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Il dragone è sempre più vicino, e non è solo

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      L’etichetta «made in China» non era stata ancora inventata, eppure la civiltà cinese esisteva già, ed era fiorente ed evoluta. Nemmeno il nome Cina non esisteva: sarebbe nato solo con la Qin che, appunto, si pronuncia cin. Si tratta di una dinastia che, come ricorda Federico Rampini nel suo ultimo saggio (Fermare Pechino: Capire la Cina per salvare l'Occidente, Mondadori editore), unifica sotto un’unica amministrazione gran parte del territorio cinese a partire dal 221 avanti Cristo. La terra della seta, che in seguito arriverà in Europa grazie a due monaci, e contrabbandieri, nestoriani, sarebbe poi divenuta, durante il medioevo e per merito di Marco Polo, il famoso Catai.

    Non sono trascurabili i segni della presenza di tale civiltà all'arte occidentale: basti pensare all’Adorazione dei Magi dipinta da Giotto nella basilica inferiore di Assisi, in cui sono riconoscibili due personaggi cinesi, o a un affresco del Pisanello, San Giorgio e la principessa, che si trova nella chiesa di Sant’Anastasia a Verona, e in cui sono ben visibili due cavalieri dai tratti somatici asiatici, o ad alcune opere di Ambrogio Lorenzetti.

   Ma soprattutto Rampini ci ricorda che Confucio è più antico di Machiavelli e che ha insegnato ai cinesi "il rispetto per l’istruzione, il senso delle gerarchie e delle regole, la venerazione per i padri, la capacità di anteporre la comunità all’individuo", tanto che lo ammirarono anche Voltaire e Montesquieu.

   Sulla civiltà cinese ebbe però una grande influenza anche il buddismo, e con esso una sua certa idea del diavolo di cui ci ha trasmesso dei simboli: nel tardo medioevo, per esempio, il demonio veniva spesso raffigurato come un pipistrello, che assomiglia molto al dragone della tradizione cinese, tanto da poter suggerire l'ipotesi semiseria che il covid sia partito non per caso proprio dalla Cina, e dai pipistrelli.

  • Cina

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Dialogando in sogno con i maestri

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L'opera pittorica di Christian Olivares

 

   Christian Olivares nasce a Valdivia, in Cile, il 13 settembre del 1944 da padre cileno e madre danese, frequenta la Scuola di Belle Arti a Santiago e poi si perfeziona all'Accademia delle Belle Arti di Ravenna. Durante la dittatura di Pinochet si mette in luce in Italia grazie a varie mostre collettive di artisti dissidenti cileni, mentre in seguito realizza mostre personali, oltre che nel suo paese d'origine, anche a Roma, Bologna e Berlino. Oggi risiede ad Amburgo, ma ha soggiornato a lungo anche in Italia, soprattutto a Bologna, a Roma e a Parma, dove ha collaborato come volontario all'ospedale psichiatrico di Colorno quando era diretto a Franco Basaglia. Sempre in Italia, e poi in Spagna, ha curato le scenografie di alcuni film di José Maria Sanchez. Ha inoltre realizzato le scenografie di alcuni spettacoli teatrali del regista cileno Raúl Ruiz Pino al festival di Avignone e della ballerina spagnola di flamenco María Pagés.

   Nonostante questi pregressi, nel nostro paese è però conosciuto più per l'errore dei giudici che attribuirono un suo quadro a Pacciani, ovvero al "mostro di Firenze", piuttosto che per lo straordinario complesso della sua opera. Fu Vittorio Sgarbi ad avvertire giudici superficiali e frettolosi giornalisti che non poteva non trattarsi di un vero pittore, caratterizzato da una profonda conoscenza della storia dell'arte, assimilata e rielaborata in maniera originale.

    Quella di Christian Olivares è infatti un'opera variegata di stili anche assai eterogenei ed evocativi di correnti artistiche diverse, da cui trapela costantemente una profonda cultura pittorica ed estetica. Una delle cifre stilistiche preminenti è una certa solitudine dei corpi, sorpresi spesso in un'espressione che li raccoglie, è una certa fierezza che traspare dagli sguardi e da certe espressioni dei volti, che sono spesso colti in momenti di silenzioso raccoglimento, quasi rivelando un'attitudine un po' buddista o taoista al non pensiero, al conseguimento di quel vuoto mentale che poi costituisce la massima forma di consapevolezza.

