L'estetica del brutto
di Gaia Gavish
L’estetica è la scienza della conoscenza sensibile, la quale cerca di definire cosa è il bello e come esso si differenzia dal brutto. La disciplina estetica utilizza il termine brutto solo come la negazione del bello, ovvero il luogo in cui manca la bellezza. Il brutto può essere considerato, nell’antichità, come il non-essere, come ciò che non si può definire, proprio perché non è (se l’esistenza è positiva, allora è buona e, di conseguenza, è bella). Il brutto, dunque, non può esistere, perché è il negativo del bello; e proprio perché noi conosciamo il bello possiamo conoscere anche il bene; la kalokagathia è la bellezza morale saldamente unita al nostro bisogno del bello, necessario per comportarci e vivere in modo migliore.
Il brutto è diventato una vera e propria caratteristica dell’estetica solo con la nascita di quest’ultima. Addentrandosi nei sentimenti umani i filosofi finirono col collocare i sentimenti negativi in un luogo loro assegnato, ma questi sentimenti negativi non sono ancora identificati con il brutto. I sentimenti, visti ancora in maniera negativa, non dovevano essere sperimentati realmente, ma solo attraverso l’arte e il teatro, così da mascherare la realtà di codesti sentimenti e, nel tempo stesso, sperimentarli nel modo adeguato.
L'estetica di Simone Weil
di Gaia Gavish
“Un’opera d’arte ha un autore, eppure quando è perfetta ha qualcosa di essenzialmente anonimo. Imita l’anonimato dell’arte divina. Così la bellezza del mondo prova un Dio che è insieme personale e impersonale, è né l’uno né l’altro”. (Simone Weil)
Un’opera d’arte, come ogni essere umano, ha qualcosa di sacro; non è il suo modo da rappresentare la realtà, né il materiale usato, è la sua bellezza intera. Come l’opera d’arte, ogni essere umano ha qualcosa di sacro, che è la sua parte impersonale.
“Se quel che vi è di sacro in lui per me fosse la persona umana, potrei cavargli gli occhi. Una volta cieco, sarà una persona umana esattamente come prima”.
Ciò che trasforma la persona umana in sacra per me, dunque, non è il fatto che ho mutilato la sua ‘umanità’, ma è la mancanza di rispetto verso la sua persona. È impossibile definire il rispetto della persona; ogni volta che succede, ogni volta che siamo testimoni di un orrore del genere, proviamo ciò che Aristotele concepiva nella Poetica, ovveroi sentimenti di pietà e di terrore; questi sentimenti, presenti all’interno di ognuno di noi formano un grido silenzioso. Il grido è ciò che è sacro in ognuno di noi, è la necessità del bene, è la nostra impersonalità, dove il Bene è la sua unica fonte.
Il Bene non esiste, trascende ogni realtà, è fuori dal tempo e dallo spazio, di conseguenza, non avremo mai la capacità di conoscerlo. Nel mondo dei sensi e dei sentimenti, l’unico modello del Bene è il Bello, esso è la copia del Bene. Solo con la conoscenza sensibile possiamo conoscere la divinità del Bene, ed è con l’amore del Bello che amiamo Dio; in tutto ciò che suscita in noi il sentimento del bello Dio è presente.
La sfida della Cina alle democrazie europee secondo John Stuart Mill
John Stuart Mill fu un liberale e come Alexis de Tocqueville individuò con largo anticipo quelli che potevano essere i pericoli principali per la democrazia, convenendo con lui che questi fossero riconducibili al rischio che il governo di una maggioranza potesse privare le minoranze dei fondamentali diritti previsti dallo Stato liberale. Per questo, la democrazia era a suo avviso essenzialmente esposta al rischio di subire un’involuzione in senso autoritario.
Da liberale, tuttavia, Mill manifestò una certa simpatia per quel socialismo che in seguito Marx avrebbe definito “utopistico” e comprese che in economia bisognava distinguere nettamente fra le “leggi di produzione” e le “leggi di distribuzione”: mentre infatti le prime, sulla linea della tradizione classica, rimanevano legge di carattere “naturale”, le seconde venivano da lui considerate come dipendenti dalle istituzioni umane quindi storicamente relative, dato che gli uomini, individualmente o collettivamente, possono fare quel che ritengono più giusto, sotto il profilo etico, sociale, e politico, della ricchezza da loro prodotta.
In pratica, con circa un secolo di anticipo rispetto a John Mainard Keynes, Mill comprese che la società capitalistica non poteva essere migliorata modificando il modo con cui la ricchezza veniva prodotta e trasformando l’economia stessa - come Carl Marx proprio in quegli anni proponeva - in un sistema collettivistico, bensì intervenendo sul modo in cui la ricchezza prodotta veniva distribuita. Ferma restando in ogni caso l’esigenza di salvaguardare in primo luogo le libertà civili e politiche individuali e pur mettendo in guardia contro ogni forma di paternalismo burocratico, Mill ritiene infatti che possa essere ammesso, contro la tradizione del lassaiz faire, un vasto campo d’interventi pubblici nell’economia per distribuire la ricchezza nel modo più favorevole alla vita della collettività nel suo complesso.
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Leggendo Cioran che parla con Dio
Come è capitato a molti santi e mistici, anche il grande scrittore e saggista rumeno Emile Cioran ebbe con Dio un rapporto poco conciliante. Nel suo caso, sia la fede che la sua negazione, sia l’amore per Dio che l’odio per Dio, si fondavano su un rapporto autentico con la sofferenza, un rapporto cioè privo da infingimenti ed esente da strategie consolatorie. Come per Dostoevskij, anche per Cioran la sofferenza è infatti “la causa unica e sola della coscienza”. È solo grazie alla sofferenza che noi possiamo smettere di essere delle marionette, ed è solo grazie ad essa che noi possiamo acquisire la sensazione d’esistere.
Del resto, già prima di Dostoevskij i grandi tragici greci ce lo avevano insegnato: in base alla legge che sta a fondamento della tragedia attica, la legge del to pathei pathos, la conoscenza deriva essenzialmente dal dolore. “Gli uomini – scrive Cioran – si dividono in due categorie: quelli che lo hanno capito, e gli altri”. Giacomo Leopardi, per esempio, lo aveva capito molto bene, come si evince, in particolare, da un verso contenuto ne L’ultimo canto di Saffo, là dov’è scritto che “arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. Solo il dolore, infatti, può essere veramente conosciuto, solo esso non è per noi misterioso e quindi solo seguendo la traccia che lascia nella nostra vita possiamo in qualche modo intravederne un senso.