’amica, come per esempio in questo passo: “Cara Mattia, desidero non so come riaprire le ali (se mai ne ho avute) e riprendere il volo verso l’Italia alta. Mi parrà un sogno ritrovare dei visi gentili, dei cuori pronti e nobili come il tuo.”
La visione del mondo che emerge da queste pagine non è carina, anzi, è cruda, onesta, in un certo modo spietata e sanguigna: “ho grande diffidenza delle creature, - scrive l’Ortese in una di queste - ma so che a volte esse consolano. Credo fermamente che vivano su questa terra alcuni spiriti nobilissimi. Tutto il resto io disprezzo e odio. Mi sembra di essere incatenata. Quante parole violente, mi fanno dolere. So che prima di tutto dovrei vincere me stessa, far di me stessa una creatura buona. Ma Mattia, io chiedo delle risposte al mondo, non sono fatta per le solitudini – e in questi paesi nessuna creatura risponde. Ho con me i tuoi libri – t’invidio perché non sei qui. T’abbraccio”.
Il "letteralismo", l'Islam e la "palestinizzazione" dell'Occidente
Parte prima - Il «letteralismo» e l’Islam
Per lo psicoanalista americano James Hillman, allievo di Carl Gustav Jung, “la più grave delle malattie di cui soffre la psicoanalisi è il «letteralismo». La cura di questa malattia consisterebbe nel riorganizzare il materiale clinico mediante l’arte narrativa e l’esercizio nell’uso di metafore: l’obiettivo dell’analisi infatti non consiste tanto nel “conoscere se stessi”, quanto nel cercare se stessi nel mito, là “dove gli dei e gli uomini si incontrano”. Il «letteralismo» sarebbe in questo senso una malattia che affligge un’attività che, come la psicoanalisi, era nata per curare. Ma se questo è possibile, ciò dipende dal fatto che il «letteralismo» può, in linea più generale, essere considerato come una malattia dello spirito anche in altre sue manifestazioni.
In ambito religioso, per esempio, il «letteralismo» ha caratterizzato a lungo, e in buona parte caratterizza ancora, la religione cristiana. Galileo, per esempio, per difendersi dalle accuse che gli erano mosse di fare nelle sue opere affermazioni contrarie alle sacre scritture, sosteneva che queste, essendo testi di carattere religioso, non dovessero essere interpretate alla lettera per quanto riguardava le loro implicazioni conoscitive. Il vero senso della Scrittura non corrisponde infatti secondo Galileo al senso immediato delle parole, o al loro significato letterale. Infatti, chi si limitasse ad una interpretazione «letteralistica» della Scrittura dovrebbe poi accettare “non solo diverse contraddizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poiché sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anche talvolta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future”. Una simile opzione può però non essere quella prescelta, perché le proposizioni dettate dallo Spirito santo, “furono in tal guisa profferite dagli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato”.
Circa un millennio e messo prima di Galileo, Origene (Alessandria d’Egitto, 185 – Tiro, 254) aveva già distinto possibili approcci diversi alla Sacra Scrittura: quello fisico o letterale, quello psichico o morale, quello spirituale o mistico. Si trattava di tre modi per esprimere il senso degli scritti sacri. Il primo e più semplice era quello letterale; il secondo, più complesso, comportava una riflessione sul senso che i passi di un testo sacro potevano avere per l’anima umana; e infine il terzo, quello ideale, si fondava sulla legge spirituale che contiene “l’ombra dei beni futuri”, e cioè sapeva indicare in modo intimamene persuasivo la strada giusta per raggiungerli in questa e nell’altra vita.
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In mezzo a un guado, sospesi tra due etiche
Un anno prima della sua morte, avvenuta il 14 giugno del 1920 a Monaco di Baviera, Max Weber tenne in quella stessa città una conferenza divenuta poi famosa. Tale conferenza s’intitolava la Politica come professione (Beruf, che dal tedesco si può tradurre sia con il termine “professione” sia con “vocazione”) e vi si affrontava il tema, classico e sempre cruciale, dei rapporti fra etica e politica. Per spiegare questi rapporti Weber ricorre alla distinzione fra etica della convinzione ed etica della responsabilità.
L’etica della convinzione, o dei principi, (Gesinnungsethik) è un’etica assoluta, di chi opera solo seguendo principi ritenuti giusti in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze. In base questo tipo di etica un certo principio dev’essere seguito a qualsiasi costo: “avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”. Invece, l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik) è più pertinente alla politica e tiene conto delle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mettono in atto.
Abraham Yehoshua, il sionismo e la vocazione totalitaria dell'antisemitismo
In Totem e tabù Sigmund Freud sosteneva di avere in sé molti tratti caratteristici dell’ebraismo, e soprattutto “il principio fondamentale”. Pur non riuscendo a formularlo a parole, confidava però che un giorno la ricerca scientifica lo avrebbe chiarito. Per comprendere questo “principio fondamentale”, in Antisemitismo e sionismo Abraham Yehoshua - il grande scrittore israeliano autore di alcuni capolavori della letteratura di ogni tempo, come per esempio L’amante, Il signor Mani e Ritorno dall’India - sostiene che può rivelarsi utile la comprensione della radice dell’antisemitismo: questa ci aiuterebbe infatti “a sciogliere in qualche modo il groviglio del «mistero» dell’identità ebraica”.
Un testo da cui l’analisi Yehoshua prende le mosse per comprendere, mediante lo studio delle ragioni dell’antisemitismo, l’identità ebraica è il Libro di Ester, scritto da ebrei per altri ebrei in un periodo oscillante tra il IV e il II secolo a.c.. Si tratta di un testo canonico, parte integrante delle Sacre Scritture, che gli ebrei rileggono ogni anno nelle sinagoghe. In quest’opera è reperibile la tesi, enunciata per bocca di Hamam, che il popolo ebraico è diverso dagli altri fra i quali vive e che “la religione ebraica non potrà venire adottata da altre nazioni, come avviene per la greca, ad esempio, comune a molti popoli dell’epoca”.
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