Il lamento cromatico di una regina stregata
Sulla vita, la personalità e l’opera di Sylvia Plath è stato recentemente ripubblicato un libro di Leonetta Bentivoglio, scrittrice e giornalista culturale di Repubblica, che sembra scaturito da conversazioni immaginarie; sicuramente irrealistiche alla luce dei decenni che separano la vita dell’autrice da quella della poetessa americana, ma che possono sembrare il frutto di una frequentazione amichevole e profonda, e persino di confidenze condivise. In Sylvia Plath. Il lamento della regina (2022, Edizioni Clichy), la Bentivoglio pare infatti raccontare le vicende dell’anima di una sua amica eterna e lo fa con ritmo serrato, attraverso una densa scansione di momenti cruciali, di testi poetici e frammenti diaristici, e con un’intensità narrativa che riesce quasi a dissolvere il tempo che intercorre tra le loro vite.
Due giorni dopo il primo tentativo di suicidio Sylvia Plath viene ritrovata in garage agonizzante, ma ancora viva, dal fratello Warren. Affidata alle cure di un giovane psichiatra, dovrà imparare di nuovo a leggere e a scrivere. A fine gennaio del 1954, dopo essere stata curata anche con degli elettroshock, è dichiarata guarita. Può così rientrare allo Smith College, dove sceglie, come argomento della sua tesi di laurea, la figura del doppio nei romanzi di Dostoevskij.
Nel gennaio del 1955 consegna la tesi, intitolata The Magic Mirror: A Study in the Double in Two of Dostoevsky’s Novels. Il tema del doppio e dello specchio, la sua presenza invasiva sul fondo della sua anima, l’accompagnerà per tutta la vita, di cui ripercorrerà i momenti cruciali in the Poem for a Birthday: il rapporto con i genitori, il tentato suicidio, gli elettroshock, il matrimonio con Ted Hughes, un poeta di un certo fascino e successo, con cui si sposerà il 16 giugno 1956, la nascita dei figli e poi la separazione.
Piero Martinetti e il dialogo eterno tra ragione e fede
Joseph Ratzinger è stato recentemente definito da Massimo Cacciari, in un’intervista a l’Avvenire del 6 gennaio 2023, “un intellettuale europeo al mille per cento”. Secondo Cacciari, Ratzinger considera “legittimo e giusto il legame che si opera fin dai primi secoli del cristianesimo tra la filosofia greca e il Vangelo. È un legame che non si sovrappone al Vangelo ma che in qualche modo nasce dal Vangelo stesso, che si impone a partire da quel messaggio. Questo è il discorso intorno a cui dibatte la teologia e dell’Otto e Novecento a partire dall’idealismo tedesco, cioè tutta quella tradizione a cui Ratzinger appartiene anima e corpo”. Cacciari sostiene dunque che per Ratzinger “è proprio della fede rapportarsi con il logos, immanente all’atto di fede e che deve tendere alla verità esattamente come l’atto di fede”
Se per Ratzinger è essenziale per la fede rapportarsi al Logos, non è meno essenziale per il Logos, per la Ragione, rapportarsi alla fede. Nella famosa conferenza tenuta a Ratisbona il 12 settembre 2006, Papa Benedetto XVI sostenne che una ragione sorda al divino “è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture”. Il saper ascoltare “le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza”, mentre il rifiutare pregiudizialmente di farlo implicherebbe una riduzione inaccettabile della nostra stessa capacità ascoltare, rispondere e ragionare. Concetti simili saranno poi ripresi nell’enciclica Spe Salvi, nella quale il Papa da poco scomparso ribadì la limitatezza della sola ragione senza fede e una ferma condanna dell’illuminismo: “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.
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52 ritratti d'autore in 52 "lettere scontrose"
Benedetto Croce sosteneva che quando si perde la capacità d’indignarsi tutto è finito. Quest’affermazione è particolarmente appropriata per i giornalisti o gli scrittori, e per gli intellettuali in genere. “Vittima di ogni attualità possibile”, come si definì nei suoi giorni estremi, Giovanni Arpino considerò la contemporaneità il sale della propria vita, ma seppe sempre esercitare con maestria l’arte sottile di manifestare la sua indignazione rispetto a quanto accadeva intorno a lui in modo argomentato, pungente, gentile e intelligente. Negli anni del boom economico, quando tutto, o quasi, sembrava filare per il meglio e un certo diffuso ottimismo veleggiava per le strade, le spiagge e gli stadi di calcio, fu una voce spesso dissonante, poco incline ad assecondare acriticamente mode culturali o di costume.
In queste Lettere scontrose, (e una risposta, quella di Totò) si dimostra in particolare un grande ritrattista, in grado di restituirci gran parte della sapidità di quegli anni, ovvero del biennio 1964-1965, quando queste lettere furono scritte su Tempo, il settimanale diretto da Arturo Tofanelli, rivelando una volta di più, oltre a una certa spigolosità del proprio carattere, anche la sua finezza psicologica e la grande qualità letteraria della sua prosa.
Arpino scrive a vari protagonisti di quegli anni, attivi in campi assai diversi: dalla politica, al cinema e al calcio. Tra le lettere inviate ai politici, quella destinata a Ugo La Malfa è forse una delle più efficaci e utili per comprendere anche le presenti circostanze patrie, che hanno più di qualche punto in comune con quelle di allora. Arpino si sofferma infatti sulle “congreghe d’inquisitori” che si stavano formando in Italia durante gli anni 60 e che prima o poi avrebbero deciso di “bruciare gli intelligenti rimasti, come mostri pericolosi, asociali, contagiosi”. Forse l’intelligenza stava “diventando un vizio, una mostruosa verruca, che l’uomo, per essere felice e candido e leggero e utile a se stesso”, doveva “sapersi strappare dalle carni” e forse l’avvenire del mondo non dipendeva più “dall’intelligenza, ma da una pace idiota e infantile del cervello”.
Christian Bobin, la pioggia e la musica di Mozart
Lo scrittore francese Christian Bobin è venuto a mancare da poco più di un mese, esattamente il 24 novembre 2022. Era nato a Creusot, in Borgogna, il 24 Aprile 1951 e lì, nella sua casa di campagna, ha trascorso tutta la sua vita. Ci piace ricordarne qui l’opera parlando di un suo piccolo libro che trova in Mozart e nella pioggia il proprio saliente pretesto, l’occasione preziosa colta dall’autore per raccontare al lettore anche il proprio rapporto con la letteratura.
Quasi tutti i libri di Bobin sono “piccoli”, forse perché tutta la sua opera è attraversata da un desiderio di semplicità e di chiarezza, ovvero del tratto principale della musica di Mozart, le cui grandi arie fanno luccicare le note come le foglie di un albero “sotto la benedizione di una pioggia d’estate”. Quello della chiarezza è infatti per Bobin “il più bel dono che possiamo ricevere in questa vita tenebrosa”, ma non si tratta di un dono innocuo, perché talvolta può trafiggerci come un dardo fatale, può illuminarci o ferirci con la stessa disinvoltura, probabilmente perché tutto ciò che ci parla in modo chiaro della vita è anche un’agnizione della morte.
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