Essere un altro, nei sogni di altri
Nell’introduzione a Lo specchio che fugge, il volume di racconti di Giovanni Papini pubblicato in traduzione italiana ne La biblioteca di Babele, la storica collana di Franco Maria Ricci curata dallo stesso Borges, quest’ultimo spiega le ragioni della sua ammirazione per uno degli autori che, insieme a Dante e a Croce, lo indusse a imparare l’italiano e che oggi è spesso relegato, anche in molti manuali liceali, entro desolanti spazi marginali.
“A somiglianza di Poe, che senza dubbio fu uno dei suoi maestri, Giovanni Papini non vuole che i suoi racconti fantastici appaiano reali. Il lettore sente dall’inizio l’irrealtà dell’ambito di ciascuno. Ho citato Poe; – continua Borges – potremmo aggiungere che questa tradizione è quella dei romantici tedeschi e delle Mille e una Notte. Questa convinzione di irrealtà corrisponde a ciò che sappiamo del suo destino, sempre insidiato dall’agguato dell’incubo, che inesorabilmente lo accerchiò negli ultimi anni”.
La silloge di racconti in oggetto inizia con Due immagini in una vasca, in cui un uomo si specchia nel riflesso acqueo della sua immagine di sette anni prima. Dopo aver constatato che soltanto l’impossibile diviene reale, dato che solo l’impossibile condivide col reale una dimensione assoluta, prenderà atto che dalla convivenza con quel se stesso anteriore scaturirono per lui alcuni giorni d’impreveduta gioia, che poi, a poco a poco, si trasformò tuttavia in insofferenza e disprezzo.
Nel secondo racconto, Una storia completamente assurda, un uomo trova per caso nel libro scritto da un altro, a lui in precedenza ignoto, il resoconto esatto della sua vita, presentata come fosse una storia immaginaria, storia che il suo inopinato protagonista in carne ed ossa confesserà poi all’autore di trovare “stupida, noiosa, incoerente e abominevole”.
Ricordo di Pietro Ceretti: un artista di strada, un poeta e un filosofo erroneamente poco celebre
Nel discorso commemorativo del primo centenario della nascita di Pietro Ceretti (Intra, 1823-1884) un altro piemontese, Piero Martinetti (Pont Canavese, 1872, Cuorgnè 1943) ricorda che un elemento importante della sua formazione umana e culturale furono i viaggi, “che egli intraprese dall’età di ventun anni per tutta l’Europa, errando, come i saggi antichi, senza meta, col solo fine di vedere la varietà degli uomini e dei loro costumi. Egli viaggiava a piedi, con la massima semplicità”. Viaggiava fingendosi operaio o bracciante e accompagnandosi talvolta a zingari o vagabondi. A Parigi una volta entrò in un’aula della Sorbona per ascoltare una lezione e dalla reazione basita dei presenti si capisce che il suo aspetto non doveva essere dei più rassicuranti.
Riferendosi a questo periodo giovanile della sua vita lo stesso Ceretti lo descrive così in una delle sue opere (Viaggi utopistici, 1878): “in questa somma libertà della mia vita errabonda ho praticato molte cose, che nel mio paese nativo sarebbero titolate inqualificabili stramberie: per esempio, ho potuto vagolare con un organetto per divertire i popolani, i ragazzi, e le ragazze che mi ballavano intorno, mentre un mio intrinseco vagolava per la debita questua. Ho potuto associarmi con un gessino e un girovago portatore di organetto, i quali erano vagabondi mio pari. Mi ricordo che in simili circostanze si cenava con una zuppa nel medesimo tegame, che serviva per i tre, e ci coricavamo qualche volta in una sola camera”.
Ma chi era questo curioso personaggio, artista di strada e intellettuale, poeta e scrittore, suonatore di organetto nonché autore di ponderosi trattati filosofici di matrice hegeliana? Sicuramente, a distanza di circa un secolo e mezzo dall’epoca in cui ebbe a vivere, la sua celebrità non si è mai discostata molto da quella, piuttosto inconsistente, su cui aveva esercitato la sua autoironia. Il gusto della solitudine e un sereno misantropismo gli consentirono infatti di tenersi alla larga dalla tentazione di voler conquistare successo e fama, e ciò anche grazie a una notevole dose di rigore intellettuale e all’esercizio dell’astinenza pubblicistica.
Nei ripostigli del cuore, sentire le cose parlare
Come un pupazzo a molla che salta da un ventre di legno, preda del desiderio di prendere ancora e sempre parte alla vita, o come un foglio accartocciato in un cestino e riaperto con circospezione per ritrovarvi le tracce di quanto non è mai accaduto, o “un sogno impalpabile di luce e di calore/che vaga tra l’erba e le piante del prato”, siamo alla fine questo stesso qualcuno afferrato da “una acuta ed inutile voglia” di sedersi per terra e di non fare più nulla per lasciarsi sorprendere dal proprio sguardo sul mondo. Si tratta solo di sapersi riconoscere in pochi momenti essenziali in cui si resta sospesi, in quei pochi smisurati istanti in cui la vita intera pare tirare le fila e disegnare un profilo nell’aria, il nostro o quello di uno sconosciuto, di quel pupazzo un po’ sinistro e ignoto che siamo, sogni di altri non meno ignoti, di un destino ridente che ci fa assomigliare ad un piccolo Dio con la sua aura di banalità che lo accompagna come un’ombra.
"Cantiamo ciò che non abbiamo": in questo verso, che dà anche il titolo a questa raccolta di poesie di Marco Giovannetti, sembra riecheggiare, come in un romanzo di Vittorio Saltini di un po’ di anni fa, un verso di Antonio Machado: "Se canta lo que che se pierde": quel che non abbiamo o abbiamo perduto è infatti ciò che rimane accartocciato nel cestino, è “l’angoscia di non poter urlare il nostro niente/come un ciclope accecato, irriso”.
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Il sentimento estetico di un intellettuale disorganico
Il 7 novembre 2016 Mario Perniola, uno dei maggiori e più originali filosofi italiani dell'ultimo mezzo secolo nonché uno dei pochi ben conosciuti all'estero, ebbe dal suo medico una prognosi infausta: "un anno di vita. Non un mese di più, né un mese di meno".
Cosa accadde durante quell'anno Perniola lo racconta in un libro che è anche un testamento filosofico: Tiresia contro Edipo. Vita di un intellettuale disorganico (Il melangolo edizioni, Genova, 2021), libro che è essenzialmente il tentativo di decifrare il senso del proprio destino alla luce della propria malattia. S'ispira in tale tentativo all'idea stoica di amor fati, che Perniola definisce come "l'adesione incondizionata a ciò che è stato, a ciò che è, a ciò che sarà", e cioè a quella "riconoscenza nei confronti del nostro destino" che si concilia in lui con quel sentimento estetico che lo ha accompagnato durante tutta la vita.
Come osserva Enea Bianchi nella bella introduzione al volume da lui curato – gli stoici, per i quali la realtà è permeata dal logos, rintracciano la bellezza e il vero bene nel mondo e non in un mondo dietro al mondo". Rintracciare la bellezza nel mondo, saperla trovare nel proprio destino anche quando ci conduce all'incontro con Madame Morte, è uno dei principali motivi ricorrenti in questo libro, e poiché per farlo è necessario mettersi alla ricerca delle cause psicologiche del suo male a questo fine viene evocato Tiresia, il divinatore della tragedia di Edipo, proprio in quanto è ritenuto in grado di anticipare le cause psicologiche del male. E secondo l'autore, nel suo caso, l'origine del male è riconducibile al bisogno di essere visti.
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