  • Cezanne
  • Christian Olivares
  • Monet

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Dieci differenze tra i "settari" e i "dialogici" nella vita e su Twitter

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   Il presente e succinto promemoria parte dall'ipotesi che i "settari" siano una categoria psicologicamente, sociologicamente e culturalmente ben definibile, esattamente come i loro eterni contraltari, ovvero i "dialogici". Ma come si fa a distinguere, nella vita e su Twitter, gli uni dagli altri?

 

   Prima differenza: i settari tendono ad asserire, i dialogici ad argomentare.

   Seconda differenza: i settari tendono ad essere sempre d'accordo con il loro capo carismatico, o leader, mentre i dialogici talora sono critici anche verso le persone che apprezzano e stimano di più.

   Terza differenza: i settari tendono a rispettare le gerarchie all'interno della loro setta; i dialogici, non identificandosi mai con alcuna setta, non hanno alcuna particolare soggezione verso qualsivoglia gerarchia.

   Quarta differenza: i settari tendono a muoversi e agire in gruppo, i dialogici tendono a farlo da soli.

   Quinta differenza: i settari sono inclini all'offesa, mentre i dialogici solitamente ne rifuggono.

   Sesta differenza: su Twitter i settari tendono a mettere molti like, specialmente dove ce ne sono già tanti; i dialogici ne mettono in genere di meno, ma di più dove ce ne sono di meno.

   Settima differenza: i settari tendono a non cambiare opinione, anche quando non ne hanno, come spesso accade, una propria; i dialogici tendono a cambiarla con circospezione.

   Ottava differenza: i settari, identificandosi con la propria setta, hanno qualche difficoltà in più dei dialogici a provare vergogna, perché si appagano di surrettizie sicurezze gregarie.

   Nona differenza: i settari, al contrario dei dialogici, sono per lo più incapaci di trarre un vero piacere dalla conversazione, mentre trovano soddisfazione nelle discussioni, specialmente se accese.

   Decima differenza: sia nella vita sia su Twitter i settari tendono a ripetere all'infinito i luoghi comuni cari alla propria setta e talora, sbagliando coordinate, inavvertitamente anche ad altre concorrenti; ripetizioni da cui invece rifuggono i dialogici.

 

  • Dialogici
  • Settari

Il Marx di Isaiah Berlin

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    Uno dei massimi intellettuali e saggisti d'area liberale del Novecento, Isaiah Berlin, in un libro ormai classico pubblicato per la prima volta nel 1939 e uscito quest'anno in traduzione italiana per Adelphi a cura di Henry Hardy, definisce Karl Marx come "il vero padre della storiografia economica moderna e forse anche della sociologia moderna", almeno "nella misura in cui è possibile attribuire questo titolo a un'unica persona".

    Tutta l'imponente e geniale architettura filosofica costruita da Marx potrebbe aver preso le mosse da un'idea enunciata in un verso di Rassegnazione da Friedrich Schiller: "la storia del mondo è la giustizia del mondo". Sul fatto che la storia proceda sempre verso una maggiore razionalizzazione della realtà lo storicismo hegeliano e quello di Marx secondo Berlin concordano: "la scissione nacque al momento di stabilire quale peso dovesse essere attribuito ai termini cruciali razionale e reale".

    Com'è noto, uno dei motivi di discussione tra destra e sinistra hegeliana verte proprio sul diverso peso da attribuire alle due parti di una celebre formula di Hegel: "il reale è razionale e il razionale è reale". Mentre la destra tendeva a sottolineare la prima parte dell'affermazione, la sinistra metteva in risalto la seconda. La storia, in questa prospettiva, non poteva che consistere nella progressiva razionalizzazione della realtà, e cioè non poteva che progredire verso il superamento, in senso hegeliano, delle sue contraddizioni, e quindi, per Marx, del fatto che mentre la produzione, dopo la prima rivoluzione industriale, era diventata collettiva, la proprietà dei mezzi di produzione era rimasta in mani private. La Storia avrebbe provveduto a superare una tale contraddizione facendo in modo che i capitali si accumulassero nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone, mentre un numero sempre maggiore sarebbe diventato sempre più povero. Una volta che fosse giunta a completa maturazione la contraddizione strutturale di partenza si sarebbe instaurata, in una prima fase, la dittatura del proletariato e poi il comunismo vero e proprio, ovvero la società senza classi.

