Un cuore pieno di simboli... nel diario d'un istante
È la purezza del dolore che genera la poesia. Nessuna poesia potrebbe aver mai avuto luogo senza l’ombra del dolore necessario a far risuonare l’eco delle sue parole. E la morte, si sa, è maestra nel generare dolore. La principale, e l’ultima, che non lascia spazio a ulteriori infingimenti, non a menzogne o a diatribe.
La morte è sempre la morte di qualcun altro, come dice Heidegger, e quindi noi siamo condannati a poterne fare esperienza solo per interposta persona, ma in qualche caso la morte di un’altra persona può essere tanto devastante da trasfigurare completamente il senso della nostra presenza del mondo, oppure da renderlo ancor più riconoscibile e nitido, come prima, forse, non era mai stato possibile coglierlo. Nella misura in cui ci siamo rapportati al mondo e agli altri in modo trasparente, l’unica morte che ci è concesso di vivere può purificare e rendere limpido ogni sentimento che durante la vita precedente sia rimasto, anche solo in parte, sospeso o indecifrato.
Ma la morte è anche apparenza, mancanza di sostanza, non essere per eccellenza. Una metamorfosi sommessa, un dileguarsi nel nulla per farsi eterni, per trovare nel nulla la propria consistenza definitiva. Come scrive Fernando Pessoa in una poesia, è un momentaneo sottrarsi allo sguardo, un divenire invisibili per un tempo imprecisato: “La morte è la curva della strada, / morire è solo non essere visto. / Se ascolto, sento i tuoi passi / esistere come io esisto. / La terra è fatta di cielo. / Non ha nido la menzogna. / Mai nessuno s’è smarrito. / Tutto è verità e passaggio”.
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Thomas Mann e i moderati nell'era della tecnica
Tre anni prima del suo rientro definitivo in Germania dagli Stati Uniti, nel 1950, Thomas Mann tenne a Chicago una conferenza con un titolo semplice ed emblematico: Il mio tempo. La traduzione italiana della conferenza, di Ervino Pocar, è contenuta in un volume della vecchia Medusa mondadoriana nel contesto di una silloge per la cui composizione lo stesso Mann ebbe occasione di compiacersi con l’editore italiano (T. Mann, Il mio tempo, in Romanzo di un romanzo, trad. it. Mondadori, 1952, pp. 241-265).
Il tempo in cui il grande scrittore tedesco si trovò a vivere, e di cui parlò in quella conferenza, è ancora quello dell’epoca che Goethe aveva già contrassegnato come l’era delle “facilità”, e che Mann assimila all’ “epoca della tecnica, del progresso e delle masse, quell’epoca che dopo una corsa di 120 anni è giunta in questi giorni angosciati a toccare la vetta vertiginosa e veramente fantastica” (ivi, p. 243).
La vetta cui Thomas Mann si riferisce è quella caratterizzata dal secondo conflitto mondiale, dall’olocausto e dall’incipiente guerra fredda, ma anche dal rapido diffondersi di quelle “mode” e correnti culturali che lui non seguì mai: “quando il mio pensiero ritorna al passato… – scrive infatti – ecco, io non ho mai seguito la moda, non ho mai portato il macabro martello dell’Arlecchino fin de siécle, mai avuto l’ambizione di essere all’avanguardia letteraria, mai appartenuto a una scuola o alla consorteria che era di volta in volta al comando, né al naturalismo, né al neo-romanticismo, al neo-classicismo, al simbolismo, all’espressionismo, e chi più ne ha più ne metta. Perciò non fui mai sostenuto da nessuna scuola e raramente lodato dai letterati (ivi, p. 251)”.
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La sventura e la Grazia
Autore:
Come credere in un Dio assente. Saggio su Simone Weil
Dio assente per un certo tempo.
Nessun filosofo può sottrarsi al rischio di rimanere preda dei paradossi che arriva a vedere e pensare, al rischio di esplodere in volo un attimo dopo averli sfiorati con le proprie ali. Come Kierkegaard testimonia – e come Jean Luc Marion sottolinea – “un pensatore senza paradosso è come l’amante senza passione, pura mediocrità”.
Il pensiero di Simone Weil non può che sottrarsi a qualsiasi sospetto in tal senso: la sua idea di Dio propone paradossi incalzanti cui la sua stessa vita rimase a lungo sospesa e il fatto stesso che per lei Dio possa manifestarsi solo tramite la sua assenza risulta fondamentale per poter comprendere il suo rapporto con la fede cristiana.
L’esperienza della «sventura» ha proprio la prerogativa di rendere “Dio assente per un certo tempo”, un tempo in cui, tuttavia, “bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, seppure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora un giorno Dio le si mostrerà e le svelerà la bellezza del mondo, come accade a Giobbe”.
La sventura è per la Weil un dispositivo semplice: raduna tutto il male e lo raccoglie in un unico punto per trasfigurare il dolore di cui un essere umano è capace in una dimensione «impersonale», quella stessa in cui in definitiva si manifesta la grazia. Solo attraverso la sventura Dio può rivelarsi come il riflesso infinito della propria assenza; e amare Dio attraverso l’esperienza della sua assenza costituisce l'unica garanzia che abbiamo per poter coltivare una fede non idolatrica, una fede che sia in grado di trasfigurarsi nella testimonianza diretta e piena della sua presenza.
http://www.asterios.it/catalogo/la-sventura-e-la-grazia
Perché non bisogna votare per il primo partito
(… e come fare per riconoscere i componenti del secondo).
Il primo partito non è mai una realtà monolitica, ma è da sempre composto da diverse correnti. Queste possono dar vita a un partito unico perché, nonostante le loro divergenze superficiali o apparenti, condividono le seguenti caratteristiche: 1) Sono solite autopromuoversi attraverso slogan piuttosto che attraverso argomentazioni; 2) Non sono solite trarre le conseguenze che sarebbe ragionevole aspettarsi dalle loro analisi o proposte né assumere la responsabilità delle proprie affermazioni; 3) Sembrano condividere con Hobbes la convinzione che la democrazia sia essenzialmente un’aristocrazia di oratori e tendono a considerare i cittadini votanti come dei meri strumenti di potere. In altri termini, come degli sciocchi facilmente manipolabili.
Alla luce di queste osservazioni, sarebbe dunque preferibile non votare per il primo partito e scegliere invece di votare per il secondo. Questo, purtroppo, è da sempre minoritario, in quanto composto dall’esiguo numero di persone che quando avanzano delle proposte per risolvere problemi o affrontare situazioni difficili non cercano di nascondere ai cittadini le relative difficoltà, ma anzi le illustrano a dovere mettendole bene in evidenza. Questo secondo partito è composto dunque da persone indipendenti, che amano tenersi alla larga dal primo partito e la cui influenza sul dibattito politico è pressoché irrilevante, in quanto le loro analisi sono scomode e loro proposte impopolari.