Pentimento e perdono
Intorno a La fragilità del male di Dietrich Bonhoeffer.
“Chi ama non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,” si legge nella Prima lettera ai Corinzi (13:5), e Dietrich Bonhoeffer, ne La fragilità del male, prende spunto da questo passo per osservare che, mentre la giustizia sembra illuminarci la strada “determinando il bene e il male, l’amore al contrario è cieco, consapevolmente cieco. Vede il male, ma non ne tiene conto: perdona. Soltanto l’amore può farlo. Dimentica. Non serba rancore”. Questo costituisce a suo avviso, e certo non solo per lui, un punto centrale per il cristianesimo: “se solo comprendessimo questo concetto: l’amore non serba rancore. Ogni giorno è un giorno nuovo che affronta con rinnovato sentimento, dimenticando il passato. Per questo motivo gli uomini si fanno beffe di lui, lo scherniscono. E nonostante questo continua ad accrescersi sempre di più”.
Gesù dice anche a Pietro di perdonare non “fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, 18: 21-22) e ciò perché “perdonare e scusare non sono azioni che si contano o che hanno un limite. Non preoccuparti se hai ragione oppure no. Spetta a Dio decidere. Tu puoi farlo senza fine, perché il perdono non ha inizio e non ha termine. Si verifica quotidianamente e di continuo, perché proviene dal Signore. È la liberazione da ogni ostilità nei confronti del prossimo, perché così siamo liberati da noi stessi. Dobbiamo rinunciare al nostro proprio diritto per aiutare e servire l’altro”.
Piero Martinetti, Simone Weil e l'attualità del marcionismo
Piero Martinetti e Simone Weil sono morti entrambi nel 1943 e si può presumere che ignorassero reciprocamente le loro opere. Ebbero entrambi atteggiamenti pubblici intransigenti verso il fascismo e il nazismo: la Weil tornò appositamente in Europa dagli Stati Uniti per combattere Hitler e Martinetti fu l’unico filosofo tra la dozzina di professori che su 1200 accademici italiani si rifiutò di prestare giuramento al regime. Inoltre, entrambi mostrarono qualche simpatia per il marcionismo.
Marcione di Sinope fu un eretico della metà del secondo secolo che considerava il Vecchio Testamento come il prodotto di un Dio che aveva tutti i pregi e i difetti dell’umanità e la cui legge risultava da una miscellanea di giustizia e di arbitrio, di amore e odio. Il Messia che aveva promesso non era mai giunto sulla terra, mentre un altro Dio, quello che aveva ispirato i primi tre vangeli, aveva mandato suo Figlio, Gesù Cristo, nel mondo per liberare gli uomini dagli effetti della materia e della legge di quel primo Dio.
Secondo la lettura che viene fornita da Ernst Bloch, Marcione fu colui che “cercò di strappare radicalmente Gesù dal quadro biblico-giudaico durato fino ad allora. E ciò avvenne, notiamolo bene, senza una qualsiasi tensione o inimicizia verso i Giudei (Marcione venerava il giudeo Paolo come il suo maestro); ma nulla Gesù aveva in comune con la Bibbia di Jahvé fintanto che essa rimane tale. Marcione non solo poneva il messaggio di Cristo in contrapposizione con l’Antico Testamento, ma ne faceva qualcosa di assolutamente diverso; la rottura con l’Antico segue dunque al salto dell’Evangelo nel nuovo che appare senza confronti. In tal modo è in primo luogo a partire da Marcione che si è sviluppato ed è stato posto in risalto in genere il concetto di un Nuovo Testamento” (E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, trad. it. Milano, 1971; ed. cit. 1983, p. 227).
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Il coefficiente di Gini e un'idea liberale di giustizia
Il proposito di coniugare gli ideali di libertà e di giustizia, riproposto con alterne fortune da oltre due secoli, è sembrato erroneo, vano o improbabile tanto a molti liberali quanto a molti socialisti. Se per quelli che lo hanno adottato le sconfitte politiche sono state più frequenti delle vittorie, tuttavia nel lungo periodo non si può non registrare una crescita in parallelo sia del socialismo riformista e liberale rispetto a quello massimalista e terzo-internazionalista, sia di un liberalismo sempre più spesso temperato da correttivi volti a favorire una ridistribuzione complessiva della ricchezza.