  • Isaiah Berlin
  • Karl Marx

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Un'intervista al Principe di Salina sull'Italia di oggi

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I: La ringrazio ancora, Don Fabrizio, per avermi concesso quest'intervista, che inizio col porle una domanda che ho in serbo da tempo: lei ha affermato, all'interno dell'opera del suo discendente che l'ha fatta conoscere al grande pubblico, che i siciliani non vogliono cambiare, non vogliono migliorare, perché in fondo presumono di essere perfetti, perché la loro vanità, ma anche il loro desiderio d'oblio, gli impediscono di desiderare o auspicare qualsiasi mutamento. Ritiene quindi che i problemi fondamentali della Sicilia, ma anche dell'Italia, visto che si tratta in buona parte degli stessi, siano problemi insolubili?

 

Principe: A quali problemi si riferisce?

 

I: Mi riferisco per esempio alle ampie sacche d'inefficienza e corruzione, alla burocrazia ipertrofica che le alimenta, ai molti giovani che anche per queste ragioni sono indotti a emigrare e al fatto che, nonostante alcuni successi nella lotta alla criminalità organizzata, le mafie continuano a prosperare come prima e più di prima.

 

Principe: Come ebbi già a dire al cavalier Chevalley, alla cui cortese offerta di un posto nel Senato del nuovo regno replicai illustrandogli le ragioni della mia disillusione, secondo me ormai è tardi per cambiare. Una volta che si è formata la crosta viene meno ogni reale intenzione di cambiamento. Per questo i giovani farebbero bene ad andarsene prima. Vede, nessun problema del genere è insolubile, ma tutti lo sono quando non si ha alcuna intenzione di affrontarli e risolverli. Prenda per esempio il problema della criminalità organizzata, visto che vi ha fatto cenno con la sua domanda: ma lei pensa veramente che se uno Stato moderno volesse realmente combatterla ed eliminarla in oltre un secolo non ci sarebbe riuscito?

 

Intervistatore (I): Non saprei, secondo lei?

 

Principe: Nessun Stato moderno discretamente efficiente e realmente democratico è impotente verso le mafie: può trovarsi a gestire con qualche difficoltà questi fenomeni per qualche periodo di tempo, ma poi ne viene a capo. Diverso è il caso quando la criminalità organizzata ha avuto modo di diventare per fatturato di gran lunga la prima azienda di un paese. Quale Stato potrebbe mai avere interesse a smantellare un'impresa simile? Quale potrebbe trovare la forza e la determinazione per farlo? Ha idea del contraccolpo economico, e dunque anche politico, che una simile operazione comporterebbe?

 

I: Immagino un notevole danno economico, e di riflesso magari anche politico. In effetti la criminalità organizzata è di gran lunga la prima azienda italiana. Se non ricordo male la sola Ndrangheta è la quarta organizzazione di stampo mafioso nel mondo, con circa settanta miliardi di fatturato.

  • Il Gattopardo
  • Italia
  • Mafia
  • Tomasi Lampedusa

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Popper, Croce e le insidie di un paragone ellittico

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    Karl Popper riteneva che le regole fondamentali del metodo scientifico non fossero molto diverse da quelle della democrazia. Così come una teoria scientifica, per poter essere considerata tale, deve essere falsificabile, analogamente in democrazia chi viene eletto dal popolo per governare deve sottoporre il suo operato politico al giudizio del popolo e deve poter essere sostituito qualora il popolo ritenga che abbia governato male. Sia le teorie scientifiche, sia chi è stato eletto dai cittadini a ricoprire qualche carica politica deve sottoporsi alla controprova dell’esperienza e della storia. Così come una teoria che non ammette la possibilità di essere falsificata e non indica in quali circostanze potrebbe esserlo non è scientifica, così una società in cui chi governa non sottopone il proprio operato al giudizio degli elettori, nei tempi e modi previsti dalla legge, non è democratica. 

    Il marxismo è, secondo Popper, un tipico esempio di teoria non scientifica, in quanto non ha mai ammesso di poter essere falsificata dalle circostanze storiche che hanno smentito le sue previsioni. Trattandosi di una teoria imponente, che è riuscita a operare una sintesi poderosa e coerente tra l’idealismo dialettico di Hegel, il materialismo di Feuerbach, il pensiero degli economisti classici e anche un certo alone di scientismo positivista, ha egemonizzato l’ampio e articolato movimento che da ormai oltre mezzo secolo si stava battendo per realizzare una società che fosse più giusta oltre che più libera.

  • Croce
  • Paragone Ellittico
  • Popper

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