Conversazioni d'amore in una stanza vuota
Era mai stato felice Evgenij Petrovič? Sì, lo era stato molto, ma da tempo non lo era più. Da quando la donna che aveva amato era scomparsa lui si aggirava nella sua vita senza una meta e la successione metodica delle sue giornate pareva sospesa sopra la membrana sottile di un senso arcano, su una superficie piatta e scivolosa dove non c’era più spazio per alcuna percezione piena della propria esistenza.
Il protagonista di questo lungo racconto, o breve romanzo, di Nina Berberova - la scrittrice russa nata San Pietroburgo nel 1901 e morta a Filadelfia, negli Stati uniti, nel 1993 – è una persona a tratti spaesata, incapace di cambiare, di vivere come gli altri, e in cerca di un centro per la propria anima. Per emigrare da Parigi negli Stati Uniti cerca di vendere due orecchini, ma una delle due perle è intaccata da un “male nero” che ne abbatte drasticamente il valore. Per racimolare il denaro necessario per partire decide allora di condivide la stanza che ha in affitto con Alja Ivanova, una ragazza che balla all’Empire.
Il viso di Alja “formava un ovale perfetto e il collo risultava un po’ troppo lungo”; aveva capelli lisci e orecchie strette, un colorito piuttosto pallido, che emanava una certa purezza. Gli occhi e il sorriso non erano mai ambigui e tutto il suo essere “comunicava limpidezza”. Anche il suo corpo, in cui ogni muscolo era ben allenato a causa del suo lavoro, assomigliava al suo viso: “era puro, lindo e vagamente etereo”, e quando il suo profilo era chinato sulla pagina di un libro, mentre con la lunga mano magra si ravviava i capelli, la sua presenza nella stanza dove convivevano lo rendeva stranamente felice.
La voce negli occhi e gli abbracci perduti del cuore
Se Orfeo non si fosse voltato e se la vita potesse continuare oltre ogni apparente morte? O se alla fine ci fosse davvero, come si chiede Fernando Pessoa, “qualcosa così, come un perdono”? Forse allora questi racconti penetranti e dolenti di Laura Guidugli non sarebbero stati necessari per svelare, una volta di più, che proprio lì, in quanto non rimane, nell’ombra di una perdita definitiva o di qualcosa che finisce senza una ragione plausibile, viene conservato, come in uno scrigno, il senso di ogni esistenza.
Laura Guidugli - docente di letteratura (al Liceo “Majorana” di Capannori) destinata a lasciare sempreverdi e care memorie tra i suoi studenti per la sua palese confidenza con tutto quanto è umano - in questa silloge di racconti, (Abbraccia dove sei, peQuod editore) narra con limpido sguardo dell’eterno litigio tra la terra e il cielo, di quanto s’insinua tra le attese che aprono squarci improvvisi di vita, tra baci fugaci, abbracci notturni e insonni rammendi di sposi. Queste storie straordinarie e comuni, scavate da dita lievi che trattengono il piacere quasi tattile di assaporare ogni dettaglio, sono percorse da una trina sottile di esitazioni e scoperte.
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Theodor W. Adorno, Ernest Ansermet e la musica nuova
Theodor W. Adorno considera la convinzione che Beethoven sia più comprensibile di Schönberg un “inganno” e pensa che quanti sono scandalizzati dalle dissonanze siano in realtà spaventati da se stessi: è unicamente per questo che le dissonanze riescono loro insopportabili. In Filosofia della musica moderna (Torino, 1969 e 2002, Einaudi editore) il filosofo francofortese, al quale si deve forse più che a ogni altro la giustificazione teorica della musica dodecafonica, equipara coloro che s’indignano dinanzi alla nuova musica a chi tratta il classicismo viennese come un prodotto di consumo qualsiasi, al pari di “ninnoli casalinghi. In realtà un ascolto adeguato di quegli stessi pezzi di cui l’ometto della metropolitana fischietta i temi, esige uno sforzo ancora maggiore che non la musica più avanzata: e cioè quello di togliere di mezzo la vernice di falsa esibizione e di formula reazionaria ristagnate col tempo”.
L’equiparazione da parte di Adorno di quanto di musicale viene ancora oggi, dopo uno o più secoli, ascoltato da molti con grande trasporto a dei “ninnoli casalinghi” ha tuttavia il sapore di un elitarismo mascherato da sortilegio dialettico e non pare esente da una certa arroganza teorica. Quest’impressione può trovare una qualche conferma nel fatto che Adorno fa propria la tesi di Clement Greeberg secondo cui l’arte può essere distinta “in falsità e avanguardia”, dove ciò che s’intende per “avanguardia” viene a coincidere con l’unica possibile via autentica, mentre tutte le altre opzioni vengono relegate a manifestazioni culturali false e reazionarie. Si tratta ovviamente di una tesi estrema e forse in parte provocatoria, ma utile per evidenziare l’essenziale autoreferenzialità della posizione di Adorno, che riduce qualsiasi critica alla nuova musica ad una sostanziale incapacità di comprenderla, quando non a una vera e propria malafede intellettuale.
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L'eco di un lamento che ancora risuona
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi fu un classicista sui generis: legato all’esperienza della riviera ligure accanto a Angiolo Silvio Novaro, senza essere un tipico rappresentante del mondo ligustico, prefigurò un paesaggio ‘esistenziale’ cui avrebbero in seguito attinto anche Sbarbaro e Montale. Nato a Genova il 6 gennaio del 1871, coltivò con cura il verso carducciano rivelando un certo gusto per l’imitazione dei suoi modelli lirici prediletti. Si misurò con la lezione stilistica di Leopardi e dimostrò un certo eclettismo, cercando nella letteratura anche delle gratificazioni storiche e personali. Pur trovando conforto nella tradizione la sua fu anche una poesia impegnata a manifestare il proprio dissenso con la società del suo tempo.
Da ragazzo s’innamorò perdutamente della figlia di un rivenditore di fruste, di peperoni e di fulminanti. Poiché la fanciulla non lo corrispose, caricò una vecchia pistola e si sparò al cuore. Riuscì a salvarsi, portando però per tutta la vita le tracce delle ferite mal rimarginate. Si sposò poi, nel 1901, con Francesca Giovannetti, una ragazza di Sant’Anna a Pelago, senza essere mai pienamente accettato dalla sua famiglia. Ebbero un figlio, Tristano, che fu afflitto da persistenti malattie e fu grande causa di apprensione per entrambi i genitori.