Nonostante le dispute che coinvolsero socialisti liberali o liberalsocialisti come Aldo e Nello Rosselli, Piero Calamandrei, Gaetano Salvemini, Aldo Capitini, Guido Calogero, Ernesto Rossi, Norberto Bobbio e molti altri, il loro tentativo di dare vita a un tipo di società che cercasse di coniugare in maniera efficace i valori della libertà e della giustizia è stato recepito dai padri costituenti, che ne hanno fatto due riferimenti cruciali della carta costituzionale. Alle riserve di Benedetto Croce circa la commistione di due principi a suo avviso eterogenei come quelli di libertà e di giustizia, rispose poi nel merito Guido Calogero, secondo il quale l’ideale di giustizia – che non significa ugualitarismo economico o sociale, ma l’impegno delle comunità a garantire ad ogni cittadino una dignità sociale e una disponibilità economica idonee a esercitare quelle libertà fondamentali altrimenti destinate a restare astrazioni sulla carta dei diritti – è fondamentale per la realizzazione di una vera uguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali previsti dallo Stato liberale: “la civiltà – scriveva infatti Calogero – tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano ad inventare e a instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera di libertà”.
Oggi le differenze tra destra e sinistra non consistono più, come un secolo fa, nel proporre due strutture diverse ed opposte della società (in base alla presenza o assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione), ma sono più che altro riconducibili a dosaggi diversi dell’intervento dello Stato nell’economia. Dopo John Maynard Keynes non è affatto detto che anche un governo a guida liberale non ritenga opportune misure di welfare più o meno permanenti: una certa giustizia distributiva, infatti, non ha solo l’effetto di realizzare un ideale di tipo etico-politico, ma anche quello di rendere la società meno conflittuale e dunque più efficiente e produttiva, nonché quello, non secondario, di favorire la crescita della domanda interna, con tutto ciò che può seguirne in termini di ricaduta sull’offerta e sui livelli occupazionali.
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Un maestro e un amico. Ernesto Rossi e il suo ritratto di Gaetano Salvemini
Era da pochi mesi finita la prima mondiale quando Ernesto Rossi conobbe Gaetano Salvemini. Fu una domenica a Firenze, in una saletta nei pressi del cimitero degli inglesi in cui lui ed altri si erano ritrovati per discutere di sistemi elettorali. C’erano una cinquantina di persone, per lo più collaboratori o lettori dell’Unità, la rivista che Salvemini diresse dal 1911 al 1920.
In quella saletta un tizio stava parlando in mezzo a una gran confusione e continuò a parlare per più di un’ora. Alla fine del suo discorso nessuno ci aveva capito nulla e quando Salvemini prese la parola iniziò il suo intervento così: “l’amico che abbiamo ora ascoltato, ha detto che…” e a poco a poco – racconta Rossi - “fu come se, in un treno che è stato trascinato a lungo sotto la pioggia da una sbuffante macchina a vapore, qualcuno strusciasse col fazzoletto pulito sul vetro del finestrino sporco di fuliggine. Parlava ed il vetro diveniva sempre più limpido, e sempre più chiaro si vedeva il paesaggio fino al lontano orizzonte. Dopo avere riassunto non quello che aveva detto, ma quello che avrebbe dovuto dire il precedente oratore, Salvemini prese a sviluppare il filo delle sue deduzioni. Con una logica così semplice e così rigorosa che non sarebbe stato possibile non capire. Alla fine della sua esposizione il sistema della rappresentanza proporzionale, che prima ci sembrava un terribile rompicapo, era divenuto la cosa più semplice del mondo”. Allora, rivolto chi gli sedeva accanto, Rossi commentò: “per un intellettuale, chiarezza equivale ad onestà”.
I primi passi dell’amicizia tra Rossi e Salvemini furono piuttosto difficili. Quando si conobbero Rossi aveva ventidue anni e nessuna esperienza politica: “ero andato al fronte – scrive - come volontario di guerra, non per Trento e Trieste, ma per impedire che il militarismo tedesco soffocasse, per tutta un’epoca, la libertà in Europa. Durante l’ora della cosiddetta ‘morale’, avevo letto e spiegato ai miei soldati I doveri dell’uomo di Mazzini. Tornato a Firenze, mutilato, non potevo ammettere che tutte le sofferenze patite e il sacrificio di tante giovani vite (avevo perduto al fronte anche mio fratello maggiore e i miei due migliori amici) venissero vilipesi dai socialisti, che erano stati in gran parte imboscati nelle fabbriche d’armi, e che, fino a Caporetto, avevano adottato la vile politica del <<non collaborare, né sabotare>>”.
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